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COVID-19 e intubazione tracheale.

10 dic 2020

Quando decidere che è arrivato il momento dell’intubazione tracheale nei pazienti con COVID-19? Iniziamo le nostre riflessioni partendo da un caso clinico.

Il caso.

La signora Maria è una donna di 70 anni, ipertesa, ricoverata in ospedale per polmonite da COVID-19. Dopo circa una settimana dal ricovero è richiesta una consulenza rianimatoria per un eventuale trasferimento in Terapia Intensiva. La signora Maria da tre giorni è dipendente dalla ventilazione non-invasiva, senza la quale ha immediata dispnea ed ipossiemia (SpO2 75%). Durante la ventilazione non-invasiva (EPAP 8 cmH2O, IPAP 14 cmH2O, FIO2 0.7) non avverte dispnea nonostante la grave disfunzione polmonare (PaO2/FIO2 84 mmHg). L’equilibrio acido-base mostra un’alcalemia mista (pH 7.55, PaCO2 34 mmHg). 

Due immagini della TC torace della signora Maria sono presentate in figura 1.


Figura 1

Secondo te, in questo momento sarebbe opportuno proporre alla signora Maria l’intubazione tracheale e la ventilazione meccanica invasiva?

 

Dopo averti fatto questa domanda, aggiungo un dato: durante la ventilazione non-invasiva la signora Maria ha un volume corrente di 1100 ml (ed è attiva durante l’inspirazione) con una frequenza respiratoria di 25/min. Se si elimina il supporto inspiratorio (cioè si passa in modalità CPAP), il volume corrente si riduce a 850 ml. La signora Maria è alta 160 cm ed ha un peso ideale predetto di 52 kg (http://www.tidalvolumecalculator.com/): il volume corrente durante ventilazione non-invasiva è quindi di circa 21 ml/kg di peso ideale, che si riduce a 16 ml/kg di peso ideale durante la CPAP.

 

Ti ripropongo ora la stessa domanda di prima: secondo te, in questo momento sarebbe opportuno proporre alla signora Maria l’intubazione tracheale e la ventilazione meccanica invasiva?

 

A Maria in queste condizioni è stata realmente proposta l’intubazione tracheale, che però ella ha rifiutato perché convinta che l’intubazione sia dannosa per i pazienti con COVID-19. Maria appare in pieno possesso delle proprie facoltà mentali e pertanto, in presenza del suo dissenso, decidiamo di lasciarla in corsia a proseguire il trattamento in corso.

Il giorno seguente siamo nuovamente chiamati a valutare Maria, che nel frattempo ha ripensato alla propria decisione ed ora è disponibile ad accettare il ricovero in Terapia Intensiva, l'intubazione e la ventilazione invasiva. 

Maria viene trasferita quindi in Terapia Intensiva. L’emogasanalisi arteriosa che precede l’intubazione mostra che anche la pompa respiratoria sta cedendo, come testimoniato dalla comparsa di acidosi respiratoria (pH 7.35 e PaCO2 49 mmHg). 

Oggi, dopo 25 giorni dall’intubazione, Maria è ancora in Terapia Intensiva, tracheostomizzata e svezzata dalla ventilazione meccanica. Speriamo di cuore possa completare con successo questo difficile percorso di cura e tornare felicemente a casa.


Le riflessioni.

La decisione di procedere all’intubazione tracheale ed alla ventilazione invasiva nei pazienti COVID-19 non è sempre ovvia: dovrebbe quindi essere affidata a medici esperti ed i casi dubbi dovrebbero essere discussi collegialmente.

Aleggia la strana idea che l’intubazione “faccia male” ai pazienti con COVID-19 (il caso di Maria è esemplare). Per affrontare costruttivamente questo problema ragioniamo separatamente su due scenari completamente diversi tra loro: 

  • 1° scenario: l’intubazione tracheale è immediatamente necessaria per cercare di evitare una morte certa

  • 2° scenario: l’intubazione tracheale, pur non immediatamente necessaria per evitare la morte certa, è però preferibile alla ventilazione non-invasiva perchè ha maggiori probabilità di salvare la vita


1° scenario: l’intubazione tracheale non ha alternative 

Il primo scenario è quello in cui si deve intervenire nei casi di insufficienza respiratoria molto grave (quando ormai il paziente “non ce la fa più a respirare”, nemmeno con la ventilazione non-invasiva). In questa condizione l’intubazione tracheale (e la ventilazione meccanica invasiva) può essere assimilata al massaggio cardiaco in caso di arresto cardiaco: è indiscutibilmente l’unica cosa da fare, per tentare di evitare una morte che viceversa si verificherebbe sicuramente. Una parte delle persone che arrivano alla ventilazione meccanica in queste condizioni moriranno comunque (similmente a quanto accade a molti che ricevono il massaggio cardiaco dopo un arresto cardiaco), ma la loro morte è la conseguenza di una malattia gravissima ed incurabile e non di un trattamento “sbagliato”. Ogni persona intubata che sopravvive è certamente una vita guadagnata, mentre ogni persona intubata che muore sarebbe morta ugualmente

Mi sembra che l'indicazione all’intubazione in questo scenario sia talmente evidente da non meritare altri ragionamenti.


2° scenario: l’intubazione tracheale è la migliore tra le opzioni terapeutiche. 

Questo secondo scenario ci chiede di capire se l'insifficienza respiratoria possa essere trattata per tutto il suo decorso con la ventilazione non-invasiva come massimo livello di intensità terapeutica. (Parto dall’assunto che ogni paziente con COVID-19 ed insufficienza respiratoria dovrebbe fare, quando possibile, almeno un breve ciclo di ventilazione non-invasiva).

 

La nostra signora Maria si trova in questo secondo scenario: la ventilazione non-invasiva è al momento sufficiente a farla sopravvivere, ma dobbiamo decidere se potrà essere risolutiva o se sarà destinata a fallire. In quest'ultimo caso prima o poi ci troveremo nel sopra descritto scenario 1: a quel punto la scelta diventerà ovvia, ma il ritardo nel passaggio dalla ventilazione non-invasiva all’intubazione tracheale aumenterà il rischio di morte (1-4).

 

Il vero problema è quindi saper fare una fondata previsione sul possibile fallimento della ventilazione non-invasiva. I pazienti con polmonite e/o grave con insufficienza respiratoria ipossiemica hanno un'elevata probabilità di fallimento della ventilazione non-invasiva (3-6). Questo non significa che in questi pazienti non si debba tentare una iniziale ventilazione non-invasiva, ma deve rendere consapevoli che si dovrebbe procedere rapidamente all'intubazione tracheale se dispnea ed ipossiemia persistono nonostante la ventilazione non-invasiva. Potrebbe essere utile supportare la propria previsione con il HACOR score (figura 2), che nei pazienti con insufficienza respiratoria ipossiemica si associa ad un elevato rischio di fallimento (> 80%) della ventilazione non-invasiva se è superiore a 5 punti dopo 1-6 ore dall’inizio della ventilazione non-invasiva (3,6).

Figura 2
Figura 2. HACOR score


La valutazione del volume corrente durante ventilazione non-invasiva è un altro aspetto importante per l’indicazione all’intubazione tracheale. Un elevato volume corrente è sia di per sé dannoso nei pazienti con ARDS (ne aumenta la mortalità), sia associato al fallimento della ventilazione non-invasiva (7): per questo motivo, l’intubazione tracheale è raccomandabile in presenza di un volume corrente alto (ad esempio > 10 ml/kg di peso ideale).


Per sintetizzare tutte queste considerazioni, a puro titolo di esempio condivido i criteri di intubazione tracheale che nella nostra Terapia Intensiva utilizziamo per i pazienti con COVID-19. L'intubazione è indicata qualora, durante ventilazione non-invasiva, vi sia almeno 1 di questi segni o sintomi: PaO2/FIO2 < 100 mmHg; dispnea; frequenza respiratoria > 35/min; utilizzo dei mm. inspiratori accessori; respiro paradosso; acidosi respiratoria; volume corrente > 10 ml/kg di peso ideale (per altezze “standard”, > 700 ml nei maschi o > 550 ml nelle femmine). Ovviamente bisogna calare questi criteri nella specificità di ogni singolo paziente evalutare tutti gli ulteriori elementi che possano meglio definire il rapporto rischio/beneficio.


A questo punto torniamo a Maria: nel suo caso specifico è corretta l’indicazione all’intubazione tracheale o è meglio aspettare? Mi sembra ci siano tutti gli elementi che supportano l’intubazione tracheale ora: un rapporto PaO2/FIO2 < 100 mmHg (che da solo determina un HACOR score > 5) dopo 3 giorni di ventilazione non-invasiva già di per sé può essere una valida indicazione all’intubazione (3,6,7), ma ancora di più se associato ad un volume corrente “folle” (20 ml/kg!), che, oltre a far prevedere il fallimento della ventilazione non-invasiva, rischia di sfasciare ancora di più i polmoni già gravemente danneggiati.


In merito all’intubazione tracheale nei pazienti con COVID-19 possiamo concludere che:

  • è indiscutibile in tutti quei casi in cui la ventilazione non-invasiva ha già fallito nel supporto della funzione respiratoria, pena la morte quasi certa del paziente

  • è altamente raccomandabile, per ridurre il rischio di morte, quando, nonostante la ventilazione non-invasiva, persistano dispnea, ipossiemia grave, tachipnea e acidosi respiratoria.

  •  i pazienti con COVID-19 meritano una tempestiva intubazione tracheale come i pazienti con qualsiasi altra malattia. Quando intubiamo pazienti che hanno “tirato troppo la corda” con la ventilazione non-invasiva, spesso ci troviamo di fronte all’immediata inefficacia anche della ventilazione invasiva. Dovremmo evitare questa situazione, quando possibile ovviamente. 

 

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab, sperando che il Santo Natale ci porti un po’ di serenità...



Bibliografia

1. Carrillo A, Gonzalez-Diaz G, Ferrer M, Martinez-Quintana ME, Lopez-Martinez A, Llamas N, Alcazar M, Torres A. Non-invasive ventilation in community-acquired pneumonia and severe acute respiratory failure. Intensive Care Med 2012;38:458–466.

2. Brochard L, Lefebvre J-C, Cordioli R, Akoumianaki E, Richard J-C. Noninvasive Ventilation for Patients with Hypoxemic Acute Respiratory Failure. Semin Respir Crit Care Med 2014;35:492–500.

3. Duan J, Han X, Bai L, Zhou L, Huang S. Assessment of heart rate, acidosis, consciousness, oxygenation, and respiratory rate to predict noninvasive ventilation failure in hypoxemic patients. Intensive Care Med 2017;43:192–199.

4. Antonelli M, Conti G, Moro M, Esquinas A, Gonzalez-Diaz G, Confalonieri M, Pelaia P, Principi T, Gregoretti C, Beltrame F, Pennisi M, Arcangeli A, Proietti R, Passariello M, Meduri G. Predictors of failure of noninvasive positive pressure ventilation in patients with acute hypoxemic respiratory failure: a multi-center study. Intensive Care Med 2001;27:1718–1728.

5. Rana S, Jenad H, Gay PC, Buck CF, Hubmayr RD, Gajic O. Failure of non-invasive ventilation in patients with acute lung injury: observational cohort study. Crit Care 2006;10:R79.

6. Carrillo A, Lopez A, Carrillo L, Caldeira V, Guia M, Alonso N, Renedo A, Quintana ME, Sanchez JM, Esquinas A. Validity of a clinical scale in predicting the failure of non-invasive ventilation in hypoxemic patients. J Crit Care 2020;60:152–158.

7. Carteaux G, Millán-Guilarte T, De Prost N, Razazi K, Abid S, Thille AW, Schortgen F, Brochard L, Brun-Buisson C, Mekontso Dessap A. Failure of Noninvasive Ventilation for De Novo Acute Hypoxemic Respiratory Failure: Role of Tidal Volume. Crit Care Med 2016;44:282–290.



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Cortisone: cura per la COVID-19 o per l’ARDS?

27 lug 2020

In questi giorni è stato pubblicato il trial randomizzato controllato (RCT) conosciuto con la sigla RECOVERY sulla terapia steroidea nella malattia da SARS-COV-2 (COVID-19). Le conclusioni dell’abstract dicono che il desametasone riduce la mortalità a 28 giorni nei pazienti con COVID-19 con ventilazione meccanica invasiva o in ossigenoterapia ma non nei pazienti senza alcun supporto respiratorio (“In patients hospitalized with Covid-19, the use of dexamethasone resulted in lower 28-day mortality among those who were receiving either invasive mechanical ventilation or oxygen alone at randomization but not among those receiving no respiratory support.“) (1).

Anche davanti ad un importante RCT come questo, è necessario conservare lo spirito critico tipico del metodo scientifico ed i risultati di questo studio devono essere integrati con le conoscenze che già abbiamo.

 

I limiti dei trial randomizzati e controllati.

Nonostante la fideistica fiducia nei RCT della evidence-based medicine, non esiste alcuna dimostrazione che il risultato positivo di un RCT sia la prova definitiva dell’efficacia di una terapia in una data malattia

La storia recente ci insegna che numerosi RCT su trattamenti nei pazienti critici, anche se pubblicati sulle più prestigiose riviste di medicina, sono stati poi smentiti nel volgere di pochi anni. Tra i trattamenti la cui efficacia è stata sancita da un RCT e poi sconfessata mi vengono in mente il controllo stretto della glicemia (2), la early-goal directed therapy nello shock settico per mantenere la ScvO2 > 70% (3), l’uso della proteina C attivata ricombinante umana nello shock settico (4) (successivamente ritirata dal commercio), l’infusione di cisatracurium nelle fasi iniziali della ARDS (5). Forse qualche altro esempio può venire in mente anche a te.

Non c’è nulla di strano nel fatto che un RCT venga smentito. Innanzitutto la sedicente evidence-based medicine è in realtà una probability-based medicine. Questo significa, semplificando, che ogni RCT positivo ha 1 probabilità su 20 di dimostrare efficace una terapia che in realtà non lo è. Ancora più elevata la probabilità che un RCT negativo escluda l’efficacia di un trattamento che in realtà è efficace: questo accade 1 volta su 5, nella migliore delle ipotesi. Questi errori intrinseci alla metodologia statistica vengono definiti errore di primo tipo (o errore alfa) ed errore di secondo tipo (o errore beta).

Inoltre i risultati dei RTC sono tipicamente caratterizzati da una scarsa validità esterna, cioè sono poco generalizzabili alla vita reale, non potendo essere necessatiamente considerati validi per pazienti con caratteristiche diverse, curati in contesti diversi ed in periodi storici diversi rispetto a quelli in cui si è svolto il RCT (6).

Questo non significa certamente che i RCT siano studi di scarso valore, tutt’altro. Semplicemente ci ricorda che i loro risultati sono importanti, ma non possono essere accettati, con atto di fede, come la risposta definitiva a un quesito clinico, ma devono integrarsi con le conoscenze che acquisiamo anche con altri tipi di studi. Non esistono studi perfetti, e i RCT non fanno eccezione.

 

Cortisone nella COVID-19: i dati del RCT.

Riprendiamo i risultati del RCT RECOVERY citato in apertura, che si è svolto in 176 ospedali della Gran Bretagna. Sono stati arruolati nello studio i pazienti con infezione sospetta o confermata da SARS-CoV-2. Alla fine il 15% dei pazienti randomizzati non aveva una diagnosi confermata di infezione da SARS-CoV-2, ma sospettata per la presenza di insufficienza respiratoria non cardiogena con addensamento parenchimale o vetro smerigliato al Rx torace (quindi di fatto qualsiasi tipo di polmonite). In questi casi la diagnosi era basata esclusivamente sull’opinione del medico curante (“the diagnosis remains a clinical one based on the opinion of the managing doctor”).

Dopo l’esclusione di 2000 (la maggior parte perché i medici curanti non ritenevano corretto randomizzarli per il trattamento con cortisone), quasi 6500 pazienti sono stati randomizzati per ricevere 6 mg di desametasone orale o endovenoso per 10 giorni o la usual care, cioè la cura normalmente utilizzata in quei 176 ospedali del Regno Unito.

Lo studio non è stato condotto in cieco, quindi i medici curanti sapevano chi stava ricevendo il desametasone e chi no: questo è oggettivamente un limite rilevante per qualsiasi RCT.

La terapia poteva iniziare in qualsiasi momento del ricovero ed in qualunque condizione clinica: alla randomizzazione il 16% dei pazienti era intubato, il 60% faceva ossigenoterapia o ventilazione non-invasiva (queste ultime due considerate come se fossero la stessa cosa) ed il 24% non riceveva nessun supporto respiratorio (nemmeno l’ossigenoterapia). 

Il risultato complessivo è stato la riduzione del 2.8% della mortalità a 28 giorni in chi faceva il desametasone (22.9% in chi ha fatto desametasone vs 25.7% in chi non ha ricevuto questa terapia) (figura 1, riquadro rosso).

La principale riduzione di mortalità si è verificata nei pazienti con ventilazione meccanica invasiva, in cui la mortalità con desametasone è stata il 29% a confronto del 41% dei pazienti con “usual care“.

Molto minore o assente l’efficacia nei pazienti con ossigenoterapia/ventilazione non-invasiva e senza supporti respiratori, che se considerati insieme non hanno avuto nessuna significativa differenza di mortalità (21.7% con desametasone e 22.7% con la usual care) (figura 1, riquadro blu).



Figura 1

 

 Il gruppo di controllo: la “usual care“.

Ora facciamoci una domanda: il desametasone è stato più efficace di che cosa nei pazienti in ventilazione meccanica invasiva? E’ stato più efficace rispetto alla usual care, cioè al trattamento usuale. A questo punto pare logico chiederci quale sia stata la ”usual care” nei 1007 sottoposti a ventilazione meccanica nei 176 ospedali che hanno partecipato al RECOVERY (per una media di 5-6 pazienti per ospedale): quali sono stati i criteri di intubazione, una volta iniziata la ventilazione meccanica che volume corrente, driving pressure, PEEP, pressione di plateau sono stati applicati, quanto spesso è stata usata la pronazione, se e come i pazienti hanno ricevuto miorilassanti, ecc. ecc.

Sappiamo bene che, anche nell’era della ventilazione protettiva, il 35% dei pazienti con ARDS riceve un volume corrente decisamente eccessivo (> 8 m/kg di peso corporeo ideale) e quasi l’80% superiore a 6 ml/kg di peso ideale (7). E sappiamo bene che un elevato volume corrente, PEEP non appropriata o stress index > 1 determinano un aumento delle citochine infiammatorie (8, 9). Lo steroide può aver un effetto anche su questa possibile fonte di infiammazione?

Sappiamo anche che la pronazione, anch’essa protettiva per lo stress polmonare (10–12), nella pratica clinica spesso non è utilizzata nei pazienti con ARDS grave (13). Quanto è stata utilizzata nei pazienti del RECOVERY?

Come abbiamo visto all’inizio del post, il risultato di un RCT dipende fortemente dalla ”usual care, cioè dal contesto in cui il risultato è stato ottenuto e dalla combinazione con gli altri trattamenti, elementi da cui dipende la sua generalizzabilità alla nostra pratica clinica: se non sappiamo quando e come sono stati ventilati i pazienti del RECOVERY trial, non potremo sapere quanto possano essere validi per noi questi risultati.

 

Steroide efficace nella ARDS o nella COVID-19?

Se il cortisonico fosse efficace nella COVID-19, avrebbe dovuto ridurre la mortalità in tutti i pazienti, non solo in quelli sottoposti a ventilazione meccanica invasiva. Perchè ha funzionato molto bene solo nei pazienti intubati e ventilati e poco o nulla negli altri?

Chi ha visto i pazienti con COVID-19 che arrivano alla ventilazione meccanica invasiva sa bene che, a questo stadio, hanno una polmonite bilaterale. E quindi una ARDS (per la diagnosi di ARDS ti rimando al post del 24/06/2012).

Mi sembra logico dedurre che i risultati del RECOVERY supportino l’efficacia della terapia steroidea nella ARDS. Il risultato è tutt’altro che innovativo, visto che la terapia con steroidi nella ARDS era già raccomandata dalle linee-guida congiunte dell società americana ed europea di Terapia Intensiva (14) e confermata nella sua efficacia da un recente RCT nei pazienti con ARDS (15).

Il merito del RECOVERY è stato quello di fugare le perplessità sull’uso degli steroidi nei pazienti con COVID-19 quando sviluppano una ARDS. Inizialmente l’utilizzo degli steroidi nella COVID-19 era sconsigliato nel timore che potesse ridurre la clearance virale (16). I risultati del trial RECOVERY confermano questo timore nei pazienti senza grave insufficienza respiratoria (che hanno una mortalità del 15-20%), ma mostrano che quando compare una ARDS il beneficio supera il rischio. E’ quindi giustificato dare lo steroide nella ARDS anche secondaria a COVID-19.

 

Conclusione.

Il risultato del RCT RECOVERY purtroppo ci mostra che la terapia steroidea non è efficace per la COVID-19, altrimenti avrebbe ridotto la mortalità in tutti i livelli di gravità della malattia.

Questo studio ci conferma che  lo steroide è efficace nella ARDS, anche quando secondaria a COVID-19

L’efficacia del desametasone nella ARDS da COVID-19 è valida quando i pazienti sono trattati secondo la usual care (indicazioni all’intubazione, volumi e pressioni di ventilazione, farmaci associati, ecc. ecc.) del RECOVERY, che purtroppo non ci è dato conoscere… (almeno per il momento). Quindi non è detto che questi risultati siano riproducibili in ospedali con organizzazione ed “usual care” diversa da quella degli ospedali britannici che hanno partecipato al trial.

Come sempre, un sorriso a tutti gli amici di ventilab. E buone vacanze! Quest’anno ce le meritiamo proprio 🙂

 

Bibliografia

  1. The RECOVERY Collaborative Group. Dexamethasone in Hospitalized Patients with Covid-19 — Preliminary Report. N Engl J Med 2020;NEJMoa2021436.doi:10.1056/NEJMoa2021436.
  2. van den Berghe, G, Wouters P, Weekers F, Verwaest C, Bruyninckx F, Schetz M, Vlasselaers D, Ferdinande P, Lauwers P, Bouillon R. 110801 Intensive Insulin Therapy in Critically Ill Patients. N Engl J Med 2001;345:1359–1367.
  3. Rivers E, Nguyen B, Havstad S, Ressler J, Muzzin A, Knoblich B, Peterson E, Tomlanovich M. Early Goal-Directed Therapy in the Treatment of Severe Sepsis and Septic Shock. N Engl J Med 2001;345:1368–1377.
  4. Bernard GR, Dhainaut J-F, Helterbrand JD. Efficacy and Safety of Recombinant Human Activated Protein C for Severe Sepsis. N Engl J Med 2001;344:699–709.
  5. Papazian L, Forel J, Gacouin A, Penot-Ragon C, Gilles P, Loundou A, Jaber S, Arnal J, Perez D, Seghboyan J, Constantin J, Courant P, Lefrant J, Claude G, Prat G, Morange S, Roch A. Neuromuscular Blockers in Early Acute Respiratory Distress Syndrome. N Engl J Med 2010;363:1107–1116.
  6. Frieden TR. Evidence for Health Decision Making — Beyond Randomized, Controlled Trials. In: Drazen JM, Harrington DP, McMurray JJV, Ware JH, Woodcock J, editors. N Engl J Med 2017;377:465–475.
  7. Bellani G, Laffey JG, Pham T, Fan E, Brochard L, Esteban A, Gattinoni L, van Haren F, Larsson A, McAuley DF, Ranieri M, Rubenfeld G, Thompson BT, Wrigge H, Slutsky AS, Pesenti A, for the LUNG SAFE Investigators and the ESICM Trials Group. Epidemiology, Patterns of Care, and Mortality for Patients With Acute Respiratory Distress Syndrome in Intensive Care Units in 50 Countries. JAMA 2016;315:788.
  8. Ranieri VM, Suter PM, Tortorella C, Tullio RD, Dayer JM, Brienza A, Bruno F, Slutsky AS. Effect of Mechanical Ventilation on Inflammatory Mediators in Patients with Acute Respiratory Distress Syndrome: A Randomized Controlled Trial: JAMA 2000;44:11–12.
  9. Terragni PP, Filippini C, Slutsky AS, Birocco A, Tenaglia T, Grasso S, Stripoli T, Pasero D, Urbino R, Fanelli V, Faggiano C, Mascia L, Ranieri VM. Accuracy of Plateau Pressure and Stress Index to Identify Injurious Ventilation in Patients with Acute Respiratory Distress Syndrome: Anesthesiology 2013;119:880–889.
  10. Mentzelopoulos SD. Prone position reduces lung stress and strain in severe acute respiratory distress syndrome. Eur Respir J 2005;25:534–544.
  11. Cornejo RA, Díaz JC, Tobar EA, Bruhn AR, Ramos CA, González RA, Repetto CA, Romero CM, Gálvez LR, Llanos O, Arellano DH, Neira WR, Díaz GA, Zamorano AJ, Pereira GL. Effects of Prone Positioning on Lung Protection in Patients with Acute Respiratory Distress Syndrome. Am J Respir Crit Care Med 2013;188:440–448.
  12. Galiatsou E, Kostanti E, Svarna E, Kitsakos A, Koulouras V, Efremidis SC, Nakos G. Prone Position Augments Recruitment and Prevents Alveolar Overinflation in Acute Lung Injury. Am J Respir Crit Care Med 2006;174:187–197.
  13. Guérin C, Gurjar M, Bellani G, Garcia-Olivares P, Roca O, Meertens JH, Maia PA, Becher T, Peterson J, Larsson A, Gurjar M, Hajjej Z, Kovari F, Assiri AH, Mainas E, Hasan MS, Morocho-Tutillo DR, Baboi L, Chrétien JM, François G, Ayzac L, Chen L, Brochard L, Mercat A, for the investigators of the APRONET Study Group, the REVA Network, the Réseau recherche de la Société Française d’Anesthésie-Réanimation (SFAR-recherche) and the ESICM Trials Group. A prospective international observational prevalence study on prone positioning of ARDS patients: the APRONET (ARDS Prone Position Network) study. Intensive Care Med 2018;44:22–37.
  14. Annane D, Pastores SM, Rochwerg B, Arlt W, Balk RA, Beishuizen A, Briegel J, Carcillo J, Christ-Crain M, Cooper MS, Marik PE, Meduri GU, Olsen KM, Rodgers SC, Russell JA. Guidelines for the Diagnosis and Management of Critical Illness-Related Corticosteroid Insufficiency (CIRCI) in Critically Ill Patients (Part I): Society of Critical Care Medicine (SCCM) and European Society of Intensive Care Medicine (ESICM) 2017. Crit Care Med 2017;45:11.
  15. Villar J, Ferrando C, Martínez D, Ambrós A, Muñoz T, Soler JA, Aguilar G, Alba F, González-Higueras E, Conesa LA, Martín-Rodríguez C, Díaz-Domínguez FJ, Serna-Grande P, Rivas R, Ferreres J, Belda J, Capilla L, Tallet A, Añón JM, Fernández RL, González-Martín JM, Aguilar G, Alba F, Álvarez J, Ambrós A, Añón JM, Asensio MJ, Belda J, Blanco J, et al. Dexamethasone treatment for the acute respiratory distress syndrome: a multicentre, randomised controlled trial. Lancet Respir Med 2020;S2213260019304175.doi:10.1016/S2213-2600(19)30417-5.
  16. World Health Organization. Clinical management of severe acute respiratory infection (SARI) when COVID-19 disease is suspected. Interim guidance 13 March 2020. 2020;at <https://www.who.int/docs/default-source/coronaviruse/clinical-management-of-novel-cov.pd>.
 
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Airway Pressure Release Ventilation (APRV) e COVID-19: più ombre che luci.

4 giu 2020

Proseguendo il ciclo di post per rispondere collettivamente alle tante domande che mi sono arrivate durante l’emergenza COVID-19, è il momento della Airway Pressure Release Ventilation (APRV) nei pazienti con COVID-19. Alcuni colleghi ne hanno intravisto i possibili effetti positivi, altri invece i potenziali rischi.

Se vuoi capire meglio come funziona questa modalità di ventilazione, ti rimando al post del 11/02/2015.

Mi piace ribadire che qualsiasi modalità di ventilazione può essere ottimale o inadeguata: il suo esito dipende 1) dalle caratteristiche fisiopatologiche della malattia polmonare, 2) dalla fase clinica della malattia, 3) dalla impostazione della ventilazione e 4) dall’interazione con il paziente. E la APRV non fa eccezione. Analizziamo questi 4 aspetti con considerazioni specifiche per i pazienti con COVID-19.

Le caratteristiche fisiopatologiche della malattia polmonare.

La APRVV ha un proprio senso nei pazienti caratterizzati da una costante di tempo breve (vedi anche post del 30/06/2016 e del 17/07/2016). La costante di tempo breve consente l’espirazione (e la successiva rapida re-inflazione) di un significativo volume polmonare anche nei brevi rilasci di pressione, caratteristica precipua di questa modalità di ventilazione. Nella pratica clinica non misuriamo la costante di tempo, ma capiamo se essa è sufficientemente breve per la APRV se, durante le fugaci riduzioni della pressione delle vie aeree, il flusso espiratorio si riduce rapidamente dal proprio picco ed il paziente espira passivamente un volume significativo (mi sbilancio dicendo tra i 250 ed i 350 ml).

Se consideriamo la costante di tempo, l’indicazione alla APRV nella COVID-19, che è una ARDS su polmoni spesso sani, è ottimale. Mentre la APRV è assolutamente sconsigliabile nei pazienti ostruttivi, anche quando sviluppano una ARDS perchè la lunga costante di tempo che li caratterizza ostacola l’espirazione durante i rilasci di pressione.

In alcuni casi di COVID-19 ho osservato una espirazione tipica da paziente ostruttivo, cioè con flusso espiratorio che si riduce molto lentamente, pur in assenza di anamnesi positiva per malattie ostruttive respiratorie croniche. Pertanto la APRV può andare bene nella maggior parte dei pazienti con COVID-19, ma non in tutti.

La fase clinica della malattia.

La fase clinica in cui la APRV potrebbe fare la differenza è il momento della sospensione di sedazione e paralisi utilizzate durante il primo periodo di ventilazione protettiva. In questa fase molti pazienti con ARDS hanno un elevato drive respiratorio, cioè uno stimolo respiratorio molto intenso che li porta a respirare con un elevato volume corrente ad una alta frequenza respiratoria. Tutto il contrario della ventilazione protettiva che vorremmo proseguire anche con l’inizio della ventilazione assistita.

In queste condizioni le modalità di ventilazione ben sincronizzate con il paziente (come ad esempio la pressione di supporto) possono essere deleterie: ogni volta che il paziente inspira (intensamente), il ventilatore contemporaneamente eroga il supporto inspiratorio. Il volume generato dall’ispirazione del paziente si somma sempre con il volume prodotto dalla pressurizzazione del ventilatore e il risultato può essere devastante, con volume corrente spesso superiori a 10-12 ml/kg. Questo può essere un ottimo modo per indurre un ulteriore danno a polmoni che dovrebbero invece essere messi nelle condizioni di guarire.

In questo contesto, la APRV può diventare una buona soluzione, sfruttando la caratteristica di essere una ventilazione asincrona. Anche se qualche modello di ventilatore, volendo fare l’intelligente, non ci aiuta cercando la sincronizzazione con il paziente e facendo quindi perdere l’utile prerogativa (eccezionalmente, in questo caso) della asincronia. Nella APRV i brevi rilasci della pressione delle vie aeree ad un livello basso di pressione (Pbassa) sono seguiti da un immediato ripristino di una pressione più elevata (Palta), e garantiscono una parte della ventilazione. I rilasci di pressione sono asincroni rispetto alla attività respiratoria del paziente, che normalmente trova lo spazio per il proprio respiro spontaneo durante il periodo di Palta senza alcun supporto inspiratorio, cioè facendo di fatto una CPAP ad alta PEEP. Ventilatore e paziente ventilano indipendentemente l’uno dall’altro, senza quasi mai “pestarsi i piedi”, grazie al fatto che quasi sempre il ventilatore è a Palta.

L’impostazione della APRV.

È una ventilazione difficile da impostare e da seguire correttamente. La sconsiglio a chi non abbia una buona conoscenza teorica e pratica della ventilazione meccanica.

A puro titolo di esempio, ti dico con che impostazione referisco iniziarla,  senza pretendere che questa sia la verità, è solo il mio punto di partenza nella gestione della APRV.

Alla sospensione di sedazione e paralisi, inizio la APRV ai primi segni di attività respiratoria del paziente, meglio se ancora appena accennata. Non la inizio a paziente ancora totalmente passivo perché sarebbe nulla di più che una pressione controllata a rapporto invertito, ventilazione di cui ho imparato a fare a meno da almeno 20 anni. Finchè il paziente è passivo preferisco sfrutta la tradizionale ventilazione protettiva.

Imposto quindi un tempo di Palta a 2.5 secondi, un tempo di Pbassa di 0.5 secondi. Imposto la Palta a circa 20 cmH2O  e la Pbassa a 0 cmH2O. Quando la frequenza respiratoria spontanea del paziente aumenta, prolungo progressivamente il tempo di Palta fino ad arrivare ad un massimo di circa 4 secondi. Valuto l’appropriatezza del livello di Palta sulla base delle variazioni di volume durante i passaggi da Pbassa a Palta: esse dovrebbero essere un po’ più piccole del volume corrente della ventilazione protettiva (vedi sotto).

L’espirazione durante Pbassa deve essere incompleta per garantire la persistenza di una pressione positiva polmonare in qualsiasi fase del ciclo ventilatorio. Non devi quindi temere che impostare a 0 cmH2O la Pbassa porti a 0 cmH2O anche la pressione alveolare in espirazione: sfruttiamo l’autoPEEP a Pbassa.

In APRV non si può parlare di una PEEP (Positive End-Expiratory Pressure) e di una pressione inspiratoria, come purtroppo alcuni ventilatori indicano nel pannello di impostazione. Infatti in APRV inspirazione ed espirazione avvengono sia a Palta che a Pbassa. Nel paziente attivo molte inspirazioni ed espirazioni si hanno nei respiri spontanei a Palta: in queto caso la Palta è sia pressione inspiratoria che PEEP. La Pbassa è PEEP dei rilasci di pressione (difficilmente il paziente riesce ad inspirare durante il breve tempo di Pbassa). Quindi il paziente ha due PEEP, Palta e Pbassa, e teoricamente due autoPEEP, quella a Palta e quella a Pbassa.

L’interazione paziente-ventilatore.

L’interazione paziente-ventilatore in APRV non è semplice da giudicare. Spesso il paziente, proprio per l’asincronia con i rilasci del ventilatore, non ha una respirazione esteticamente “bella”, con due ritmi respiratori indipendenti e che si alternano, quello del paziente equello del ventilatore. L’obiettivo principale però è una somma ragionevole tra il volume corrente generato dal paziente a Palta e l’incremento di volume che si è prodotto nel passaggio da Pbassa a Palta. E’ difficile dare una indicazione precisa su cosa si intenda per volume ragionevole, però potremmo in linea di massima concordare su un volume certamente inferiore a 8-10 ml/kg di peso ideale. Qui è decisivo il tipo di monitoraggio del volume fatto dal ventilatore: il ventilatore migliore è quello che mantiene la somma di questi volumi, evitando di resettare il segnale ad ogni espirazione.

Cerco si spiegarmi meglio con due esempi. Nella figura 1 puoi vedere un paziente che inizia la APRV, con una attività respiratoria spontanea appena accennata. Il passaggio da Pbassa a Palta determina mediamente un incremento di volume di circa 220 ml (tratteggio bianco), mentre durante gli atti respiratori spontanei a Palta il paziente somma fino a circa 130 ml, giungendo ad un totale di 350 ml (tratteggio rosso).



Figura 1

Quando il paziente diventa più attivo, come nella figura 2, il volume che inspira spontaneamente lo porta a raggiungere variazioni totali di volume che oscillano tra i 455 ed i 630 ml. Anche in questa figura il tratteggio bianco indica la variazione di volume ottenuta con il passaggio da Pbassa a Palta (che come vedi è variabile) e la linea tratteggiata rossa il volume massimo ottenuto con la somma dell’attività respiratoria spontanea.



Figura 2

Di solito ricorro alla APRV in circa la metà delle ARDS “difficili” ed in circa il 50% di questi pazienti mi consente di mantenere sospesa la paralisi e traghettare in 1-2 giorni il paziente ad una accettabile ventilazione assistita convenzionale. Nell’altra metà dei pazienti il pattern respiratorio non è invece accettabile nemmeno in APRV e proseguo con un’altra giornata di sedazione e paralisi.

Ed ora la mia esperienza della APRV nei pazienti con COVID-19.  Nei pazienti COVID la sospensione di sedazione e paralisi determina un drive respiratorio “feroce”, uno stato di agitazione e polipnea indomabili. In molti casi (più del solito) l’APRV non ha evitato una ventilazione con elevato volume totale, con utilizzo della muscolatura accessoria della ventilazione ed una frequenza respiratoria molto elevata. Per questo motivo ho spesso fatto marcia indietro, ripiegando nuovamente alla sedazione e quindi alla sospensione della APRV. Dopo una serie di fallimenti, ho quindi di fatto desistito dal proporre la APRV ai pazienti che ho seguito personalmente, preferendo associare una sedazione più prolungata a modalità di ventilazione assistite o assistite-controllate.

Per concludere, la APRV è una arma in più nel nostro repertorio, ma come tutte le modalità di ventilazione non è di per sé buona o cattiva, ma dipende dalle caratteristiche fisiopatologiche della malattia polmonare, dalla fase clinica, dall’impostazione e dall’interazione con il paziente.

La APRV è una ventilazione “difficile, che richiede attenzione e competenza, non solo da parte di chi la imposta ma di tutta la catena dei medici che si susseguono nella cura del paziente.

Nel paziente con COVID mi ha risolto molto meno problemi di quanto non accada nelle altre forme di ARDS, anzi spesso ho dovuto abbandonarla precocemente e con il tempo l’ho utilizzata sempre meno.

Ciò non toglie che, valutata caso per caso, non possa essere utile in alcuni pazienti. Ma prima di utilizzarla sui COVID, è meglio aver acquisito una buona esperienza su pazienti in cui è meno problematico il passaggio dalla sedazione/paralisi alla ventilazione assistita.

Come sempre, un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

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