Fibrosi polmonare riacutizzata e ventilazione non-invasiva.

23 dic 2012


Qualche tempo fa una lettrice di ventilab mi chiese un approfondimento su ventilazione non-invasiva e fibrosi polmonare. Come tutti i rianimatori purtroppo vedo sporadicamente solo le gravi riacutizzazioni nei pazienti fibrotici e la storia è sempre la stessa: si inizia la ventilazione invasiva (spesso le informazioni sono poche quando di devono prendere le prime decisioni) e si combatte una battaglia persa. Non avendo quindi un'esperienza personale significativa sulla ventilazione non-invasiva nella fibrosi polmonare, ho chiesto a chi ne ha più di me di scrivere un post per ventilab su questo argomento. Ringraziamo quindi il dott. Luca Barbano della Unità Operativa di Pneumologia della Fondazione Maugeri di Lumezzane per avere condiviso con noi la propria conoscenza ed esperienza su ventilazione non-invasiva e fibrosi polmonare. Con grande piacere pubblico su ventilab il suo contributo. Grazie ancora, Luca.


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L’argomento proposto prende in considerazione una condizione particolare di utilizzo della ventilazione non-invasiva con pochi studi al riguardo e per questo senza una evidenza di utilizzo. Ci sono dei margini di utilizzo della ventilazione non-invasiva in un paziente affetto da riacutizzazione di fibrosi polmonare idiopatica con peggioramento degli scambi respiratori?


La fibrosi polmonare idiopatica è una patologia cronica, progressiva con esito infausto. La terapia medica al momento non riesce a incidere significativamente sulla progressione della malattia e per questo è una delle patologie respiratorie per cui è previsto il trapianto polmonare.


Circa il 10% dei pazienti con fibrosi polmonare, imprevedibilmente, possono andare incontro a repentine riacutizzazioni che li portano all'attenzione dello Pneumologo e/o dell'Intensivista. Sono caratterizzate da peggioramento della dispnea e della ossiemia da meno di 1 mese, con comparsa di nuovi infiltrati polmonari escludendo ogni altra causa identificabile di insulto polmonare (a genesi cardiaca o infettiva) (1)


 Nella pratica clinica ci potremo allora trovare di fronte a 3 scenari (vedi figura 1). (2)





A) naturale evoluzione della malattia: peggioramento in pazienti che si trovano in stadio finale di malattia, già in O2 terapia ad alti flussi; sarà necessario prendere decisioni riguardanti interventi di palliatività (necessaria anamnesi patologica recente per conoscere la situazione degli ultimi mesi di malattia);


B)  vera riacutizzazione: il paziente va incontro a fatica respiratoria molto velocemente tanto da non avere tempo di poter eseguire indagini per scoprire la causa del peggioramento per cui si prende tempo iniziando un supporto ventilatorio;


C) vera riacutizzazione con ingresso in reparto medico non intensivo: la causa non è direttamente riconducibile alla fibrosi polmonare ma determina un peggioramento degli scambi respiratori del paziente (la risoluzione del problema determinerebbe il miglioramento respiratorio).


In ogni caso anche quando si tratta di riacutizzazione vera di fibrosi polmonare idiopatica senza una chiara eziologia sembrerebbe che alla base comunque ci possano essere virus tipo EBV, CMV, HS, influenzale (ricordiamoci che sono pz. in molti casi in terapia con immunosoppressori) (3)


Non ci sono molti studi sulla modalità di ventilazione di questi pazienti. La maggior parte di questi prende in considerazione la ventilazione invasiva. Anche la Consensus Conference 2011 sulla fibrosi polmonare idiopatica conferma la possibilità della ventilazione invasiva ponendo l'accento però sulla elevatissima mortalità intraospedaliera (67-96%) che raggiunge il 100% a 2 mesi dalla dimissione.


Pochi studi prendono in considerazione anche pazienti con ventilazione non-invasiva.


Quale ruolo può avere la ventilazione non-invasiva ?


La ventilazione non-invasiva può avere due vantaggi potenziali:


1- offre una possibilità per evitare l'intubazione (gravata da elevatissima mortalità) (4,5,6)


2- evita le complicanze della ventilazione invasiva (polmoniti associate al ventilatore e ventilator-associated injury)


Vorrei sottolineare due considerazioni che ritengo fondamentali per una corretta applicazione della ventilazione non-invasiva in condizioni di insufficienza respiratoria acuta in questi pazienti:


1- necessità di ventilatori con possibilità di monitoraggio delle curve, di trigger flow-by, di determinazione esatta della FiO2 e di ottimale umidificazione;


2- utilizzo degli stessi ventilatori in ambienti che garantiscano uno shift con la ventilazione invasiva immediato.


Dagli studi non ci sono indicazioni circa un settaggio ottimale. Dal punto di vista fisiopatologico sono pazienti con polmoni difficili da espandere con bassa compliance per cui nella nostra esperienza utilizziamo: modalità pressione di supporto con valori di pressione di supporto con incremento progressivo a comfort (si arriva a valori di 18-20 cmH2O); PEEP non elevata (in genere 4-5 cmH2O). L’obiettivo è ridurre la frequenza respiratoria, migliorare saturazione di O2 e scambi gassosi (Mollica et al. riportano pressione di supporto media di 18 cmH2O e PEEP media 7 cmH2O) (3). Negli studi giapponesi Yokoyama ha utilizzato CPAP con pressione media a 12 cmH2O (4), Tomii sia CPAP che pressione di supporto+PEEP (5). Un'altra opzione potrebbe essere l'utilizzo di modalità volumetrica ma nella nostra esperienza è meno tollerata con raggiungimento di alte pressioni di picco e maggiore probabilità di perdita dalla maschera. L’interfaccia utilizzata nello studio di Mollica era il casco anche se nella nostra esperienza utilizziamo maschera oronasale.


Le condizioni che determinano il fallimento della ventilazione non-invasiva sono quelle classiche, date da comparsa di coma, instabilità cardiovascolare, scarsa compliance alla ventilazione e chiari segni di fatica respiratoria.


In conclusione la ventilazione non-invasiva nella fibrosi polmonare idiopatica può essere usata:





  • in pazienti con situazione generale non drammaticamente compromessa (in uno studio i pazienti ventilati in ventilazione non-invasiva avevano APACHE medio 19 (3)), come opzione percorribile in considerazione dell'alto tasso di fallimento della ventilazione invasiva e della sua alta mortalità (tenendo sempre presente la possibilità di intervenire con una ventilazione invasiva)



  • come trattamento palliativo di controllo dei sintomi in pazienti esclusi dalla lista trapianto in stadio terminale di malattia che abbiano espressamente rifiutato approccio invasivo.


 

Bibliografia.


1- An Official ATS/ERS/JRS/ALAT Statement: Idiopathic Pulmonary Fibrosis: Evidence-based Guidelines for Diagnosis and Management. Am J Respir Crit Care Med Vol 183. pp 788–824, 2011


2- Papiris SA, Manali ED, Kolilekas L, Kagouridis K, Triantafillidou C, Tsangaris I and Roussos C. Clinical review: idiopathic pulmonary fibrosis acute exacerbations - unravelling Ariadne’s thread Critical Care 2010, 14:246


3- Hyzy R, Huang S,J Myers J,. Flaherty K, Martinez F. Acute exacerbation of idiopathic pulmonary fibrosis. Chest 2007; 132: 1652-1658


4- Mollica C, Paone G, Conti V, Ceccarelli D, Schmid G, Mattia P, Perrone N, Petroianni A, Sebastiani A, Cecchini L, Orsetti R, Terzano C. Mechanical Ventilation in Patients with End-Stage Idiopathic Pulmonary Fibrosis Respiration 2010;79:209


5- Keisuke Tomii K, Tachikawa R, Chin K, Murase K, Handa T, Mishima M and Ishihara K. Role of Non-invasive Ventilation in Managing Life-threatening Acute Exacerbation of Interstitial Pneumonia. Inter Med 49: 1341-1347, 2010


6- Yokoyama T, Kondoh Y , Taniguchi H, Kataoka K , Kato, K, Nishiyama O , Kimura T, Hasegawa R and Kubo K. Noninvasive Ventilation in Acute Exacerbation of Idiopathic Pulmonary Fibrosis. Inter Med 49: 1509-1514, 2010

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ARDS primitiva e secondaria: una distinzione utile o no?

13 dic 2012

Bentrovati a tutti, oggi propongo un tema di rilevanza pratica non immediata ma che penso possa essere egualmente interessante: le correlazioni tra eziopatogenesi, alterazioni anatomopatologiche, meccanica del sistema respiratorio e possibili effetti della terapia ventilatoria nella ARDS (acute respiratory distress syndrome).

La ARDS non è determinata da una causa eziopatogenetica definita, ma rappresenta una risposta aspecifica a svariati insulti patogeni, caratterizzata da insorgenza acuta, ipossiemia, infiltrati polmonari bilaterali, aumento dell’elastanza del sistema respiratorio e riduzione della capacità funzionale residua (per la definizione di ARDS vedi post del 24 giugno 2012).[1]

Schematicamente, la ARDS è detta primitiva (o primaria, o polmonare, ARDSp) se la noxa colpisce direttamente il parenchima polmonare (per esempio in caso di polmonite, aspirazione di contenuto gastrico, semi-annegamento, contusioni polmonari, inalazione di tossici, ecc.); si parla invece di ARDS secondaria (o extrapolmonare, ARDSexp) se la noxa agisce indirettamente sui polmoni, attraverso una reazione infiammatoria sistemica acuta (per esempio in caso di sepsi grave, trauma maggiore, by-pass cardiopolmonare, trasfusioni massive, pancreatite acuta, ecc.).[1]

Spesso la differenziazione tra le due diverse modalità di lesione è facile, come nel caso di polmoniti primarie, oppure di pancreatite; talvolta però l’identificazione del meccanismo è più dubbia, come in caso di traumi o di chirurgia cardiaca.[2]

La distinzione tra i due tipi di ARDS non è solo speculativa: a partire dagli anni ’90 sono state identificate alcune caratteristiche anatomopatologiche, morfologiche e fisiopatologiche che spesso differenziano le due forme, almeno nelle fasi iniziali (cioè nella prima settimana dall'insorgenza)*, e che possiamo così sintetizzare:

  • anatomia patologica:


- ARDSp: la struttura primariamente danneggiata è l'epitelio alveolare, con aumento della sua permeabilità, attivazione di macrofagi, riduzione di surfattante e inondamento intraalveolare da parte di essudato ricco in fibrina, collagene, aggregati neutrofilici: si ha tendenza precoce e al consolidamento delle aree colpite e alla fibrosi. Il liquido di lavaggio bronco-alveolare (BAL) è ricco di citokine infiammatorie.
- ARDSexp: i mediatori della flogosi, prodotti a livello extrapolmonare, raggiungono per via ematica e danneggiano primariamente l'endotelio dei capillari alveolari, con incremento della permeabilità, attivazione di monociti, neutrofili e piastrine, formazione di microtrombi, congestione capillare e edema interstiziale; gli spazi intraalveolari sono relativamente risparmiati ma il maggior peso dell'interstizio imbibito causa secondariamente collasso e atelettasia delle aree del polmone sottoposte alla forza di gravità (quelle posteriori, se il paziente è allettato). Il BAL è relativamente povero di citokine.[3]

  • radiologia:


- ARDSp: prevalente coinvolgimento multifocale e asimmetrico dei polmoni, con più o meno estese aree di consolidamento parenchimale (opacità molto dense) miste a zone di addensamento tipo vetro smerigliato (meno dense).
- ARDSexp: distribuzione più simmetrica e uniforme di aree di addensamento a vetro smerigliato (come risultato di un danno interstiziale diffuso) associata a zone dorsali di consolidamento da atelettasia.[4]

  • meccanica respiratoria:


- ARDSp: l'aumentata elastanza del sistema respiratorio è attribuibile prevalentemente all'aumentata rigidità dei polmoni.
- ARDSexp: l'aumentata elastanza del sistema respiratorio è attribuibile più spesso all'aumentata rigidità della parete toracica, in particolare al diaframma e all'aumentata pressione intraaddominale. [5]

 



Ma quali ricadute pratiche può avere questa diversità tra le due condizioni?

Sebbene numerosi studi, sia clinici, sia su modelli animali, suggeriscano che in caso di ARDSexp i polmoni siano più facilmente reclutabili in seguito all'applicazione della pressione positiva (PEEP, manovre di reclutamento, sospiri intermittenti) o in seguito alla pronazione del paziente rispetto alla ARDSp, altre osservazioni non confermano queste conclusioni. Schematicamente, la PEEP favorirebbe la riapertura di alveoli collassati atelettasici nell'ARDSexp, mentre nell'ARDSp non sarebbe sufficiente a riespandere le aree consolidate e rischierebbe di determinare sovradistensione delle unità già areate. Le ragioni della incongruenza di risultati tra i diversi studi possono essere molte: difficoltà ad attribuire con certezza molti casi di ARDS ad una delle due categorie, eterogeneità del livello di gravità e della fase di evoluzione della malattia, uso di farmaci vasoattivi o impatto della gittata cardiaca sugli scambi gassosi, differenze in pressione transpolmonare ottenuta a parità di pressione applicata nelle vie aeree, solo per citarne alcune.[6] Probabilmente per analoghi motivi anche i dati sulla mortalità delle due forme di ARDS sono sostanzialmente incongruenti nel rilevare differenze.[6]

In conclusione, indipendentemente dal meccanismo eziopatogenetico che pensiamo di aver individuato[7], nel trattamento dell'ARDS dobbiamo per ora continuare ad attenerci ai criteri della ventilazione protettiva ricavabili dalla letteratura accreditata, individualizzando per quanto possibile la ventilazione alle caratteristiche del paziente che stiamo curando.
Se la risposta clinica del paziente ai trattamenti corroborerà la nostra ipotesi patogenetica, questo post avrà forse raggiunto il suo scopo.

Un caro saluto a tutti.

 

* L'evoluzione successiva è grosso modo comune alle due forme e consiste in progressiva proliferazione fibroblastica e distruzione lobulare, con esito finale in fibrosi associata a rarefazione interstiziale.

 

 

Bibliografia

  1. Bernard GR, et al. The American-European Consensus Conference on ARDS: Definitions, mechanisms, relevant outcomes and clinical trial coordination. Am J Respir Crit Care Med 1994; 149:818-24


  2. Pelosi P, et al. Pulmonary and extrapulmonary acute respiratory distress syndrome are different. Eur Respir J 2003; 22: Suppl. 42, 48s-56s


  3. Rocco PR, et al. Pulmonary and extrapulmonary acute respiratory distress syndrome: are they different? Curr Opin Crit Care 2005; 11:10-17


  4. Goodman LR et al. Adult respiratory distress syndrome due to pulmonary and extrapulmonary causes: CT, clinical, and functional correlation. Radiology 1999; 213:545-552


  5. Gattinoni L et al. Acute respiratory distress syndrome caused by pulmonary and extrapulmonary disease: different syndromes? Am J Respir Crit Care Med 1998; 158:3-11


  6. Rocco PR et al. Pulmonary and extrapulmonary acute respiratory distress syndrome: myth or reality? Curr Opin Crit Care 2008; 14:50–55


  7. Thille AW et al. Alveolar recruitment in pulmonary and extrapulmonary acute respiratory distress syndrome. Anesthesiology 2007; 106:212-217


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Tracheocannula: i risultati del sondaggio.

8 dic 2012
Ecco le risposte al sondaggio proposto nel post del 18 novembre 2012. Ricordo la domanda: "Un paziente trachetomizzato disfagico, ma senza più necessità di supporto ventilatorio, è in fase di dimissione dalla Terapia Intensiva. Come ritieni possa essere gestita al meglio la tracheocannula?"


Le risposte "Altro" indicano tutte la stessa risposta: si mantiene la tracheocannula scuffiata, cuffiandola durante la nutrizione per os.

Due possibili atteggiamenti sono prevalenti: si mantiene la tracheocannula cuffiata oppure si fa downsizing con una cannula non cuffiata. Due scelte profondamente diverse ma, in Terapia Intensiva, entrambe ragionevoli.

Il 86% delle risposte sono state date da medici, restante 14% da infermieri e fisioterapisti. Prevalente l'estrazione rianimatoria dei rispondenti (69%) seguita da quella riabilitativa/pneumologica (22%).

Un grazie a tutti i lettori attivi che hanno partecipato al sondaggio.

A presto (nei prossimi giorni un post di Daniele Tuzzo su ARDS polmonare ed extrapolmonare).

 


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Avviso: flow limitation nei pazienti in ventilazione meccanica, progetto di studio collaborativo

25 nov 2012

Ventilab
nasce per promuovere formazione e ricerca su insufficienza respiratoria e ventilazione meccanica (come scritto nel sottotitolo). Fino ad ora abbiamo svolto la nostra attività nell'area formativa, ora vogliamo lanciare un progetto collaborativo di ricerca che coinvolga tutti gli amici di ventilab. E' una nuova sfida, vediamo se saremo, tutti insieme, bravi a portarla a termine.

Ed ecco la chiamata "alle armi" del popolo di ventilab (negli ultimi 30 giorni 4704 visitatori unici).

Il progetto ha come area di studio la flow limitation nei pazienti in ventilazione meccanica. I dettagli saranno presentati e discussi con le persone che parteciperanno al gruppo di ricerca. Di seguito troverai alcune informazioni che ti possono dare l'idea se, per te, vale la pena impegnarti in questo progetto:

Obiettivo dello studio: Effetto della flow limitation sulla ventilazione meccanica;

Disegno dello studio: studio caso-controllo (nested);

Criterio di inclusione: presenza di PEEP intriseca durante ventilazione controllata in pazienti intubati (dato suggerito dall'interruzione del flusso espiratorio). Sarebbe preferibile l'adesione di centri che possano studiare almeno 8-10 pazienti in circa 6 mesi;

Manovre da eseguire: manovra di compressione manuale dell'addome (vedi post "Flow limitation: diagnosi ed implicazioni cliniche" del 4 giugno 2012);

Requisiti tecnici minimi: un ventilatore meccanico che consenta di visualizzare il loop flusso-volume e di congelarlo sullo schermo (come loop di riferimento) mentre i successivi loop continuano a scorrere (i ventilatori Servo-i Maquet e GE, ad esempio, vanno benissimo);

Durata dello studio su ciascun paziente: circa 20'

Durata dello protocollo: 6 mesi

Lo studio è di natura osservazionale: infatti gli interventi (come la compressione manuale dell'addome) fanno parte della miglior pratica clinica. Per questo motivo l'approvazione dei Comitati Etici dei centri che parteciperanno dovrebbe essere piuttosto semplice. Siamo disponibili a fornire la documentazione già inviata al nostro Comitato Etico.

La partecipazione ad uno studio clinico è un momento fantastico per far uscire dalla teoria conoscenze sbiadite, calarle nella pratica, renderle vive, capirle profondamente e non dimenticarle mai più. E' quindi la miglior modalità di formazione: partecipare vuol dire imparare. Chiunque sia riuscito a leggere il post fino a questo punto è in grado di partecipare, a patto che abbia tanta buona volontà. Per tutto lo studio ci sarà sempre il supporto tecnico-scientifico di ventilab: lavoreremo sempre tutti insieme.

Se sei interessato a partecipare, mandami una mail a ventilab.org@gmail.com  Ti ricontatteremo per darti tutte le ulteriori informazioni necessarie.

Ti aspetto.
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Tracheocannula: quando la scelta non è semplice.

18 nov 2012

Parliamo ancora di tracheotomia e tracheocannula. Dopo aver letto i commenti al post precedente (grazie per la preziosa collaborazione ai commentatori!) sembra che possiamo essere d'accordo che la rimozione della tracheocannula del paziente che ha riacquistato autonomia ventilatoria, tosse efficace e deglitizione coordinata non è un problema: downsizing o non downsizing, si toglie la cannula e stop. In caso di dubbi sulla pervietà delle vie aeree superiori, può essere opportuno fare precedere alla rimozione della tracheocannula sicuramente un capping trial e probabilmente una fibroscopia.

I problemi nascono quando il paziente è svezzato dalla ventilazione ma presenta ancora disfagia e magari una tosse poco efficace. Che fare in questi casi? Prima di continuare nella lettura del post, puoi darmi la tua opinione e rispondere al sondaggio che ti propongo?



Le risposte al quesito del sondaggio possono essere argomentate nello spazio riservato ai commenti.

Mi è stato anticipato che qualche amico di ventilab sta lavorando per noi, per darci la possibilità arricchire le nostre capacità di gestione della tracheocannula grazie ad un approccio multidisciplinare e up-to-date. Aspettiamo e vedremo.

Ed ora concludiamo il post con una interessante riflessione del dott. Davide Mazzon, responsabile della UO di Anestesia e Rianimazione dell'ospedale di Belluno, al quale dobbiamo lo stimolo per avere riconsiderato la gestione della tracheocannula.

Il dott. Mazzon ha gentilmente scelto di condividere con gli amici di ventilab il testo della relazione su "La cannula tracheotomica: sempre cosa buona e giusta?" che ha tenuto all'ultimo congresso della Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva tenutosi a Napoli dal 24 al 27 ottobre 2012. Ringraziandolo, gli passo la parola. Un saluto a tutti.

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LA CANNULA TRACHEOTOMICA: SEMPRE COSA BUONA E GIUSTA?


D. Mazzon, *R. Muzzolon, L. Bernardi


UO Anestesia e rianimazione e *UO di Pneumologia Ospedale di Belluno


Le condizioni in cui viene praticata una tracheotomia (T) in Terapia Intensiva (TI) sono riconducibili sostanzialmente a 3: necessità di ventilazione meccanica invasiva, necessità di bypassare una ostruzione delle prime vie aeree, necessità di aspirare secrezioni tracheobronchiali. Una parte di T vengono praticate in pazienti affetti da patologie acute, in cui l’informazione ed il consenso del paziente sono raramente perseguibili; in tale caso, la probabile assenza di disposizioni anticipate di trattamento circa la T fanno sì che, quando la scelta pare clinicamente appropriata, il parere medico debba in genere trovare applicazione. Nel caso in cui l’appropriatezza clinica sia incerta per età avanzata, prognosi della malattia in corso e patologie concomitanti, va fatto ogni tentativo, con l’aiuto dei familiari, per comprendere se il paziente darebbe il proprio consenso alla T. Esiste però una quota non trascurabile di T che vengono praticate in pazienti affetti da patologie croniche, quando vengono poste indicazione alla ventilazione meccanica invasiva continua o alla presenza di un accesso tracheale permanente per garantire la tracheoaspirazione. In tali casi, è auspicabile che la scelta consapevole del paziente avvenga alla conclusione di un percorso avviato dallo specialista che lo ha in cura per la patologia cronica (Es.: SLA, BPCO, Distrofia Muscolare, ecc.). Uno schema esemplificativo di quanto sinora detto è rappresentato nella fig. 1.


Dal momento che l’esecuzione di una T “precoce”, non oltre 5-7 gg di intubazione orotracheale, favorisce lo svezzamento dal respiratore e riduce la durata della degenza in TI (1), i pazienti sottoposti a T temporanea vengono generalmente trasferiti ancora con la cannula in sede in reparti a minore intensità di cure. Si consegue così apparentemente un doppio beneficio: quello del paziente, che si avvale di una riduzione della durata della ventilazione con riduzione del rischio di contrarre polmonite associata al ventilatore (VAP), e quello della struttura, che da un più rapido turnover dei letti intensivi trae il vantaggio di poter dare una pronta risposta alla richiesta di posti-letto ad alta intensità di cure. Secondo i dati GIVITI 2010, il 7.2% dei pazienti viene trasferito dalla TI con la cannula tracheotomica ancora in sede.


Negli ultimi anni, sistemi strutturati di segnalazioni di Eventi Avversi (EA) hanno messo in luce come gli EA legati alla gestione delle cannule sono altrettanto frequenti ma possono avere esiti più gravi rispetto a quelli legati al tubo endotracheale (TET), mettendo così in crisi la convinzione che la via aerea fosse più sicura in TI con una cannula tracheale anzichè con un TET.


Il rischio di EA gravi a carico di pazienti tracheotomizzati nei reparti di degenza è ben documentato nel database dell’UK Patient Safety Agency, che riporta 453 EA avvenuti fra il 2005 e il 2007, di cui 338 con danno al paziente, in 15 casi direttamente correlati al decesso del paziente stesso. I fattori contribuenti agli EA sono stati: mancanza di piano e di strumenti per gestire situazioni di emergenza, mancanza di disponibilità h 24 di endoscopia respiratoria, mancato uso di cannule “sicure” per il reparto (con controcannula), mancata formazione degli operatori, scarse informazioni all’atto del trasferimento dalla TI e delle consegne fra il personale del reparto di degenza, mancata conoscenza della differenza fra tracheotomizzato e laringectomizzato, assenza di specifiche Linee-Guida e procedure aziendali (2).


L’impatto della presenza della cannula tracheotomica sulla mortalità del paziente, una volta trasferito dalla TI in reparto di degenza, è stato studiato in 2 recenti studi che hanno portato a risultati contrapposti (3,4).


L’Editoriale che accompagna il lavoro di Fernandez e Coll. suggerisce di non interpretare i dati di tale studio multicentrico come una affermazione circa la sicurezza in generale della trasferibilità di un paziente con cannula tracheotomica dalla TI. Dobbiamo invece chiederci caso per caso se la combinazione delle caratteristiche di quel paziente e di quel reparto danno sufficienti garanzie di sicurezza per la gestione di una cannula tracheotomica e conseguentemente stabilire i tempi e i luoghi più idonei per la decannulazione, che deve essere condotta secondo modalità predefinite (5).


La TI dell’Ospedale di Belluno si è dotata dal 2005 di un sistema di rilevazione degli EA con segnalazione volontaria su scheda di IR (6). Gli EA legati al controllo/gestione delle vie aeree sono stati 34. Quelli legati alla gestione della cannula sono stati 5, di cui 1 solo con livello di gravità pari a 4 (livello 1-2: “near miss”; 2-4: nessun danno per il paziente; 5-8: danno moderato, significativo, severo al paziente), 3 con gravità pari a 6 ed 1 con gravità pari a 8, generato al di fuori della TI e riguardante una decannulazione tracheotomica accidentale seguita dal tentativo di riposizionamento non andato a buon fine.


La constatazione del rischio di EA potenzialmente fatali nel paziente portatore di cannula tracheotomica nei reparti di degenza, induce ad aprire una riflessione sul beneficio fornito al paziente da una tracheotomia precoce in relazione ai rischi cui egli può andare incontro a causa di una successiva gestione inappropriata e non sicura al di fuori della TI.


La sicurezza del paziente con cannula tracheotomica al di fuori della TI dipende da un lato dalla pianificazione da parte della TI di un progetto di gestione a breve-medio periodo che comprende prescrizioni su: umidificazione, gestione della controcannula, tempi e modalità dei cambi cannula, dello svezzamento, dell’uso della valvola fonatoria, indicazione di una figura o di un “team” di riferimento per un follow-up strutturato.


Dall’altro lato è cruciale che il personale sanitario del reparto di destinazione sia in grado non solo di praticare al paziente con cannula tracheotomica l’assistenza “ordinaria” (medicazione, aspirazione, gestione dell’umidificazione e della controcannula, ecc.), ma che sia anche in grado di riconoscere i segni e sintomi precoci ed intervenire tempestivamente ed efficacemente in caso di emergenze come: ostruzione, dislocazione/rimozione accidentale, emorragia.


I benefici della cannula tracheotomica non devono essere quindi solo valutati in relazione alla sua utilità al fine di un rapido trasferimento dalla TI. Essi vanno bilanciati con il rischio concreto che il paziente venga collocato in una sorta di “terra di nessuno” clinico-assistenziale ove è esposto al pericolo di EA anche fatali, riducibili con l’adozione di un “pacchetto” di misure precauzionali. La corretta informazione sulle problematiche connesse alla cannula e la formazione del personale coinvolto nella gestione della cannula rendono opportuno un coinvolgimento diretto dell’A/R per la competenza acquisita nella gestione della cannula in TI.


Solo realizzando questi requisiti, la gestione di un paziente con cannula tracheale potrà soddisfare le fondamentali dimensioni dell’appropriatezza: etico-deontologica, clinica, organizzativa. Solo la cannula tracheotomica applicata al paziente giusto, nel momento giusto, in un contesto organizzativo ottimale per garantirne la sicurezza, è “cosa buona e giusta”.


BIBLIOGRAFIA


1) Griffiths G, Barber VS, Morgan L et al.: Sistematic review and meta-analysis of studies of the timing of tracheostomy in adult patients undergoing mechanical ventilation. BMJ 2005; 330(7502):1243-1255


2) McGrath BA, Thomas AN.: Patient safety incidents associated with tracheostomies occurring in hospital wards: a review of reports to the UK National Patient safety Agency. Postgrad Med J 2010;86:522-525


3) Hernandez Martinez G, Fernandez R, Sanchez Casado M et al.: Tracheostomy tube un place at ICU discharge is associated with increased ward mortality: Respiratory Care; 2009; 54(12):1664-1652


4) Fernandez R, Tizon AL, Gonzales J, et al.: ICU discharge to the ward with a tracheostomy cannula as a risk factor for mortality: a prospective, multicenter propensity analysis. Crit Care Med 2011; 39(10):2240-5


5) Schmidt U, Hess D, Bittner E.: To decannulate or not to decannulate: a combination of readiness for the floor and floor readiness? Crit Care Med 2011;39(10):2360-2361


6) Mazzon D, Bernardi L, Dorigo L et al.: L’Incident Reporting migliora la sicurezza dei pazienti in Anestesia e Rianimazione? GIMBE conferenza annuale 2010: Abstract book N° 23. http://www.gimbe.org/report/conferenza_2010/Abstract%20Book.pdf

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Rimuovere la tracheocannula: quando e come.

4 nov 2012

La rimozione della tracheocannula è processo che deve essere affrontato in tutti i pazienti tracheotomizzati che sono svezzati dalla ventilazione meccanica. Abbiamo già trattato l'argomento nel post del 10/03/2012, con particolare riferimento alla grave cerebrolesione acquisita.

Oggi vorrei riprendere ed approfondire il processo di rimozione della tracheocannula.

Se possibile, la tracheocannula dovrebbe essere già rimossa in Terapia Intensiva. Quando questo non è possibile, medici ed infermieri della Terapia Intensiva dovrebbero visitare regolarmente i pazienti dimessi con tracheotomia nei reparti dell'ospedale: in questo modo si può efficacemente rimuovere la tracheocannula anche in corsia senza dover trattenere il paziente in Terapia Intensiva (1).

Il processo di rimozione della tracheocannula è ancora oggi più arte che scienza. Personalmente seguo una strada molto semplice:  nei pazienti svezzati dal ventilatore, valuto tosse e deglutizione (vedi post del 10/03/2012): se queste sono inadeguate, rimando qualsiasi tentativo di decannulazione alla fase riabilitativa. Se viceversa tosse e deglutizione sono efficaci, scuffio la tracheocannula per 2-3 giorni, facendo alimentare il paziente per os: se il paziente resta ininterrottamente in respiro spontaneo durante tutto questo periodo, rimuovo la tracheocannula. Tutto qui.

Non so se questo approccio in realtà sia più semplicistico che semplice: posso però dire che non ho mai dovuto affrontare un'insufficienza respiratoria legata alla rimozione della tracheocannula.

Esistono approcci più articolati al processo di decannulamento. Mi fa piacere presentare il contributo proposto dal dott. Davide Mazzon, direttore della UO di Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale di Belluno.  Qui di seguito l'algoritmo che il dott. Mazzon ha gentilmente messo a disposizione di tutti gli amici di ventilab:



Capping trial



La pervietà delle vie aeree prossimali è valutata con un capping trial: la cannula viene scuffiata e l'estremità esterna viene chiusa (vedi figura a fianco). Se il paziente è in grado di respirare anche in queste condizioni (quindi si accerta la pervietà delle vie aeree), si sostituisce la tracheocannula con una cannula non cuffiata di ridotto diametro. Questo precede il decannulamento definitivo, che avviene dopo 1-2 giorni di respiro spontaneo in parte con la tracheocannula chiusa.

Ritengo che, al di là delle singole scelte, l'importante sia avere un approccio strutturato al decannulamento: bisogna averlo come obiettivo e procedere con uno schema ben preciso.

Mi piacerebbe che su questo tema, in cui l'empirismo prevale sulle evidenze scientifiche, ci fosse uno scambio di esperienze e commenti: in questo modo la comunità di ventilab può favorire la diffusione di una buona pratica clinica nel processo di decannulamento.

Un saluto a tutti.

 

Bibliografia

1) Tobin AE et al. An intensivist-led tracheostomy review team is associated with shorter decannulation time and length of stay: a prospective cohort study. Crit Care 2008, 12:R48

 


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Ipossiemia, ventilazione e perfusione: quello che è vero e quello che non può essere vero (nonostante tutti lo dicano)

21 ott 2012

Proseguiamo l'analisi delle cause di ipossiemia. Dopo ipoventilazione (post del 30/06/2012) e shunt (post del 14/08/2012), è giunto il momento della causa "regina" (cioè la più frequente) di ipossiemia: il mismatch ventilazione/perfusione. Preferisco usare il termine inglese "mismatch" ("accoppiamento sbagliato") perchè rende benissimo l'idea. Le condizioni cliniche in cui vi è ipossiemia con mismatch ventilazione/perfusione sono di comune riscontro quotidiano: polmonite, ARDS, edema polmonare acuto, asma, broncopneumopatia cronica ostruttiva, ecc. Praticamente tutte le forme di insufficienza respiratoria acuta.

Ventilazione e perfusione in fisiologia sono un po' come domanda e offerta in economia: se c'è equilibrio tra le due componenti non c'è problema, altrimenti può essere un disastro (da ricordarsi sempre però che quando c'è la salute, c'è tutto!).

Figura 1


Quello che è vero.

Ripercorriamo brevemente il processo di ossigenazione del sangue. Il sangue venoso arriva all'inizio dei capillari polmonari, che formano una fitta rete attorno agli alveoli (figura 1), con una pressione parziale di ossigeno di circa 40 mmHg (in fisiologia). Gli alveoli contengono l'ossigeno che proviene dal gas inspirato, la cui pressione parziale è di circa 100 mmHg in un soggetto sano che respira aria (vedi post del 30/06/2012).  Il sangue dei capillari è separato dal gas alveolare da un sottilissimo strato di circa 0.3 µm (cioè millesimi di millimetro), composto da endotelio capillare, interstizio ed epitelio alveolare (figura 2): anche il confronto con la dimensione dei globuli rossi (RBC) ci fa capire quanto sia minima la distanza tra gas e sangue. Attraverso questa impalpabile membrana alveolo-capillare avviene rapidamente il passaggio di ossigeno dall'alveolo al sangue capillare.

Figura 2



Nel polmone sano, al termine del percorso nel capillare polmonare, il sangue capillare e l'alveolo raggiungono l'equilibrio delle pressioni parziali di ossigeno, in particolare la PO2 capillare diventa uguale a quella alveolare, cioè circa 100 mmHg (sempre in fisiologia).

Questo risultato non è possibile però quando il volume dell'alveolo diventa insufficiente rispetto al flusso capillare: in questo caso si ha mismatch ventilazione/perfusione (oggi non parleremo del mismatch con volume alveolare eccessivo rispetto alla perfusione). La conseguenza è l'ipossiemia.

Figura 3



A lato ho cercato di schematizzare questo un mismatch tra ventilazione e perfusione (figura 3). Nella condizione A è rappresentato in sezione un alveolo (in bianco) con le sue molecole di O2 (in blu). Attorno all'alveolo passano 4 capillari, disegnati in sezione (in rosso). Possiamo assumere questa condizione come la normalità: alveolo grande, tanto ossigeno, capillari piccoli (rivedi anche la parte sinistra della figura 2).  Il sangue capillare (PO2 40 mmHg) richiama ossigeno dall'alveolo (PaO2 100 mmHg) finchè tra le due strutture non si stabilisce la stessa pressione parziale (quella dell'alveolo). E' intuitivo quanto sia facile equilibrare le pressioni parziali di O2 tra alvelolo e capillari: l'alveolo ha un elevata quantità di O2 che viene peraltro continuamente rifornita dalla ventilazione. Nella condizione B abbiamo invece un alveolo molto più piccolo. Quindi, a parità di pressione parziale, le molecole di O2 saranno molte meno rispetto alla condizione A. Il sangue venoso (con la sua PO2 di 40 mmHg) richiama ancora ossigeno dall'alveolo, che però diviene un serbatoio insufficiente che si svuto senza consentire di "fare il pieno" di ossigeno al sangue capillare. La conseguenza è la riduzione della PO2 nel sangue che esce dal capillare polmonare nella condizione B rispetto alla condizione A. Nella condizione C avviene lo stesso fenomeno della condizione B, ma in questo caso la causa non è la riduzione del volume alveolare ma l'aumento del flusso capillare: il risultato non cambia, la perfusione è comunque in eccesso rispetto alla ventilazione ed il risultato è l'ipossiemia. (L'esemplificazione in questo caso è solo qualitativa e non quantitativa per semplicità.)

In pratica, le condizioni che riducono il volume di gas alveolare (edema e infiammazione alveolare, elevate resistenze, elevata elastanza) o aumentano la perfusione  (elevata portata cardiaca)  danno quindi mismatch ventilazione/perfusione con  ipossiemia. Viceversa quanto aumenta il volume di gas alveolare (ad esempio con la PEEP) o si riduce la perfusione (ad esempio con la PEEP o per effetto della vasocostrizione polmonare ipossica), si riduce il mismatch ventilazione/perfusione con correzione dell'ipossiemia ad esso associata.
Quello che non può essere vero (nonostante tutti lo dicano).

Analizziamo ora però quello che non può essere vero, nemmeno se lo dicono tutti (ma proprio tutti) i libri di fisiologia (perfino il mio amatissimo Nunn's Applied Respiratory Physiology!).

Di solito il mismatch ventilazione/perfusione viene associato al rapporto ventilazione/perfusione. Ma, a mio modo di vedere, sono due concetti molto diversi e confonderli è concettualmente e clinicamente sbagliato: il rapporto ventilazione/perfusione non spiega l'ipossiemia da mismatch ventilazione/perfusione.

Il rapporto ventilazione/perfusione è il rapporto tra ventilazione alveolareVA) e portata cardiaca (Q). La ventilazione alveolare è circa 4 l/min, la portata cardiaca circa 5 l/min, quindi il  VA/Q è in 0.8. Questo 0.8, peraltro, è un valore medio perchè, per l'ineguale distribuzione di ventilazione e perfusione nelle varie regioni del polmone, il VA/Q è superiore a 3 agli apici polmonari ed è circa 0.6 alle basi (figura 4).


Figura 4




Fino a qui tutto vero. Si dice però che quando il rapporto ventilazione/perfusione (il  VA/Q) si riduce si ha ipossiemia senza ipercapnia (figura 5, freccia verso sinistra: "Decreasing VA/Q"). Ma questo non può essere vero se ragioniamo sull'equazione VA/Q.



Figura 5





Infatti, quando la riduzione del VA/Q è determinata dalla diminuzione ventilazione alveolare VA, dovremmo avere un marcato incremento della PaCO2 con una riduzione minima della PaO2 (vedi post del 30/06/2012), tutto il contrario di quanto abbiamo appena visto nella figura 5: evidentemente una contraddizione che mette fuori gioco il VA/Q come spiegazione del mismatch ventilazione/perfusione. Inoltre, se ragionassimo in termini di VA/Q, per aumentarlo (e correggere l'ipossiemia secondo la visione tradizionale), potremmo incrementare la VA con l'aumento del volume corrente: un errore a 360°. Infatti avremmo riduzione della PaCO2 più che un aumento della PaO2, e probabilmente un maggior rischio di ventilator-induced lung injury.

L'applicazione della PEEP è invece la mossa giusta per migliorare il mismatch ventilazione/perfusione nei pazienti con insufficienza respiratoria acuta. La PEEP modifica principalmente la capacità funzionale residua più che il VA/Q (figura 6): un'altra incongurenza dell'equivalenza tra mismatch ventilazione/perfusione e rapporto ventilazione/perfusione VA/Q.



Figura 6.



Quindi la "ventilazione" del mismatch ventilazione/perfusione non può essere la "VA" del VA/Q. Nel mismatch ventilazione/perfusione per ventilazione dobbiamo genericamente intendere  i volumi di gas alveolari disponibili per lo scambio gassoso, prevalentemente legati alla capacità funzionale residua (cioè al volume dei polmoni a fine espirazione) più che alla ventilazione alveolare VA (cioè le variazioni cicle dovute agli atti respiratori).

A questo punto, se mi chiedete cosa farsene del VA/Q nella pratica clinica, mi mettete veramente in difficoltà...

In conclusione, il mismatch ventilazione perfusione è presente in quasi tutte le ipossiemie che vediamo nelle insufficienze respiratorie acute. Esso dipende dalla riduzione della capacità funzionale residua: la PEEP è la misura terapeutica appropriata , mentre l'aumento della ventilazione alveolare attraverso la modificazione del volume corrente è la scelta peggiore. Il  rapporto ventilazione/perfusione VA/Q non sembra essere un modello fisiologico utile per interpretare l'ipossiemia da mismatch ventilazione/perfusione.

Un saluto a tutti. A presto.

Bibliografia.

- Lumb AB. Nunn’s Applied Respiratory Physiology. Churchill Livingstone, 7th edition (2010)

- Guyton AC, Hall JE. Textbook of medical physiology. 10th ed. WB Saunders C (2000)

- Hedenstierna G. Respiratory Physiology. In:  Miller's Anesthesia 7th ed. Eds: RD Miller. Churchill Livingstone 2010, pag 361-91.
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Ventilazione noninvasiva: quando è utile, quando è inutile quando inizio, quando rinuncio.

7 ott 2012

Sono appena rientrato da Crotone dove mi è stato affidato un intervento su "Ventilazione Non Invasiva: quando è utile, quando è inutile, quando inizio, quando rinuncio" al 2o° Simposio Meridionale AAROI-EMAC SIARED. Come promesso ai partecipanti, condivido volentieri la mia relazione  su ventilab: per scaricare le parti rilevanti clicca qui. Un sincero apprezzamento per il dott. Tancioni ed il dott. Bossio, della UO di Anestesia e Rianimazione di Crotone, per avere organizzato un evento di ottima qualità in riva allo splendido mare della Calabria sotto un caldo sole di ottobre.

Nella pratica di tutti i giorni, come facciamo a capire quando la ventilazione noninvasiva è la scelta giusta? Proviamo trovare la risposta nella sintesi tra le evidenze scientifiche (che puoi vedere riassunte nella suddetta relazione) e l'esperienza clinica.
Quando la ventilazione noninvasiva è un'ottima scelta.

La ventilazione noninvasiva è sicuramente la scelta migliore quando si pensa che la sola ossigenoterapia sia "un po' poco" per un paziente con insufficienza respiratoria. Quindi tutte le volte che siamo di fronte ad un'insufficienza respiratoria con una lieve acidemia (ad esempio pH tra 7.30 e 7.35), una moderata ipossiemia (rapporto PaO2/FIO2 tra 200 e 300 mmHg), una moderata tachipnea (frequenza respiratoria tra 20 e 30/min) in presenza di stabilità emodinamica. La ventilazione noninvasiva diventa poi quasi obbligatoria se la causa di questa insufficienza respiratoria è una riacutizzazione di broncopneumatia cronica ostruttiva o un edema polmonare acuto.

Un'altra ottima indicazione alla ventilazione noninvasiva è la prevenzione dell'insufficienza respiratoria in alcuni pazienti appena estubati. Infatti la ventilazione noninvasiva riduce il rischio di reintubazione e mortalità se applicata durante le prime 24 ore dopo l'estubazione nei soggetti ipercapnici (PaCO2>45mmHg), negli anziani, in quelli con malattie polmonari croniche, con scompenso cardiaco o che hanno avuto un weaning prolungato.
Quando la ventilazione noninvasiva è una pessima idea.

La ventilazione noninvasiva è la scelta peggiore quando sono contemporaneamente presenti due condizioni:

1) un'insufficienza respiratoria più grave di quella sopra descritta (ad esempio pH<7.30, frequenza respiratoria>35/min, PaO2/FIO2<150 mmHg), soprattutto se secondaria a polmonite o ARDS;

2) una elevata gravità del paziente (elevato punteggio di SAPS 2 o APACHE2).

In questi casi la ventilazione noninvasiva dovrebbe essere evitata come la peste, a meno che non siate dei virtuosi della metodica.
Quando la ventilazione noninvasiva è una soluzione possibile.

La ventilazione noninvasiva è possibile nei casi di insufficienza respiratoria più grave (come al punto 1 del paragrafo precedente) se la gravità complessiva del paziente non sembra particolarmente elevata. In questi casi però sono fondamentali una notevole preparazione ed esperienza clinica nella ventilazione, il monitoraggio costante con la presenza di un infermiere al letto e la pronta disponibilità del medico. E soprattutto non bisogna perdere tempo nel passare all'intubazione qualora la ventilazione noninvasiva non funzionasse (coma capita in circa il 30-50% di questi pazienti).

Parleremo sicuramente ancora di ventilazione noninvasiva su ventilab. A presto.

Un saluto a tutti.

 
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Embolia polmonare ed ipossiemia: mito o realtà?

17 set 2012


L'embolia polmonare è un'ipotesi diagnostica ragionevole in caso di ipossiemia?

Sentiamo dire da decenni che l'embolia polmonare è sotto-diagnosticata. I tempi però cambiano e le tecniche diagnostiche diventano sempre più sensibili: oggigiorno in realtà si teme che vi sia un eccesso di diagnosi di embolia polmonare (vedi: Moynihan R et al. Preventing overdiagnosis: how to stop harming the healthy. BMJ 2012;344:e3502).

Ma torniamo alla vita di tutti i giorni. Spesso vedo proporre l'embolia polmonare nella diagnosi differenziale dei pazienti con insufficienza respiratoria, cosa poi puntualmente smentita dalla TC spirale. Se vogliamo essere bravi medici, dobbiamo evitare di esporre inutilemente i pazienti ad elevate dosi di radiazioni ed al mezzo di contrasto, con i rischi ad essi associati. Quindi dobbiamo (ri)scoprire la capacità di ragionamento clinico e non affidarci alla cieca richiesta di indagini diagnostiche.

Facciamo una prima considerazione: l'embolia polmonare (nonostante si chiami "polmonare") è una malattia cardiovascolare e NON malattia respiratoria. E coerentemente i sintomi che la possono far sospettare sono TUTTI a carico dell'apparato cardiocircolatorio. Proviamo a vedere i segni e sintomi degli score che valutatano la probilità "clinica" di embolia polmonare:

Non troviamo nessun segno o sintomo riferibile all'insufficienza respiratoria. Le attuali linee guida definiscono europee ed americane (vedi bibliografia) definiscono il rischio moderato-elevato di embolia polmonare considerando solo ed esclusivamente ipotensione, bradicardia, arresto cardiaco, disfunzione ventricolare destra o danno miocardio. Se questi segni sono assenti, la probabilità di embolia polmonare (e di morte ad essa associata) è ritenuta bassa. A titolo di esempio presento la tabella riassuntiva delle linee guida europee:



Morale: quando valuto un paziente con insufficienza respiratoria SENZA compromissione cardiocircolatoria devo ritenere IMPROBABILE la presenza di embolia polmonare.

Dobbiamo anche essere consapevoli che il sovraccarico del ventricolo destro NON è un reperto specifico dell'embolia polmonare, essendo molto frequente anche nelle condizioni di insufficienza respiratoria acuta. Se l'ecocardiogramma "standard" evidenzia il sovraccarico del ventricolo destro, abbiamo comunque il 35% di probabilità che in realtà NON vi sia un'embolia polmonare.

E l'ipossiemia? Il 80% dei pazienti con embolia polmonare hanno ipossiemia secondaria alle alterazioni cardiovascolari. Le cause di ipossiemia possono essere:
1) effetto shunt: la circolazione polmonare viene dirottata sui capillari polmonari non coinvolti dall'evento embolico. In questi capillari aumenta la perfusione e si riduce di conseguenza il rapporto ventilazione/perfusione, generando quindi effetto shunt;
2) shunt: in circa un terzo dei pazienti il sovraccarico pressorio del cuore destro favorisce la formazione di shunt destro-sinistro da pervietà del forame ovale;
3) riduzione della saturazione venosa mista: la bassa portata cardiaca, conseguente all'embolismo, può ridurre la saturazione del sangue venoso misto. Questo amplifica l'ipossiemia secondaria a shunt ed effetto shunt, poichè il sangue "shuntato" contiene meno ossigeno del normale.


Quindi NON non dobbiamo sospettare l'embolia polmare sulla base di un'emogasanalisi (men che meno a casua dell'ipocapnia!!!).

E ricordiamoci che il D-dimero non ha senso per confermare il sospetto di embolia polmonare (e quindi non dovrebbe essere fatto) nei pazienti con malattie concomitanti (polmonite, sepsi, neoplasie, necrosi, dissezione aortica, ecc.): in questi casi infatti è normalmente elevato. Può essere sicuramente più utile, a questo fine, nei pazienti appena giunti in Pronto Soccorso e senza altre evidenti malattie.

Per concludere, quali i messaggi da trasferire nella nostra pratica clinica?

- l'ipossiemia NON è un motivo sufficiente per iniziare un percorso diagnostico per embolia polmonare;

- ipotensione o disfunzione ventricolare destrase non altrimenti spiegabili, invece possono ragionevolamente fare valutare la diagnosi di embolia polmonare;

- ipotensione in un paziente ospedalizzato: pensiamo anche a sepsi grave/shock settico;

- dobbiamo evitare di tirare in ballo l'embolia polmonare solo perchè non stiamo capendo nulla: non è giusto regalare radiazioni e mezzo di contrasto in assenza di un serio approccio clinico (oltre a non essere un buon modo di fare i medici).

Un saluto a tutti (ed in particolare ai colleghi che conoscerò personalmente giovedì al prossimo Corso di Ventilazione Meccanica).

A presto.

 

Bibliografia

Torbicki A et al. Guidelines on the diagnosis and management of acute pulmonary embolism: the Task Force for the Diagnosis and Management of Acute Pulmonary Embolism of the European Society of Cardiology (ESC). European heart journal 2008; 29:2276–315 

Jaff MR et al. Management of massive and submassive pulmonary embolism, iliofemoral deep vein thrombosis, and chronic thromboembolic pulmonary hypertension: a scientific statement from the American Heart Association. Circulation 2011; 123: 1788–830

Kurzyna M et al. Disturbed right ventricular ejection pattern as a new Doppler echocardiographic sign of acute pulmonary embolism. Am J Cardiol 2002; 90:507-11)

Moynihan R et al. Preventing overdiagnosis: how to stop harming the healthy. BMJ 2012;344:e3502
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Ipossiemia e shunt.

14 ago 2012

Quale era la causa di ipossiemia di Caterina (vedi il post del 16 giugno 2012)? Riprendiamo la storia: durante una nuova degenza in Terapia Intensiva, viene ripetuta un'ecocardiografia transtoracica che (a differenza della prima) evidenza la chiara presenza di uno shunt destro-sinistro secondaria ad un difetto interatriale (pervietà del forame ovale). Caterina è dimessa in Cardiologia, qui saltuariamente presenta gli episodi di ipossiemia e dispnea, talora associati alla posizione seduta e che si risolvono in posizione supina (ma questo reperto è incostante). Inizialmente l'orientamento è quello di non trattare il forame ovale pervio, ma un progressivo aumento della frequenza degli episodi di ipossiemia fa cambiare idea e si procede alla chiusura percutanea del difetto interatriale. Risultato: completa scomparsa dei sintomi, Caterina riferisce che da parecchio tempo non si sentiva così bene! A questo punto la diagnosi è definitiva: l'ipossiemia di Caterina era secondaria ad uno shunt destro-sinistro e compatibile con la sindrome platypnea-orthodeoxia.


Cerchiamo di capire meglio di cosa si tratta. Il sangue venoso arriva all'atrio destro dalle vene cave con una PaO2 di 40 mmHg ed una saturazione del 65% (nella fisiologia del giovane adulto). Dall'atrio destro il sangue va al ventricolo destro che lo spinge nelle arterie polmonari e quindi arriva nei capillari polmonari dove fa il carico di ossigeno: al termine dei capillari polmonari il sangue si è "arterializzato", ora ha una PaO2 di circa 100 mmHg ed una saturazione del 99% e più o meno così arriva in atrio sinistro (vedi post del 30 giugno 2012).

Cosa succede se c'è un buco tra atrio desto ed atrio sinistro, come nell'immagine all'inizio del post?

Può non succedere nulla se la differenza tra le pressioni degli atrii è minima (senza differenza di pressione non c'è flusso). Ma, se la pressione in uno dei due atrii diviene più elevata, può instaurarsi uno shunt (cioè un passaggio diretto di sangue) dall'atrio con la pressione maggiore a quello con la pressione minore.

Non approfondiremo in questa sede gli shunt dall'atrio sinistro a quello destro: non sono causa di ipossiemia perchè sangue già ossigenato rientra nella circolazione polmonare.

Gli shunt dall'atrio destro a quello sinistro possono essere causa di ipossiemia: sangue venoso (con una saturazione del 65 %) passa nell'atrio sinistro mischiandosi al sangue proveniente dal circolo polmonare (saturazione 99%). La conseguenza è la riduzione della saturazione arteriosa proporzionale all'entità dello shunt destro-sinistro. Fino a qui tutto semplice, chiaro e ben noto a tutti.

Ma una cosa mi ha sempre intrigato: quando la pressione in atrio destro diventa più alta della pressione dell'atrio sinistro? La fisiologia ci insegna che la pressione atriale sinistra è leggermente più elevata di quella destra. Che cosa perturba questa fisiologia? In primo luogo tutte le condizioni che aumentano le resistenze vascolari polmonari, che impongono un più elevato regime pressorio nelle cavità cardiache destre. Sotto questo punto di vista la ventilazione ha molteplici e complesse interferenze.

La ventilazione determina modificazioni di volume e pressione polmonare, che agiscono indipendentemente sulle resistenze vascolari polmonari e quindi su un eventuale shunt destro-sinistro.

Variazioni di volume. Le resistenze vascolare polmonari sono modificate dalle variazioni di volume polmonare. Sono infatti minime a capacità funzionale residua, ma aumentano sia quando il volume polmonare aumenta che quando si riduce, come mostrato nella figura qui sotto.




Da notare che questo effetto dipende esclusivamente dal volume polmonare e non dalle pressioni intratoraciche, per cui è condiviso sia dalla respirazione spontanea che nella ventilazione meccanica a pressione positiva. L'aumento delle resistenze vascolari polmonari può quindi avvenire nelle malattie restrittive (basso volume polmonare) o nell'iperiflazione (alto volume polmonare). Nella Acute Respiratory Distress Syndrome (ARDS) in alcuni pazienti la PEEP rende conclamato uno shunt destro-sinistro (vedi post del 6 settembre 2010): attenzione però a non concludere che la PEEP fa male ai pazienti con ARDS e con forame ovale pervio (sono il 20% dei pazienti con ARDS). In questi pazienti è nociva una PEEP eccessiva, cioè la PEEP superiore a quella che può ripristinare una "normale" capacità funzionale residua. L'iperinflazione  può essere conseguente a tachipnea e/o polipnea (sotto sforzo o durante insufficienza respiratoria) oppure di ostruzione al flusso espiratorio (nei pazienti con broncopneumopatia cronica ostruttiva): anche queste condizioni possono quindi aggravare uno shunt destro-sinistro e l'ipossiemia che ne consegue.

Variazioni di pressione. La ventilazione meccanica a pressione positiva aggiunge l'aumento della pressione intratoracica all'effetto volume che abbiamo appena visto. L'aumento della pressione intralveolare agisce elettivamente incrementando le pressioni intracapillari e quindi il postcarico del ventricolo destro. Da questo punto di vista, ogni aumento della pressione intrapolmonare (soprattutto nei pazienti con bassa elastanza polmonare) si traduce in un possibile aumento delle pressioni nel cuore destro e quindi in un peggioramento dello shunt destro-sinistro.

La ventilazione può modificare le resistenze vascolari polmonari anche attraverso gli effetti che induce su PaO2 e PaCO2. Infatti sappiamo che ipossiemia ed ipercapnia generano vasocostrizione del circolo polmonare e quindi possibile peggioramento dello shunt destro-sinistro. L'ipossiemia che può generarsi per le variazioni di pressione e di volume può quindi indurre un circolo vizioso che, mediato dalla vasocostrizione ipossica del  circolo polmonare, aggrava ancora di più lo shunt destro-sinistro.

Nel caso specifico poi della sindrome platypnea-orthodeoxia sembra che i mutamenti di posizione del corpo determinino una variazione dello stiramento sulle strutture interatrialie quindi dell'apertura del difetto interatriale: questo giustificherebbe il suo manifestarsi prevalentemente in posizione seduta.

Esistono anche altre possibili condizioni che  aumentano la pressione atriale destra peggiorando un eventuale shunt destro-sinistro, come ad esempio l'ischemia del ventricolo destro e l'insufficienza tricuspidale. Ma lascio al caro lettore di ventilab il compito di approfondirle in questo torrido agosto...

In conclusione, lo shunt destro-sinistro può essere causa di ipossiemia, spesso refrattaria (o addirittura peggiorata) alla ventilazione meccanica. In questi casi tutti i nostri sforzi devono essere rivolti alla normalizzazzione dei volumi polmonari, alla riduzione delle pressioni polmonari ed alla ricerca, se possibile, della normocapnia (ed eventualmente all'uso di vasodilatatori del circolo polmonare). E, se e quando opportuno, alla correzione del difetto interatriale.

Abbiamo finora esaminato ipoventilazione (vedi post del 30 giugno 2012) e shunt come cause di ipossiemia:  queste sono due cause minori di ipossiemia, non sono implicate nella maggior parte dei casi di ipossiemia che vediamo nei nostri ospedali. Analizzeremo la causa di gran lunga più frequente in un prossimo post (e vedremo come anche i più prestigiosi libri di fisiologia possano sostenere argomentazioni insensate...).

A presto e buon ferragosto a tutti gli amici di ventilab.

Bibliografia.

- Lumb AB. Nunn’s Applied Respiratory Physiology. Churchill Livingstone, 7th edition (2010)

- Pinsky MR. Effect of mechanical ventilation on heart-lung interactions. In: Ventilator management strategies for critical care. Eds. Hill NS, Levy MM. Marcek Dekker Inc (2001)

- Guyton AC, Hall JE. Textbook of medical physiology. 10th ed. WB Saunders C (2000)


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