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Resistenza vascolare sistemica (systemic vascular resistance)

20 mar 2025

La resistenza vascolare sistemica (Systemic Vascular Resistance, SVR) è un dato tradizionalmente inserito nella valutazione emodinamica dei pazienti critici. Oggi cerchiamo di capirne insieme il significato fisiopatologico e l’utilizzo clinico. 

Prendiamo spunto dai dati di Gianni, un anziano all’ennesimo ricovero per scompenso cardiaco. Con l’infusione di noradrenalina (0.2  $ mcg \cdot kg^{-1} \cdot min^{-1}$) i dati sono questi: pressione arteriosa 110/55 mmHg (pressione arteriosa media 78 mmHg), frequenza cardiaca 80/min,  pressione venosa centrale 8 mmHg, portata cardiaca 2.3 l/min (indice cardiaco 1.38  $ l \cdot min^{-1} \cdot m^2$). 

Quale è il valore della sua resistenza vascolare sistemica? Che significato fisiopatologico e clinico ha? Può esserci utile per curarlo? Vedremo la risposta a queste domande nel corso del post.

La resistenza vascolare sistemica

In condizioni di flusso costante (cioè senza accelerazioni e decelerazioni) e laminare in un tubo rigido con sezione circolare, l’equazione di Poiseuille descrive bene la relazione tra flusso ($\dot{Q}$) e differenza di pressione ($\Delta P$) agli estremi del tubo:

$$ \dot{Q} = \cfrac {\Delta P} {R} ~~~~~(eq. 1)$$

in cui R rappresenta la resistenza, cioè l’insieme degli elementi che si oppongono al flusso.

Nelle suddette condizioni, la resistenza è funzione di lunghezza l e raggio r del condotto e della viscosità ($ \eta$) del fluido che vi scorre:

$$ R = \cfrac {8 \eta l} {\pi r^4}~~~~~(eq. 2)$$

Mettendo insieme queste due equazioni vediamo che il flusso è direttamente proporzionale alla differenza di pressione, al raggio del condotto alla quarta potenza ed inversamente proporzionale a lunghezza del tubo e viscosità del fluido:

$$ \dot{Q} = \cfrac {\Delta P \cdot \pi \cdot r^4} {8 \cdot \eta \cdot l}~~~~~(eq. 3)$$

La circolazione sistemica inizia con l’uscita del sangue dal ventricolo sinistro e termina con il rientro del sangue nell’atrio destro. Ipotizziamo molto semplicisticamente che il flusso di sangue dal ventricolo sinistro all’atrio destro sia costante e laminare, e che il collegamento tra ventricolo ed atrio sia formato da un tubo rigido a sezione circolare (figura 1). 

Figura 1

In queste condizioni possiamo applicare l’equazione di Poiseuille. Il flusso dal ventricolo sinistro all’atrio destro è la portata cardiaca (cardiac output, CO), il $\Delta P$ è la differenza tra la pressione arteriosa media (PAM), stima della pressione in aorta, e la pressione venosa centrale (PVC), stima della pressione in atrio destro, e la resistenza è la resistenza vascolare sistemica SVR:

$$ CO = \cfrac {PAM - PVC} {SVR}~~~~~(eq. 4)$$

E’ evidente che non possiamo conoscere la lunghezza e il raggio dei vasi che congiungono il ventricolo sinistro all’atrio destro. Questo significa che non è possibile calcolare direttamente la SVR, e successivamente ottenere la portata cardiaca da SVR e $\Delta P$, come suggerisce l’equazione precedente.

Se vogliamo conoscere il valore della SVR, essa può essere calcolata indirettamente dalle due variabili fisiologiche che possiamo misurare, cioè $\Delta P$ e portata cardiaca:

$$ SVR = \cfrac {PAM -PVC}{CO}~~~~~(eq. 5)$$

La SVR derivata dall’equazione di Poiseuille dovrebbe teoricamente dare informazioni essenzialmente sul diametro del letto vascolare: una piccola variazione di calibro darebbe una grande variazione di SVR, per la sua dipendenza dalla quarta potenza del raggio. A corollario, la SVR dovrebbe rimanere costante in assenza di variazioni di sezione del letto vascolare (se la viscosità rimane costante).

Ovviamente questo ragionamento è valido solo se l’equazione di Poiseuille è applicabile al sistema vascolare periferico.


Calcolo della SVR, unità di misura e valori normali

Calcoliamo la SVR di Gianni dai dati che abbiamo dato in precedenza:

$$SVR = \cfrac {78~mmHg~–~8~mmHg}{2.3~l/min} = 30.4~mmHg \cdot l^{-1} \cdot min$$

Per comprendere il significato di un numero bisogna capire bene il significato della sua unità di misura. Il senso di questa unità di misura della SVR indica che è necessaria una differenza tra PAM e PVC di circa 30 mmHg per generare 1 l/min di portata cardiaca. Questa unità di misura è nota anche come Wood, dal nome di Paul Wood, un grande cardiologo (è suo il ritratto che apre il post) che già a metà del secolo scorso propose una classificazione dell’ipertensione polmonare in linea con le conoscenze attuali.(1) Alla fine del post approfondiremo anche la conoscenza del dottor Wood.

Sebbene il Wood sia facile da calcolare e da capire, in emodinamica la SVR è misurata con una misteriosa unità di misura, il $dyne \cdot s \cdot cm^{-5}$, che deriva dalla misura della pressione in $dyne/cm^2$ e del flusso in $m^3/s$. Moltiplicando i Wood per 80 si ottiene la misura della SVR in $dyne \cdot s \cdot cm^{-5}$:

$$SVR = \cfrac {(78 -8)~mmHg} {2.3~L/min} \cdot 80 = 2435~dyne \cdot s \cdot cm^{-5}$$

E’ un valore normale, alto o basso?  Sono proposti molti range di normalità, anche piuttosto diversi tra loro, forse quello più frequente è 800-1200 $dyne \cdot s \cdot cm^{-5}$. Questo range è davvero strano, se consideriamo che un soggetto sano (pressione arteriosa 120/80, che corrisponde ad una PAM di circa 95 mmHg, PVC 5 mmHg, portata cardiaca 5 l/min) ha una SVR di 1440 $dyne \cdot s \cdot cm^{-5}$, valore perlatro in linea con quelli medi effettivamente rilevati nei soggetti adulti sani. (2) Probabilmente un range di normalità più ragionevole potrebbe essere tra 1000 e 1800  $dyne \cdot s \cdot cm^{-5}$, ma questa è una mia personale opinione.

Tornando a Gianni, qualunque range di normalità si consideri, appare evidente che la sua SVR è decisamente elevata. Ci aiuta questo a capire la causa del suo shock e scegliere la terapia migliore per gestirlo? Questo valore di SVR significa che il suo problema è una vasocostrizione periferica e dovremmo quindi somministrare un vasodilatatore per far tornarne tutto alla normalità? Gianni ha un postcarico elevato? Alla fine del post avremo gli elementi per rispondere a queste domande.


L’illusione della resistenza vascolare sistemica

Tutto quanto abbiamo visto finora sulla SVR è come il trucco del prestigiatore che sega in due una donna: sembra tutto convincente se ci fermiamo all’apparenza, ma ragionando si può capire che siamo ingannati da un’illusione.

Di seguito alcune riflessioni che ci aiutano a capire perchè il calcolo della SVR sia illusorio e di scarso valore clinico.

L’equazione di Poiseuille non è valida per il sistema vascolare

Le considerazione che abbiamo fatto nel paragrafo precedente sulle resistenze vascolari avevano una premessa fondamentale: “che il flusso di sangue dal ventricolo sinistro all’atrio destro sia costante e laminare, e che il collegamento tra ventricolo ed atrio sia formato da un tubo rigido a sezione circolare“. Il problema è che nessuna di queste assunzioni è vera nella fisiologia umana: il sistema vascolare sistemico è infatti composto da vasi non rigidi, non sempre a sezione circolare, con flusso pulsatile e turbolento

Analizziamo come la sola presenza di flusso turbolento sia già di per sé sufficiente a inficiare la validità della equazione di Poiseuille. In un tubo di vetro (quindi rigido) di 150 cm di lunghezza e 5 mm di diametro sono stati fatti scorrere diversi flussi di acqua fino ad un massimo di 1 l/min e per ciascun flusso il $\Delta P$ teorico è stato calcolato con l'equazione di Poiseuille:

$$ \Delta P = Q \cdot \cfrac {8 \eta l} {\pi r^4}~~~~~(eq. 6)$$

(figura 2, linea nera continua) e il $\Delta P$ effettivo è stato misurato come differenza tra le pressioni agli estremi del condotto (figura 2, punti neri).(3)  

Figura 2

Finchè il flusso è basso (ad esempio nel punto 1 in figura 2), il $\Delta P$ teorico e quello effettivo coincidono. Nel punto 1 la resistenza $R_1$, calcolata come rapporto tra $\Delta P$ e flusso, è 11.4 $mmHg \cdot l^{-1} \cdot min$ (che corrispondono a 912 $ dyne \cdot s \cdot cm^{-5} $). Questo significa che è necessaria una differenza di pressione di 11.4 mmHg per generare 1 l/min di flusso. A questo valore il flusso è completamente laminare.

Quando il flusso raggiunge il valore di circa 0.5 L/s, nel modello sperimentale esso inizia ad essere turbolento. Da questo punto in avanti il $\Delta P$ misurato diventa sempre più differente rispetto a quello calcolato con l’equazione di Poiseuille. Al flusso di 0.8 l/min, il $\Delta P$ previsto dalla equazione di Poiseuille sarebbe 9.1 mmHg (punto 2 nella figura 2), che diviso per il flusso ribadirebbe la resistenza di 11.4 $mmHg \cdot l^{-1} \cdot min$: infatti per l’equazione di Poiseuille se le dimensioni del condotto e la viscosità non cambiano, la resistenza è costante. In realtà il $\Delta P$ misurato è 21.3 mmHg (punto 3, fig. 2), che fa calcolare una resistenza $R_3$ di 26.6 $mmHg \cdot l^{-1} \cdot min$. La resistenza effettiva è più che raddoppiata dal punto 1 al punto 2, senza che vi sia stata alcuna variazione di calibro del vaso: l’equazione di Poiseuille evidentemente non è più valida per la sola comparsa delle turbolenze nel flusso.

Nell’apparato cardiovascolare il flusso è normalmente turbolento, pertanto il calcolo della SVR è un indicatore inadeguato per valutare le variazioni di calibro dei vasi sanguigni (e quindi del tono vascolare).

L’inappropriatezza dell’applicazione dell’equazione di Poiseuille per il calcolo della SVR è ulteriormente accresciuta dal fatto che i vasi sanguigni sono elastici e non rigidi e che il flusso è pulsatile e non costante.


Le parti del sistema vascolare sistemico non si sommano

Il sistema vascolare tra ventricolo sinistro e atrio destro è in realtà formato da due sistemi circolatori distinti, quello arterioso e quello venoso, che hanno caratteristiche capacitive e resistive ben diverse e che non sono in continuità emodinamica tra di loro.

Si ritiene che esista una pressione critica di chiusura ($ P_{crit}$) dei vasi a valle del circolo arterioso, al di sotto della quale non vi è flusso tra sistema arterioso e venoso. Questo fenomeno viene spiegato con l’analogia della diga, nella quale il flusso sopra il bordo della diga si annulla per qualsiasi livello di acqua inferiore all’altezza della diga stessa. A valle di questa diga concettuale, il flusso nel versante venoso è generato dalla differenza di pressione tra la pressione sistemica media ($ P_{sm} $) e la PVC, secondo la classica fisiologia del ritorno venoso proposta da Guyton. (4) In vivo $ P_{crit}$ è stata stimata tra 20 e 50 mmHg.(5–8)

Possiamo quindi ridisegnare il modello dell’apparato cardiovascolare in questo modo:

Figura 3

Se ragioniamo con questo modello, vediamo che in realtà esistono due resistenze, una arteriosa ($ R_{art} $) ed una venosa ($ R_{ven} $). (9) $ R_{art} $ ha come differenza di pressione $ (PAM - P_{crit}) $, mentre il $\Delta P $ di $ R_{ven} $ è $ (P_{ms} - PVC) $. Dalla figura 4 puoi facilmente renderti conto che la somma di queste due differenze di pressione è inferiore al $\Delta P $ della SVR, cioè $ (PAM-PVC) $. Facendo i calcoli per un'ipotetico paziente con 5 l/min di portata cardiaca, puoi anche constatare che la somma di $ R_{art} $ e $ R_{ven} $ è ovviamente inferiore alla SVR.

Figura 4

Ho accennato a questo concetto, sicuramente troppo complesso per poter essere trattato in modo così sintetico, solo per far comprendere che l’esistenza di un condotto unico e continuo che va dal ventricolo sinistro all’atrio destro è probabilmente un’altra illusione sulla strada della SVR. La realtà è molto più complessa e sarebbe più appropriato ragionare, anche se solo concettualmente, in maniera separata di resistenza arteriosa e resistenza venosa.


La SVR non ha un valore clinico

Vediamo ora cosa aggiunge il valore della SVR nella gestione clinica.

Per conoscere la SVR si deve avere una misura della portata cardiaca: la sua conoscenza avviene pertanto quando è già in atto un monitoraggio emodinamico avanzato che fornisce molte informazioni. Cosa aggiunge a queste la SVR? Dobbiamo considerare che il numeratore della SVR ($ \Delta P $) solitamente varia molto meno del denominatore ($ CO $): ci possono essere grandi variazioni di $CO$ associate a ridotte variazioni di $ \Delta P $. Pertanto il valore della SVR dipende essenzialmente dal CO: tutti gli shock a bassa portata (cardiogeno, ipovolemico, ostruttivo) hanno alta SVR, mentre hanno bassa SVR tutti gli shock ad alta portata (settico, anafilattico, neurogeno).

Analizziamo l’utilità della SVR per la diagnosi o per il trattamento di alcuni ipotetici pazienti ed infine del nostro Gianni. Questi scenari affrontano la maggior parte delle alterazioni cardiovascolari gravi che si possono trovare nel paziente critici. I primi due scenari sono a bassa SVR, gli altri 4 ad alta SVR.

- caso 1, shock settico, SVR bassa (595 $ dyne \cdot s \cdot cm^{-5} $): pressione arteriosa 85/50 mmHg (PAM 66 mmHg), frequenza cardiaca 95/min, PVC 6 mmHg, portata cardiaca 8 l/min, diuresi 1 $ml \cdot kg^{-1} \cdot h$, lattato arterioso 1.6 mmol/l. In questo caso vi è una PAM accettabile associata a buoni indici di perfusione tissutale. E’ un paziente che non necessita di variare il supporto emodinamico. Anche se la SVR è inferiore al normale, non è per questo da “normalizzare”. Conclusione: non si utilizza la SVR per guidare il trattamento o avere informazioni emodinamicamente utili.

- caso 2, shock settico, SVR bassa (592 $ dyne \cdot s \cdot cm^{-5} $): pressione arteriosa 70/40 mmHg (PAM 53 mmHg), frequenza cardiaca 95/min, PVC 6 mmHg, portata cardiaca 6.4 l/min, diuresi 0.3 ml/kg/h, lattato arterioso 3.9 mmol/L. In questo caso, nonostante l’alta portata, vi è una ipotensione associata a segni di ipoperfusione tissutale. Come primo passo è indicato iniziare o aumentare il vasocostrittore per migliorare le pressioni di perfusione. L’obiettivo del vasocostrittore non è un la normalizzazione della SVR, ma il ristabilimento di una pressione arteriosa sufficiente a ridurre i segni di perfusione tissutale (il primo obiettivo potrebbe essere rivalutare il quadro clinico dopo aver ottenuto una PAM tra 65 e 75 mmHg). Conclusione: non si utilizza la SVR per guidare il trattamento o avere informazioni emodinamicamente utili.

- caso 3, crisi ipertensiva, SVR alta (2528 $ dyne \cdot s \cdot cm^{-5} $): la pressione arteriosa è 220/110 mmHg (PAM 157 mmHg), la frequenza cardiaca 80/min, la PVC 15 mmHg e la portata cardiaca 4.49 l/min.  Questa è una condizione la cui diagnosi si fa esclusivamente con la misurazione della pressione arteriosa ed il trattamento con vasodilatatori è modulato sulla risposta pressoria. Nella pratica clinica solitamente non si misura la portata cardiaca e quindi non possiamo valutare la SVR. Conclusione: non si utilizza la SVR per guidare il trattamento o avere informazioni emodinamicamente utili.

- caso 4, shock emorragico, SVR alta (2529 $ dyne \cdot s \cdot cm^{-5} $): pressione arteriosa 110/60 mmHg (PAM 84 mmHg), frequenza cardiaca 120/min, PVC 5 mmHg, portata cardiaca 2.49 l/min. Il problema è la bassa portata cardiaca secondaria a ipovolemia, l’ipertono simpatico (autogeno e/o esogeno da somministrazione di amine) è una risposta compensatoria fondamentale per la sopravvivenza e deve essere preservata in attesa della correzione dell’ipovolemia. La terapia appropriata è la somministrazione di volume intravascolare. Se si somministrasse un vasodilatatore per ridurre l’elevata SVR, l’effetto potrebbe essere letale. Conclusione: non si utilizza la SVR per guidare il trattamento o avere informazioni emodinamicamente utili.

- caso 5, bradicardia, SVR alta (2534 $ dyne \cdot s \cdot cm^{-5} $): pressione arteriosa 125/60 mmHg (PAM 84 mmHg), frequenza cardiaca 35/min, PVC 5 mmHg, portata cardiaca 2.5 l/min. In questo caso la bradicardia è la causa della bassa portata cardiaca e la terapia passa attraverso il suo trattamento, farmacologico o con elettrostimolazione. Anche in questo caso, come per il terzo, normalmente non viene monitorata la portata cardiaca e di conseguenza non si conosce il valore di SVR. Conclusione: non si utilizza la SVR per guidare il trattamento o avere informazioni emodinamicamente utili.

- Gianni, shock cardiogeno (?), SVR alta (2435 $ dyne \cdot s \cdot cm^{-5} $): pressione arteriosa 110/55 mmHg (PAM 78 mmHg), frequenza cardiaca 80/min, PVC 8 mmHg, portata cardiaca 2.3 l/min. Gianni ha uno shock, che dal punto di vista clinico ed ecocardiografico, è cardiogeno. L’elevata SVR è legata alla grave bassa portata. Concettualmente potrebbe in questi casi anche essere presa in considerazione una terapia vasodilatatrice unita al supporto inotropo. La terapia però non sarebbe mirata alla normalizzazione della SVR, ma alla risposta in termini di portata cardiaca. Nel caso specifico di Gianni il monitoraggio emodinamico è stato fatto con il catetere arterioso polmonare di Swan-Ganz che ha aggiunto un dato molto importante in un paziente con shock cardiogeno: la pressione di incuneamento in arteria polmonare (Pulmonary Capillary Wedge Pressure), che nel nostro caso era 9 mmHg. Questo valore è sicuramente basso in un paziente con grave disfunzione ventricolare sinistra durante la ventilazione meccanica. Probabilmente l’abbondante terapia diuretica somministrata nei giorni precedenti il ricovero in Terapia Intensiva ha indotto uno stato di disidratazione. E’ stato fatto quindi un carico di fluidi che ha effettivamente aumentato la portata cardiaca e consentito di sospendere il vasocostrittore. Conclusione: non si è utilizzata la SVR per guidare il trattamento o avere informazioni emodinamicamente utili.


Come possiamo constatare dalla rapida analisi delle più disparate condizioni cliniche, la SVR non ha in realtà un ruolo nella gestione emodinamica dei pazienti con alterazioni cardiocircolatorie.


Conclusioni

Alla fine del post, come sempre i punti salienti:

- la resistenza vascolare sistemica non è una misura diretta ma un valore calcolato dal rapporto (PAM-PVC)/CO, derivato dall’applicazione dell’equazione di Poiseuille all’apparato cardiovascolare;

- il calcolo della resistenza vascolare sistemica non ha un valido fondamento fisiopatologico per almeno due motivi: 1) l’apparato cardiovascolare non ha nessuna delle caratteristiche necessarie per rendere applicabile l’equazione di Poiseuille (flusso costante e laminare in un condotto rigido a sezione circolare); 2) non tiene conto della discontinuità pressoria tra la parte arteriosa e quella venosa. Sistema arterioso e venoso, almeno in termini concettuali, dovrebbero essere considerati come due sistemi emodinamici separati;

- la valutazione della resistenza vascolare sistemica, anche forzandone l’uso a dispetto dei suddetti limiti concettuali, non offre informazioni cliniche utili per la valutazione clinico-emodinamica o per guidare la terapia;

- una valutazione emodinamica in grado di fornire il valore di resistenza vascolare sistemica deve misurare la portata cardiaca. Il monitoraggio emodinamico volumetrico o pressometrico offrono dati peculiari che, a differenza della resistenza vascolare sistemica, possono essere fondamentali per gestire il supporto emodinamico.


Con questo post ho semplicemente voluto condividere la mia visione sulla resistenza vascolare sistemica e spiegare perché non la utilizzo nella mia attività clinica. Ovviamente rispetto le abitudini e le argomentazioni di tutti. Se sei abituato ad utilizzare la SVR e preferisci continuare a farlo, spero che almeno questa lettura ti abbia offerto spunti di riflessione utili per inserirla criticamente nella cura dei pazienti.  

Se sei interessato al monitoraggio e supporto emodinamico, ti ricordo che il 6-7 giugno 2025 faremo a Palermo il Corso di Emodinamica (clicca qui per ulteriori informazioni). 

Concludo con una citazione, sempre più attuale, del dottor Paul Wood: “Corriamo il rischio di perdere il nostro patrimonio clinico e di riporre troppa fiducia nei numeri emessi dalle macchine. La medicina ne soffrirà se questa tendenza non verrà fermata". (10)

Infine, se vuoi sentire una magistrale lezione sul polso venoso giugulare dalla viva voce del dott. Wood (e intravederlo nel video), clicca qui. Un esempio di come l’attenta, metodica, intelligente osservazione clinica, unita ad una profonda cultura medica, possa essere alla base delle nostre conoscenze. Non meno dei trial randomizzati e controllati...

Come sempre, un sorriso a tutti gli amici di ventilab.


Bibliografia

1. Wood P. Pulmonary hypertension with special reference to the vasoconstrictive factor. Heart 1958;20:557–570.

2. Cattermole GN, Leung PYM, Ho GYL, Lau PWS, Chan CPY, Chan SSW, et al. The normal ranges of cardiovascular parameters measured using the ultrasonic cardiac output monitor. Physiol Rep 2017;5:e13195.

3. Pontiga F, Gaytán SP. An experimental approach to the fundamental principles of hemodynamics. Adv Physiol Educ 2005;29:165–171.

4. Guyton AC, Lindsey AW, Kaufmann BN. Effect of Mean Circulatory Filling Pressure and Other Peripheral Circulatory Factors on Cardiac Output. Am J Physiol-Leg Content 1955;180:463–468.

5. Liu Z, Pan C, Liu J, Liu H, Xie H. Esmolol response in septic shock patients in relation to vascular waterfall phenomenon measured by critical closure pressure and mean systemic filling pressure: a prospective observational study. J Intensive Care 2022;10:1.

6. Chemla D, Lau EMT, Hervé P, Millasseau S, Brahimi M, Zhu K, et al. Influence of critical closing pressure on systemic vascular resistance and total arterial compliance: A clinical invasive study. Arch Cardiovasc Dis 2017;110:659–666.

7. Kottenberg-Assenmacher E, Aleksic I, Eckholt M, Lehmann N, Peters J. Critical closing pressure as the arterial downstream pressure with the heart beating and during circulatory arrest: Anesthesiology 2009;110:370–379.

8. Girling F. Critical closing pressure and venous pressure. Am J Physiol 1952;171:204–207.

9. Maas JJ, de Wilde RB, Aarts LP, Pinsky MR, Jansen JR. Determination of vascular waterfall phenomenon by bedside measurement of mean systemic filling pressure and critical closing pressure in the intensive care unit: Anesth Analg 2012;114:803–810.

10. Somerville; J, Sleight P. The master’s legacy: the first Paul Wood lecture Commentary. Heart 1998;80:612–619.


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Perfusione tissutale e shock

8 ago 2023

Abbiamo capito nel post precedente che la pressione arteriosa (in particolare il valore della pressione arteriosa media) è un dato semplice da rilevare ma, da solo, di scarsa utilità clinica nel paziente con shock perché non ha una diretta relazione con la perfusione tissutale, come evidente dalla fisiologia e dimostrato dagli studi clinici.

Pertanto dobbiamo sempre valutare l’adeguatezza della pressione arteriosa alla luce di indicatori di perfusione tissutale: se questi ultimi sono nella norma, possiamo essere soddisfatti del risultato raggiunto indipendentemente dal valore di pressione arteriosa media. Se invece esistono segni di ipoperfusione tissutale dobbiamo verificare se possono essere corretti da un miglioramento della funzione cardiovascolare, anche qualora i tradizionali obiettivi pressori (pressione arteriosa media > 65 mmHg) siano stati raggiunti.

L’ipoperfusione tissutale.

Riprendiamo la piccola storia di Mario e Pippo che abbiamo presentato nel post precedente. Per capire se il livello di pressione arteriosa è accettabile dobbiamo aggiungere qualche dato sulla perfusione tissutale. Ricordiamo che entrambi i pazienti sono nelle primissime fasi di trattamento dell’ipotensione, sono stati trattati solo con una prima espansione volemica e non abbiamo perciò ancora a disposizione un catetere venoso centrale:

  • Mario (45 anni, senza malattie croniche, pressione media 58 mmHg): cute rosea, calda e asciutta; diuresi dell’ultima ora 40 ml; lattato arterioso 1.2 mmol/L
  • Pippo (iperteso di 75 anni, pressione arteriosa media 67 mmHg): diuresi dell’ultima ora 10 ml; lattato arterioso 3.9 mmol/L; cute fredda al tatto, se la se si comprime con un dito sulla patella, al rilascio della compressione il colore iniziale viene recuperato dopo oltre 10”
Nei due pazienti abbiamo preso in considerazione tre semplici segni di perfusione tissutale, uno globale (il lattato arterioso) e due distrettuali (la diuresi come segno di perfusione renale ed il refill capillare per valutare la perfusione cutanea):

 -  Iperlattacidemia. Un’insufficiente trasporto di ossigeno o una disfunzione microcircolatoria regionale possono causare ipossia tissutale e iperlattacidemia. La mancata riduzione e/o un valore elevato del lattato arterioso (soprattutto entro le prime 24 ore di ricovero) si associano pertanto ad un rischio di morte aumentato (1,2), anche in assenza l’ipotensione (3-5).

- Oliguria. L’oliguria deve essere valutata in maniera differente nella fase precoce rispetto alle fase tardiva dello shock. 

Nella fase precoce la diuresi dipende principalmente dalla perfusione renale (nei pazienti con normale funzione renale) e pertanto l’oliguria è segno di ipoperfusione renale (la classica insufficienza renale da malattia pre-renale). Durante le prime sei ore di shock una riduzione della diuresi al di sotto di 0.5 ml.kg-1.h-1 si associa ad un aumentato rischio di morte (6,7). 

Nelle fasi più tardive il significato della diuresi può essere diverso. Una grave e/o prolungata ipoperfusione renale, la sepsi ed altre forme di infiammazione sistemica possono determinare una necrosi tubulare acuta (cioè una insufficienza renale da malattia renale), una condizione in cui l’oliguria può diventare il marker della malattia renale più che un segno di ipoperfusione renale. Terminata la fase precoce dello shock, la soglia di diuresi che si associa ad un incremento del rischio di morte si abbassa a 0.2-0.3 ml.kg-1.h-1 (8,9), l'oliguria non è necessariamente segno di ipoperfusione ed il suo trattamento, se opportuno, deve prendere in considerazione anche i diuretici.

- Tempo di refill capillare. Il tempo di refill capillare è un indice di perfusione cutanea. Si misura in maniera molto semplice al letto del paziente comprimendo con un dito la cute sopra la patella per 15” (anche il letto ungueale dell’esaminatore deve diventare pallido per assicurare una sufficiente compressione): dopo aver rilasciato la compressione si rileva il tempo necessario per tornare al normale colore della cute sopra la patella. Un tempo prolungato, superiore a 5”, denota una ipoperfusione della cute ed anch’esso si associa ad un aumentato rischio di morte (10). Esiste un altro indice clinico di perfusione cutanea, il mottling score, che valuta la presenza di marezzatura sugli arti inferiori (6,7). Nella mia personale esperienza clinica però ritengo che un mottling score > 2 (marezzatura che si estende oltre la patella) sia un segno di probabile prognosi infausta più che un'utile guida per capire se il livello di pressione arteriosa ottenuto con il supporto di circolo sia appropriato o meno.

Cosa fare in presenza di ipoperfusione tissutale.

Dopo l’iniziale idratazione Mario, non ha alcun segno clinico che lasci pensare ad un insufficiente flusso di sangue verso i tessuti, nonostante il mancato raggiungimento del target pressorio minimo raccomandato. Possiamo pensare che il supporto di circolo sia sufficiente e non ritenere indispensabile fare di tutto per arrivere a questi benedetti 65 mmHg di pressione arteriosa media.

Al contrario Pippo, nonostante il raggiungimento dell’obiettivo pressorio solitamente raccomandato, ha persistenti segni di ipoperfusione tissutale polidistrettuale (oliguria, iperlattacidemia, aumentato tempo di refill capillare) e merita sicuramente di proseguire con l'intervento terapeutico a sostegno del circolo

Possiamo sinteticamente articolare in due livelli la possibile strategia di escalation terapeutica: 
  1. per prima cosa si può aumentare il target pressorio (ad esempio raggiungere una pressione arteriosa media di almeno 75-80 mmHg), soprattutto considerando che Pippo è un iperteso. In caso di ipertensione arteriosa, la perfusione degli organi (in particolare del rene) ha probabilmente una soglia di autoregolazione aumentata e quindi una pressione arteriosa “normale” può essere insufficiente a garantire una buona perfusione renale e ridurre la probabilità di evoluzione verso la necrosi tubulare acuta (11). L’ulteriore incremento della pressione può essere ottenuto sia con altri fluidi e/o con vasocostrittori, in relazione all’anamnesi, all’obiettività clinica ed alla valutazione ecografica;
  2. se l'aumento di pressione arteriosa non ottenesse un miglioramento clinicamente rilevabile della perfusione tissutale, un monitoraggio emodinamico avanzato diventerebbe assolutamente raccomandato. In questo modo si può capire se l’ipoperfusione può essere trattata con un aumento di portata cardiaca e se è più corretto utilizzare (ed a quale dosaggio) fluidi, vasocostrittori, vasodilatatori o inotropi per la prosecuzione del supporto di circolo. Questo argomento è decisamente complesso per essere affrontato in coda a questo post.

Per finire, in un soggetto come Pippo, con fattori di rischio per malattia cardiovascolare, terrei sotto osservazione anche pressione arteriosa diastolica ed elettrocardiogramma. Infatti una ipotensione diastolica persistente potrebbe portare a fenomeni di ischemia miocardica rilevabili con il tracciato elettrocardiografico (12).

Conclusioni

Come di consueto, concludiamo il post con una breve sintesi dei punti salienti:

  • La valutazione della perfusione tissutale è fondamentale indipendentemente dal raggiungimento di una pressione arteriosa media > 65 mmHg
  • Ci sono semplici segni di ipoperfusione tissutale che possono essere rilevati facilmente anche senza monitoraggi sofisticati: iperlattacidemia, oliguria, allungamento del tempo di refill capillare;
  • L’oliguria è segno di ipoperfusione tissutale solo nelle fasi precoci dello shock, quando l’insufficienza renale è pre-renale, mentre nelle fasi tardive può diventare marker di insufficienza renale;
  • In caso di ipoperfusione tissutale in soggetti ipertesi con pressione arteriosa media > 65 mmHg è ragionevole aumentare il target pressorio a valori più altri (75-80 mmHg)
  • Se persiste l’ipoperfusione tissutale nonostante il raggiungimento di un obiettivo pressorio individualizzato, il supporto di circolo deve proseguire con monitoraggio avanzato che consenta di valutare l'appropriatezza della portata cardiaca e del trasporto di ossigeno.

Un sorriso e buon Ferragosto a tutti gli amici di ventilab.


Bibliografia

1) Vincent J-L, Quintairos e Silva A, Couto L, et al.: The value of blood lactate kinetics in critically ill patients: a systematic review. Crit Care 2016; 20:257
2) Hayashi Y, Endoh H, Kamimura N, et al.: Lactate indices as predictors of in-hospital mortality or 90-day survival after admission to an intensive care unit in unselected critically ill patients. PLoS ONE 2020; 15:e0229135
3) Shankar-Hari M, Phillips GS, Levy ML, et al.: Developing a new definition and assessing new clinical criteria for septic shock: for the third international consensus definitions for sepsis and septic shock (Sepsis-3). JAMA 2016; 315:775
4) Gotmaker R, Peake SL, Forbes A, et al.: Mortality is greater in septic patients with hyperlactatemia than with refractory hypotension. Shock 2017; 48:294–300; 
5) April MD, Donaldson C, Tannenbaum LI, et al.: Emergency department septic shock patient mortality with refractory hypotension vs hyperlactatemia: A retrospective cohort study. Am J Emerg Med 2017; 35:1474–1479
6) Ait-Oufella H, Lemoinne S, Boelle PY, et al.: Mottling score predicts survival in septic shock. Intensive Care Med 2011; 37:801–807
7) Dumas G, Lavillegrand J-R, Joffre J, et al.: Mottling score is a strong predictor of 14-day mortality in septic patients whatever vasopressor doses and other tissue perfusion parameters. Crit Care 2019; 23:211
8) Md Ralib A, Pickering JW, Shaw GM, et al.: The urine output definition of acute kidney injury is too liberal. Crit Care 2013; 17:R112
9) Bianchi NA, Altarelli M, Monard C, et al.: Identification of an optimal threshold to define oliguria in critically ill patients: an observational study. Crit Care 2023; 27:207
10) Ait-Oufella H, Bige N, Boelle PY, et al.: Capillary refill time exploration during septic shock. Intensive Care Med 2014; 40:958–964
11) Asfar P, Meziani F, Hamel J-F, et al.: High versus low blood-pressure target in patients with septic shock. N Engl J Med 2014; 370:1583–1593
12) Owens P, O’Brien E: Hypotension in patients with coronary disease: can profound hypotensive events cause myocardial ischaemic events? Heart 1999; 82:477–481

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Pressione arteriosa media e shock

4 giu 2023

Mario e Pippo hanno un'infezione che ha determinato anche ipotensione. Dopo una prima somministrazione di fluidi, si presentano così:

- Mario, 45 anni, senza malattie croniche. Pressione arteriosa: 78/48 mmHg (pressione arteriosa media 58 mmHg). 

- Pippo, 75 anni, in terapia per ipertensione arteriosa. Pressione arteriosa: 95/50 mmHg (pressione arteriosa media 67 mmHg).

Alla luce di queste pochissime informazioni, proviamo comunque a farci due domande:

1) Questi dati sono sufficienti per decidere se intervenire per aumentare, ed eventualmente di quanto, la pressione arteriosa di Mario e/o Pippo?

2) Ritieni ci siano altri dati da valutare per poter rispondere alla domanda? 

Prima di tentare di rispondere a queste domande, consideriamo sia i dati degli studi clinici sulla pressione arteriosa nello shock settico che le basi fisiologiche della pressione arteriosa.

Cosa dicono gli studi clinici.

L’ultima edizione delle linee guida della Surviving Sepsis Campaign raccomanda che, negli adulti con shock settico, la pressione arteriosa media sia inizialmente mirata a raggiungere 65 mmHg (rispetto a target più elevati) (1).

Gli studi clinici nei pazienti con shock settico però, se valutati nel loro complesso, non supportano l’idea che ci sia un valore soglia di pressione arteriosa media da raggiungere.

Preliminarmente dobbiamo considerare che non è stato studiato l’impatto clinico  e fisiologico di valori di pressione arteriosa media inferiore a 60-65 mmHg: pertanto il valore di 65 mmHg deve essere considerato come il minore tra quelli studiati. 

Quando i 65 mmHg di pressione arteriosa media sono confrontati con valori più elevati (per lo più tra 75 e 85 mmHg), gli studi raggiungono conclusioni contrastanti: in alcuni casi non vi sono differenze, in altri casi probabilmente può essere più favorevole mantenersi su valori più bassi, in altri ancora sembra più favorevole avere più elevati livelli di pressione (2-8).

Se consideriamo nel loro complesso questi risultati discordanti, si dovrebbe far strada l’idea che probabilmente la pressione arteriosa media sia un obiettivo poco importante nel supporto cardiovascolare dei pazienti con sepsi. 

La pressione arteriosa, note fisiologiche.

La pressione arteriosa durante il ciclo cardiaco.

Una premessa: nel nostro ragionamento ignoreremo completamente la riflessione retrograda dell’onda pressoria, un aspetto molto importante nella formazione dell'onda di pressione arteriosa ma la cui omissione non modifica il senso del ragionamento che faremo.

La pressione arteriosa è il risultato dello stiramento delle fibre elastiche della parete arteriosa da parte del volume di sangue in essa contenuto. 

Il volume di sangue contenuto in un’arteria in un determinato istante è dato dall’equilibrio dinamico tra due flussi, uno in arrivo dal cuore ed uno in uscita verso il circolo più periferico

In sistole questi due flussi sono contemporaneamente presenti, cioè nello stesso istante arriva sangue dal cuore ed esce sangue verso il circolo periferico. Nella fase iniziale della sistole (area rossa nella fig. 1), la pressione aumenta perché il volume di sangue nell’arteria aumenta, cioè il flusso in arrivo è maggiore del flusso in uscita

Figura 1
Questo aumento di volume viene accolto dalla espansione sistolica dell’arteria che raggiunge il suo massimo al picco sistolico (figura 2).

Figura 2
Con il proseguire della sistole oltre il picco sistolico, il calo di pressione significa che il volume ematico dell’arteria diminuisce: continua il flusso in arrivo, ma ora il flusso in uscita lo supera (area grigia nella figura 1).

L’incisura dicrota segna il passaggio dalla sistole alla diastole (area lilla nella figura 1): la chiusura della valvola aortica fa cessare il flusso in arrivo all’arteria e rimane solo il flusso in uscita. La pressione arteriosa in diastole pertanto esprime l’interazione tra vaso arterioso e circolo periferico, a differenza della pressione arteriosa in sistole che include anche l’accoppiamento con la pompa cardiaca.

Il flusso diastolico dall’arteria verso il circolo periferico è spinto dal ritorno elastico della parete arteriosa contro il volume di sangue in essa contenuto (figura 3) ed ostacolato dalla pressione a valle

Figura 3

Cerchiamo ora di capire il significato di questa pressione a valle, elemento fondamentale anche per la corretta interpretazione della pressione arteriosa media. 

Di solito la diastole dura meno di 1 secondo ed è interrotta dalla nuova sistole. Ipotizziamo di poter prolungare la diastole per parecchi secondi in modo tale da completare il deflusso del sangue arterioso verso il circolo capillare ed arrivare ad azzerare il flusso arterioso. A quanto pensiamo possa scendere la pressione arteriosa durante questa ipotetica maxi-diastole? E’ stato dimostrato teoricamente e sperimentalmente che la riduzione della pressione arteriosa diastolica si ferma a valori ben superiori a quelli delle pressioni venose, dell’ordine dei 25-50 mmHg (9-11). Si ritiene che questa sia una pressione critica di chiusura, al di sotto della quale il flusso cessa e di conseguenza la perfusione tissutale si arresta.

A questo punto appare chiaro che tutta la quota di pressione arteriosa diastolica al di sotto della pressione critica di chiusura non dovrebbe essere considerata come pressione di perfusione.

Inoltre la pressione arteriosa diastolica è dipendente dalle resistenze vascolari periferiche, principalmente localizzate a livello arteriolare precapillare. Ne consegue che la pressione arteriosa diastolica può ridursi lentamente (e quindi rimanere elevata) perché c’è vasocostrizione arteriolare che ostacola il deflusso (e la perfusione tissutale) oppure può ridursi rapidamente (e quindi diventare subito bassa) se c’è vasodilatazione, con flusso e perfusione verso i tessuti facilitati.

E' quindi evidente che solo una parte della pressione arteriosa diastolica (quella al di sopra della pressione critica di chiusura) genera flusso, e che questa parte di pressione arteriosa diastolica può addirittura avere una relazione inversa con il flusso.

Diversamente dalla pressione diastolica, la pressione pulsatoria (cioè l’incremento sistolico della pressione) è direttamente correlata alla gittata sistolica e quindi alla portata cardiaca ed alla perfusione. Ovviamente l’entità della correlazione tra pressione pulsatoria e stroke volume dipende dalla compliance arteriosa, generando ad esempio lo stesso stroke volume una pressione pulsatoria che aumenta parallelamente con l’età. 

La pressione arteriosa media

Nella figura 4 vediamo riprodotta una curva di pressione arteriosa “normale”, con pressione sistolica (PAS) 122 mmHg, diastolica (PAD) 80 mmHg. La pressione pulsatoria (PP) è 42 mmHg. 

Figura 4
La pressione arteriosa media è la media della pressione arteriosa durante un intero ciclo cardiaco (sistole e diastole), ed è misurata dividendo l’area sotto curva di pressione durante un ciclo cardiaco per la durata del ciclo (area rossa che equivale all’area grigia della figura 4). Quando la rilevazione della pressione è molto frequente (ad esempio durante il monitoraggio invasivo che ha almeno 100 campionamenti al secondo), la pressione arteriosa media è molto ben approssimata dalla media aritmetica di tutti i valori pressori rilevati durante il ciclo cardiaco.

La pressione arteriosa media (PAM) può anche essere stimata (approssimativamente) utilizzando l’equazione

$$ PAM = PAD + \cfrac{1}{3} \cdot PP ~~~(eq.~1) $$ 

Nell’esempio in figura 1 si calcola una PAM di 94 mmHg.

Si può ben vedere sia dalla valutazione grafica nella figura 4 che dalla equazione 1, che la pressione arteriosa media è principalmente determinata dalla pressione arteriosa diastolica e molto meno da quella pulsatoria. Nel nostro esempio, dei 94 mmHg di pressione media, ben l'85% è dovuto alla diastolica (80 mmHg) e solo il 15% alla pressione di pulsazione (gli altri 14 mmHg).

La pressione arteriosa media mette insieme pressione diastolica e pulsatoria, che però dal punto di vista fisiopatologico ed emodinamico hanno significati molto diversi ed in essa è preponderante il peso della diastolica, la parte di pressione arteriosa meno correlata con la perfusione tissutale.

Anche alla luce di queste considerazioni non stupisce che gli studi clinici non abbiano portato a trovare un chiaro obiettivo di pressione arteriosa media nel trattamento dei pazienti con shock.

Torniamo a Mario e Pippo...

Ora possiamo rispondere alla prima domanda delle due domande iniziali, quella che chiede se e quanto dobbiamo modificare la pressione arteriosa a Mario (quarantacinquenne sano con 58 mmHg di pressione arteriosa media) e/o a Pippo (settantacinquenne iperteso con 67 mmHg di pressione arteriosa media). La risposta è sconfortantemente semplice: non abbiamo dati sufficienti per prendere una decisione. La pressione arteriosa è un dato semplice da rilevare ma di poca utilità clinica nel paziente con shock. La pressione arteriosa sia di Mario che di Pippo potrebbe essere sufficiente alla perfusione di organi e tessuti come potrebbe essere insufficiente.

Dobbiamo necessariamente avere altre informazioni per decidere se e cosa fare. Questa sarebbe la seconda domanda a cui rispondere, ma questo post è già diventato molto corposo: vale la pena fare una pausa e continuare nel prossimo.

Conclusioni

Per ora riassumiamo i concetti principali del post di oggi:

- Il raggiungimento di una pressione arteriosa media di 65 mmHg è indicato come obiettivo di trattamento nel paziente con ipotensione secondaria ad infezione ma la letteratura porta a conclusioni contrastanti;

- La pressione pulsatoria è funzione anche dello stroke volume, che è la base della portata cardiaca ed è quindi un elemento importante per la perfusione periferica;

- La pressione arteriosa diastolica è dipendente dalle resistenze vascolari periferiche e dalla pressione critica di chiusura, elementi che limitano il flusso verso i tessuti;

- Nel calcolo della pressione arteriosa media è preponderante il peso della pressione diastolica rispetto a quello della pressione pulsatoria. Poiché la perfusione (portata cardiaca) è funzione della pressione pulsatoria e non della diastolica, è ragionevole pensare che la pressione arteriosa media sia un indice di perfusione poco affidabile. Alla luce di queste considerazioni si comprende bene l'inconcludenza degli studi clinici alla ricerca della “giusta” pressione arteriosa media.

- Per valutare l’adeguatezza dell'emodinamica nei pazienti con shock è indispensabile considerare sempre altri indici di perfusione accanto alla misurazione della pressione arteriosa.

Come sempre, un caro saluto ed un sorriso a tutti gli amici di ventilab.


Bibliografia.

1) Evans L, Rhodes A, Alhazzani W, et al.: Surviving sepsis campaign: international guidelines for management of sepsis and septic shock 2021. Intensive Care Med 2021; 47:1181–1247

2) LeDoux D, Astiz ME, Carpati CM, et al.: Effects of perfusion pressure on tissue perfusion in septic shock: Crit Care Med 2000; 28:2729–2732

3) Bourgoin A, Leone M, Delmas A, et al.: Increasing mean arterial pressure in patients with septic shock: Effects on oxygen variables and renal function: Crit Care Med 2005; 33:780–786

4) Thooft A, Favory R, Salgado D, et al.: Effects of changes in arterial pressure on organ perfusion during septic shock. Crit Care 2011; 15:R222

5) Asfar P, Meziani F, Hamel J-F, et al.: High versus Low Blood-Pressure Target in Patients with Septic Shock. N Eng J Med 2014; 370:1583–1593

6) Lamontagne F, Meade MO, Hébert PC, et al.: Higher versus lower blood pressure targets for vasopressor therapy in shock: a multicentre pilot randomized controlled trial. Intensive Care Medicine 2016; 42:542–550

7) Lamontagne F, Richards-Belle A, Thomas K, et al.: Effect of reduced exposure to vasopressors on 90-day mortality in older critically ill patients with vasodilatory hypotension: a randomized clinical trial. JAMA 2020; 323:938

8) Maheshwari K, Nathanson BH, Munson SH, et al.: The relationship between ICU hypotension and in-hospital mortality and morbidity in septic patients. Intensive Care Med 2018; 44:857–867

9) Permutt S, Riley RL: Hemodynamics of collapsible vessels with tone: the vascular waterfall. J Appl Physiol 1963; 18:924–932

10) Kottenberg-Assenmacher E, Aleksic I, Eckholt M, et al.: Critical closing pressure as the arterial downstream pressure with the heart beating and during circulatory arrest: Anesthesiology 2009; 110:370–379

11) Maas JJ, de Wilde RB, Aarts LP, et al.: Determination of vascular waterfall phenomenon by bedside measurement of mean systemic filling pressure and critical closing pressure in the intensive care unit: Anesth Analg 2012; 114:803–810

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Emotrasfusione: emoglobina o emogasanalisi?

30 set 2022
Quale è la concentrazione di emoglobina a cui è opportuno fare una trasfusione di emazie?

C’è un largo consenso, ripreso anche dalle linee guida (1), nell’identificare come soglia di trasfusione un valore di emoglobina di 7 g/dL. Numerosi studi hanno infatti dimostrato che la trasfusione di emazie per concentrazioni di emoglobina più elevate rispetto a questa soglia non dà vantaggi in termini di mortalità a breve o lungo termine, durata della degenza o disfunzioni d'organo (2-6).

La risposta alla domanda iniziale sembra quindi chiara ... ma se riflettiamo bene questa risposta ci dice come risparmiare emoderivatinon quando la trasfusione di emazie apporta un beneficio al paziente.

Come sempre la qualità della risposta dipende dalla qualità della domanda: visto l'esito della risposta, probabilmente non è una buona domanda chiedersi quale sia il valore giusto di concentrazione dell’emoglobina per decidere una trasfusione.

La fisiologia ci aiuterà a capire quale possa essere la “domanda giusta” per trasfondere emazie con un beneficio clinico. Successivamente cercheremo la risposta a questa domanda nei dati che possiamo trovare nella ricerca clinica.

Guida fisiologica alla "domanda giusta".

Trasporto e consumo di ossigeno.

Fisiologicamente un soggetto a riposo consuma circa 250 ml di O2 ogni minuto ($\dot{V}O_2$). Il $\dot{V}O_2$ è garantito dal trasporto di ossigeno ai tessuti (oxygen delivery, DO2), un magnifico lavoro di squadra degli apparati respiratorio e cardiocircolatorio: il primo ”carica” il sangue di ossigeno, il secondo lo fa arrivare ai tessuti. Il DO2 è il prodotto del contenuto di ossigeno del sangue arterioso (CaO2) e della portata cardiaca (cardiac output, CO): 
$$DO_2= CaO_2 \cdot CO~~~(eq.~1)$$ 
Per capire il ruolo dell'emoglobina in questo processo, calcoliamo ora quanto dovrebbe essere la portata cardiaca per garantire un trasporto di ossigeno esattamente uguale al consumo di ossigeno fisiologico, cioè 250 ml di O2/min, se non vi fosse l’emoglobina. E’ una condizione ovviamente paradossale, ma ci aiuta a ragionare in maniera quantitativa sui fenomeni su cui vogliamo riflettere. La quantità di ossigeno in soluzione nel sangue arterioso è direttamente proporzionale alla sua pressione parziale (PaO2). Il coefficiente di solubilità dell’ossigeno a 37°C è 0.0031 ml O2⋅dL-1∙ mmHg-1, cioè ogni mmHg di PaOincrementa il CaOdi 0.0031 ml in 100 ml di sangue. Con una normale funzione polmonare la PaOè circa 95 mmHg. Il CaO2 in assenza di emoglobina sarebbe (arrotondato al primo decimale): 
 $$ CaO_2 = 95~mmHg \cdot 0.0031 \frac{ml~O_2}{mmHg \cdot 100~ml} = \\ = 0.3~ml~O_2/100~ml~~~(eq.~2)$$
In assenza di emoglobina questo sarebbe il contenuto di O2 del sangue arterioso con normale ossigenazione: meno di 1/3 di ml di O2, davvero pochissimo. 
Dal CaO2 calcoliamo la portata cardiaca necessaria per trasportare esattamente 250 ml di O2 ogni minuto. Possiamo riscrivere l’equazione 1 come segue:
$$ CO = \frac{DO_2}{CaO_2} ~~~(eq.~3)$$
Se si vuole raggiungere un DO2 di 250 ml di O2/min, esattamente uguale al $\dot{V}O_2$, l’equazione diventa:
$$CO = \cfrac{250 \cfrac{ml~O_2}{min}}{0.3 \cfrac{ml~O2}{100~ ml}} = \\ = 833 \cdot 100~ml/min = \\ =83300~ ml/min = 83.3~l/min~~~(eq.~4)$$
In assenza di emoglobina servirebbe una portata cardiaca di almeno 83 l/min per garantire l’apporto fisiologico di 250 ml/min di O2 ai tessuti. In altre parole, in assenza di emoglobina un elevatissimo CO dovrebbe sopperire al bassissimo CaO2.

Per fortuna abbiamo l’emoglobina, che aumenta enormemente il CaO2 legando a sè moltissimo ossigeno, il quale si va ad aggiungere all'ossigeno disciolto nel sangue. Ogni grammo di emoglobina può legare un massimo di 1.39 ml di O2 se tutti i siti di legame per l’O2 sono occupati da una molecola di ossigeno. Questa è la condizione che conosciamo come saturazione 100%. Tanto più elevata è la PaO2, tanto maggiore è la saturazione dell’emoglobina, con una relazione espressa dalla ben nota curva di dissociazione dell’emoglobina.


Una PaO2 di 95 mmHg fisiologicamente si associa ad una saturazione del 97%, che significa che il 97% dei siti di legame dell’emoglobina per l’ossigeno sono legati ad una molecola di O2.
In questa condizione il CaO2 con una ipotetica concentrazione di emoglobina di 10 g/dL diventerebbe: 
$$CaO_2 = 95~mmHg \cdot 0.0031~ml~O_2/mmHg +\\ + 10~g/100~ml \cdot 1.39~ml~O_2/g \cdot SaO_2/100 = \\ = 0.3~ml~O_2 + 13.5~ml~O_2 = 13.8~ml~O_2~~~(eq.~5) $$ 
Grazie a questa quantità di emoglobina il CaO2 è aumentato di ben 46 volte (da 0.3 a 13.8 ml O2/100 ml). Ora la portata cardiaca necessaria per assicurare il trasporto dei 250 ml di O2/min si è ridotta di 46 volte: $$CO = \cfrac{250 \cfrac{ml~O_2}{min}}{13.8 \cfrac{ml~O_2}{100~ml}} = \\ = 18.12 \cdot 100~ml/min = 1812~ml/min = \\ = 1.81~l/min~~~(eq.~6)$$ 

Estrazione di ossigeno.

La portata cardiaca fisiologica è più del triplo di questo valore (circa 5.6 l/min), questo consente all’organismo di trasportare oltre il triplo dell’ossigeno necessario alle necessità del metabolismo cellulare. Riprendendo l'equazione 1: 
 $$DO2 = CO \cdot CaO_2 = 5.6~l/min \cdot 13.8~ml~O_2/100~ml = \\ = 5.6~l/min \cdot 138~ml~O_2/l = 773~ml~O_2/min~~~(eq.~7)$$ L'estrazione di ossigeno (O2 extraction ratio, O2ER) esprime la proporzione  dell'ossigeno trasportato che viene utilizzato dal metabolismo tissutale, cioè il rapporto tra $\dot{V}O_2$ e DO2: $$O_2ER = \dot{V}O_2/DO_2 = \cfrac{250~ml/min}{773~ml/min} = 0.32~~~(eq.~8)$$ 
Il O2ER può essere assimilato alla proporzione tra le nostre spese ed il nostro reddito. Se questo indicatore aumenta, ci avviciniamo alla condizione in cui avremo bisogno di fare debiti; se invece diminuisce ci dice che possiamo o risparmiare o aumentare le spese. Parimenti il O2ER che aumenta ci avvicina alla condizione del debito di ossigeno, che si ritiene si verifichi quando supera il valore di 0.5-0.6 (7, 8), mentre se si riduce al di sotto del fisiologico valore di 0.25-0.3 indica una disponibilità di ossigeno superiore al normale. 
Ipotizziamo ora che l’emoglobina scenda 7 g/dL, a parità di CO (5.6 l/min) e $\dot{V}O_2$ (250 mlO2/min). Ripetendo i calcoli precedenti, la O2ER aumenta a 0.46, un dato decisamente elevato, che si avvicina alla soglia del debito di ossigeno. In questo caso l’anemia produce una significativa riduzione del trasporto di ossigeno.

Ma se la riduzione dell’emoglobina a 7 g/dL fosse associata al contemporaneo aumento del CO da 5.6 a 6.7 l/min e riduzione del $\dot{V}O_2$ a 210 ml/min (dati ragionevoli per un paziente in Terapia Intensiva), la O2ER sarebbe 0.32, invariata rispetto alla condizione con 10 g/dL di emoglobina. In questo caso l’anemia non avrebbe prodotto una riduzione del trasporto di ossigeno.

Da questi due esempi possiamo capire l'importanza del O2ER nel contribuire in maniera fondamentale alla decisione di trasfondere o meno emazie. Nel primo caso potremmo trasfondere il paziente per aumentare il DO2 ed allontanarlo dalla soglia del debito di ossigeno, nel secondo caso invece la trasfusione apparirebbe inutile da questo punto di vista.

Vediamo infine un ultimo esempio in cui la valutazione del O2ER ci può suggerire di trasfondere emazie anche con un’emoglobina di 10 g/dL. Se un paziente avesse un aumento del $\dot{V}O_2$ a 300 ml/min ed una portata cardiaca ridotta a 4.5 l/min 
(anche questi dati ragionevoli per un paziente in Terapia Intensiva), la O2ER sarebbe 0.48 nonostante l’emoglobina a 10 g/dL: a questo valore di O2ER potrebbe avere un razionale la trasfusione di emazie (soprattutto se non fosse possibile ridurre il $\dot{V}O_2$ o aumentare il CO).

La risposta alla "domanda giusta": come misurare il O2ER con l'emogasanalisi.

La strada più lunga.

Finora abbiamo ragionato partendo dalla conoscenza dei valori di CO e $\dot{V}O_2$, dati spesso non sono disponibili nella pratica clinica. Per fortuna al letto del paziente possiamo calcolare la O2ER in maniera semplice, senza necessariamente avere a disposizione CO e $\dot{V}O_2$.

Il $\dot{V}O_2$ è uguale alla differenza tra l’ossigeno che viene trasportato dal sangue arterioso ai tessuti (cioè il buon DO2) e l’ossigeno che torna al cuore destro dopo aver ceduto ossigeno ai tessuti. Quest’ultimo, in analogia al DO2, è calcolabile come prodotto tra la portata cardiaca ed il contenuto venoso di O2 (CvO2). Per misurare il CvO2 si dovrebbe analizzare il venoso misto ottenuto dall’arteria polmonare, ma di fatto più spesso viene utilizzato un campione di sangue ottenuto da una vena centrale, più frequentemente disponibile:$$\dot{V}O_2 = CaO_2 \cdot CO - CvO_2 \cdot CO = \\ = (CaO_2 - CvO_2) \cdot CO ~~~(eq.~9)$$ La differenza CaO- CvO2 è conosciuta anche come differenza artero-venosa di O2 (Ca-vO2). Utilizzando il $\dot{V}O_2$ ricavato dall'equazione 9, abbiamo gli strumenti per capire come calcolare O2ER dai dati dell’emogasanalisi arteriosa e venosa: $$O_2ER = \dot{V}O_2/DO_2 = \\ = \cfrac{(CaO_2 - CvO_2) \cdot CO}{CaO_2 \cdot CO} = \\ = \cfrac{CaO_2 - CvO_2}{CaO2}~~~(eq.~10)$$ Ipotizziamo di avere un paziente con 10 g/dL di emoglobina, PaO2 95 mmHg, SaO2 97%, SvO2 67% e PvO2 di 36 mmHg e calcoliamo il suo O2ER: $$O_2ER= (CaO_2 - CvO_2)/CaO_2 = \\ = \cfrac{(Hgb \cdot 1,39 \cdot SaO_2 + 0.0031 \cdot PaO_2) - (Hgb \cdot 1,39 \cdot SvO_2 + 0.0031 \cdot PvO_2)}{Hgb \cdot 1,39 \cdot SaO_2 + 0.0031 \cdot PaO_2} = \\ = (13.8 - 9.4)/13.8 = 0.32~~~(eq.~11)$$ 
Lo stesso risultato dell’equazione 8: niente di sorprendente perché stiamo analizzando lo stesso paziente utilizzando le sue emogasanalisi anziché il suo DO2 e  $\dot{V}O_2$.

La strada più breve.

Dal momento che la quota di O2 disciolto nel sangue è trascurabile, possiamo efficacemente semplificare l’equazione 11 ed ottenere un O2ER in maniera molto facile:
$$O_2ER = \cfrac{(Hgb \cdot 1,39 \cdot SaO_2) - (Hgb \cdot 1,39 \cdot SvO_2)}{Hgb \cdot 1,39 \cdot SaO_2} = \\ = \cfrac{(SaO_2 -SvO_2) \cdot 1,39 \cdot Hgb}{Hgb \cdot 1,39 \cdot SaO_2} = \\ = \cfrac{SaO_2 - SvO_2}{SaO_2} = 0.32~~~(eq.~12)$$ 
Semplificando ulteriormente, l’equazione 12 mostra che, se la SaO2 è 100%, la SvO2  è inversamente proporzionale al O2ER. Infatti:
$$O_2ER = \cfrac{SaO_2 - SvO_2}{SaO_2} = \\ = \cfrac{SaO_2}{SaO_2} - \cfrac{SvO_2}{SaO_2} = \\ = \cfrac{100}{100} - \cfrac{SvO_2}{100} = \\ = 1 - SvO_2/100~~~(eq.~13)$$ 
Con SaO2 di 100%, una ridotta SvO2 significa una elevata estrazione di ossigeno. Se la SaO2 non è proprio 100% ma è molto vicina a questo valore ci si sbaglia di poco. Tanto più la SaO2 diminuisce, tanto meno la SvO2 è un buon surrogato del O2ER.

Gli studi clinici.

La fisiologia ci fa capire che la trasfusione di emazie dovrebbe avere l'obiettivo di adeguare la DO2 al $\dot{V}O_2$, ed il O2ER è l'indicatore più appropriato. La concentrazione dell’emoglobina, quella che solitamente si guarda per decidere se trasfondere emazie, dovrebbe essere invece un elemento secondario alla valutazione del O2ER.

Uno studio clinico fornisce una indiretta conferma a questo ragionamento fisiologico (9). Lo studio ha analizzato 177 pazienti in Terapia Intensiva con emoglobina tra 7 e 10 g/dL. Questi pazienti anemici potevano essere trasfusi o non trasfusi a giudizio del medico curante. In tutti i pazienti, indipendentemente dalla decisione di trasfondere emazie, furono calcolati sia il Ca-vO2 (la differenza artero-venosa di contenuto di ossigeno) sia il O2ER
Successivamente è stata classificata l'appropriatezza della scelta di trasfondere o di non trasfondere i pazienti sulla base del O2ER. I pazienti sono stati definiti attribuiti al gruppo con "appropriata strategia trasfusionale" se o è stata fatta una trasfusione in presenza di O2ER ≥ 30 o se non è stata fatta la trasfusione con O2ER < 30
Il gruppo con "inappropriata strategia trasfusionale" invece era costituito dai soggetti che o avevano ricevuto una trasfusione di emazie con O2ER < 30 o non erano stati trasfusi nonostante una O2ER ≥ 30
Il risultato è stato che una così definita "appropriata strategia trasfusionale" era indipendentemente associata ad una riduzione della mortalità a 90 giorni. L’analisi principale dello studio non era fatta sulla O2ER ma sulla Ca-vO2 (che è il numeratore della O2ER e quindi considerato un suo surrogato). Anche utilizzando la Ca-vO2 per definire la strategia trasfusionale appropriata (con un cut-off di 3.7 ml O2/100 ml), il risultato non cambiava: la "appropriata strategia trasfusionale" si confermava indipendentemente associata ad una minor mortalità a 90 giorni. 
Inoltre la "appropriata strategia trasfusionale" si associava anche una più rapida riduzione del SOFA score rispetto a quanto accadeva nei pazienti con "inappropriata strategia trasfusionale".

Altre due studi osservazionali hanno rilevato che il O2ER si riduce dopo trasfusione nei pazienti con O2ER pre-trasfusione > 30 (nessuna variazione nei pazienti con O2ER pre-trasfusione ≤ 30)  (10) e che la SvO2 aumenta dopo trasfusione nei pazienti con SvO2 pre-trasfusione < 70% (nessuna variazione nei pazienti con SvO2 pre-trasfusione ≥ 70) (11).

Conclusioni.

Concludiamo questo lungo post sintetizzando in pochi punti quello che potrebbe essere un approccio ragionevole alla trasfusione di emazie:
  • l'emotrasfusione dovrebbe essere presa in considerazione in tutti i pazienti anemici. La soglia dell'anemia è arbitraria ma possiamo porla orientativamente a 10 g/dL di emoglobina;
  • nei pazienti anemici si dovrebbe valutare il O2ER, calcolato facilmente come (SaO2-SvO2)/SaO2;
  • un O2ER < 0.3 dovrebbe avvalorare la decisione di non trasfondere, anche se l'emoglobina fosse un po' inferiore a 7 g/dL;
  • un O2ER > 0.3:
    • supporterebbe l'indicazione alla trasfusione come primo intervento terapeutico in caso di anemia grave (arbitrariamente definita con un valore di emoglobina inferiore a 7 g/dL);
    • nei pazienti con anemia moderata (emoglobina superiore a 7 g/dL) la trasfusione di emazie sarebbe comunque indicata dopo una ragionevole ottimizzazione di portata cardiaca e consumo di ossigeno.
Anche se la soglia del O2ER sembra più appropriata di quella dell'emoglobina, la decisione di trasfondere emazie non dovrebbe essere limitata ad essa ma dovrebbe tenere conto di tutti i dati clinici, laboratoristici e strumentali a disposizione, come sempre dovrebbe essere nella buona pratica medica. Speriamo che la mania dei numeri magici abbia vita breve (anche se temo il contrario...).

Grazie per l'attenzione e, come sempre, un sorriso a tutti gli amici di ventilab


Bibliografia

1.     Mueller MM, Van Remoortel H, Meybohm P, et al.: Patient Blood Management: Recommendations From the 2018 Frankfurt Consensus Conference. JAMA 2019; 321:983–997
2.     Carson JL, Stanworth SJ, Dennis JA, et al.: Transfusion thresholds for guiding red blood cell transfusion. Cochrane Database Syst Rev 2021; 12:CD002042
3.     Zhang Y, Xu Z, Huang Y, et al.: Restrictive vs. liberal red blood cell transfusion strategy in patients with acute myocardial infarction and anemia: a systematic review and meta-analysis. Front Cardiovasc Med 2021; 8:736163
4.     Yao R, Ren C, Zhang Z, et al.: Is haemoglobin below 7.0 g/dL an optimal trigger for allogenic red blood cell transfusion in patients admitted to intensive care units? A meta-analysis and systematic review. BMJ Open 2020; 10:e030854
5.     Kranenburg FJ, Arbous SM, Caram‐Deelder C, et al.: Predicting organ functioning with and without blood transfusion in critically ill patients with anemia. Transfusion (Paris) 2022; 62:1527–1536
6.     Bosch NA, Law AC, Bor J, et al.: Red Blood Cell Transfusion at a Hemoglobin Threshold of 7 g/dl in Critically Ill Patients: A Regression Discontinuity Study. Ann Am Thorac Soc 2022; 19:8
7.     Leach RM: The pulmonary physician in critical care 2: Oxygen delivery and consumption in the critically ill. Thorax 2002; 57:170–177
8.     Walley KR: Use of central venous oxygen saturation to guide therapy. Am J Respir Crit Care Med 2011; 184:514–520
9.     Fogagnolo A, Taccone FS, Vincent JL, et al.: Using arterial-venous oxygen difference to guide red blood cell transfusion strategy. Crit Care 2020; 24:160
10.     Orlov D, O’Farrell R, McCluskey SA, et al.: The clinical utility of an index of global oxygenation for guiding red blood cell transfusion in cardiac surgery. Transfusion (Paris) 2009; 49:682–688
11.     Themelin N, Biston P, Massart J, et al.: Effects of red blood cell transfusion on global oxygenation in anemic critically ill patients. Transfusion (Paris) 2021; 61:1071–1079

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