Visualizzazione post con etichetta ARDS. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta ARDS. Mostra tutti i post

ARDS e miorisoluzione: alla ricerca della luce

31 gen 2021

 


Igor e Mirella sono due pazienti con sedazione e paralisi dopo da mezza giornata di intubazione per ARDS grave da COVID-19. Entrambi hanno una grave disfunzione polmonare (PaO2/FIO2 attorno a 100 mmHg) e bassa compliance dell’apparato respiratorio (inferiore a 20 ml/cmH2O). Che facciamo, sospendiamo la paralisi (ed eventualmente la sedazione) oppure è meglio mantenere per qualche giorno la paralisi muscolare?

Cerchiamo di prendere la decisione migliore sia tenendo conto della letteratura scientifica che analizzando meccanica respiratoria ed interazione paziente ventilatore.

Alla fine del post vediamo se possiamo capire e condividere la risposta ed il suo razionale.

I due trial randomizzati, controllati, multicentrici sulla paralisi nella ARDS.

Il 2010 è l’anno di svolta nell'uso dei miorilassanti (o bloccanti neuromuscolari, nomi appropriati della classe di farmaci conosciuti come “curari”) nei pazienti con ARDS. Un momento che è stato anticipato nel post del 10/03/2010, uno dei primi brevi post di ventilab, (che ha compiuto 11 anni proprio questo mese). Infatti nel settembre del 2010 veniva pubblicato sul New England Journal of Medicine il trial controllato, randomizzato, multicentrico ACURASYS che riportava una riduzione di mortalità nei pazienti con ARDS e PaO2/FIO2 < 150 mmHg sottoposti a paralisi per 48 ore rispetto a quelli che non erano stati paralizzati (1).

Abbiamo quindi la risposta definitiva al problema? Per qualche anno è forse sembrato di sì, ma nove anni dopo, nel maggio del 2019, il New England Journal of Medicine pubblicò il trial controllato, randomizzato, multicentrico ROSE che ripropone il confronto tra pazienti con ARDS (e PaO2/FIO2 < 150 mmHg) paralizzati e non paralizzati per 48 ore e non trova alcuna differenza di mortalità (2).

L’analisi dei due trial e delle loro differenze sarebbe interessantissima ma richiederebbe molto tempo, ci limiteremo ad una considerazione preliminare ma sostanziale per arrivare pragmaticamente alla risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio del post.

Innanzitutto, entrambi gli studi sono d’accordo su una cosa: curarizzare questi pazienti per un paio di giorni non aumenta la mortalità.

Ma come spiegare il risultato comunque differente? La paralisi riduce o non riduce la mortalità?

Lo studio ROSE ha una grave limitazione che, prima di ogni altra considerazione, pregiudica il suo valore nella pratica clinica: molto probabilmente non ha arruolato pazienti rappresentativi di tutti i pazienti con ARDS, cioè è limitato da un bias di selezione. Cerchiamo di capire in cosa consiste questo problema.

Lo studio ROSE ha arruolato pazienti dal 2016 al 2018, cioè 6-8 anni dopo la pubblicazione del ACURASYS, quando la paralisi muscolare era diventata pratica ampiamente utilizzata nella ARDS grave (nel 2014 in circa il 40% dei pazienti (3)).

Ipotizza che, a questo stato delle conoscenze, un medico venga invitato a partecipare ad uno studio che vuole confrontare l’impatto della paralisi nei pazienti con ARDS grave. Immagina che questo medico abbia intubato da poco un paziente con ARDS grave: secondo te, se la sentirebbe di sospendere la paralisi, la cui efficacia è documentata (in quel momento), solo per farlo partecipare alle studio? Tu lo faresti? Forse faresti un tentativo di sospensione, verificheresti se questo paziente anche così mantiene una appropriata ventilazione meccanica e solo a questo punto lo candideresti all’arruolamento nello studio. Viceversa riprenderesti la curarizzazione e lo escluderesti dall’arruolamento.

E qui sta il problema: lo studio ROSE ha escluso dall’arruolamento i pazienti che erano paralizzati al momento dello screening per l’arruolamento nello studio. Se si è agito eticamente, viene da pensare che sono stati arruolati e randomizzati solo i pazienti in cui la paralisi può essere sospesa senza immediati evidenti problemi. 

La flow chart dello studio (figura 1) conferma che questa esclusione è stata quantitativamente rilevante, coinvolgendo 655 pazienti, più della metà (ben il 65%) di quelli arruolati.



 

Il campione dello studio non rappresenta quindi tutta la popolazione dei pazienti con ARDS, ma la sottopopolazione dei pazienti con ARDS che può essere serenamente trattata senza paralisi. Ed in questi conferma che la paralisi non dà vantaggi.

Quindi la cosiddetta Evidence-based Medicine ci porta a questa conclusione: possiamo sospendere la paralisi a Igor e Mirella se è possibile farlo.

Interazione paziente-ventilatore e meccanica respiratoria.

Dobbiamo necessariamente percorrere altre strade per decidere se sospendere la paralisi nei casi specifici di Igor e Mirella. Di seguito condivido con te questo possibile approccio basato su interazione paziente ventilatore e meccanica respiratoria. 

Innanzitutto bisogna adeguare la ventilazione meccanica per arrivare ad una buona interazione paziente-ventilatore: alla sospensione della paralisi l’impostazione del ventilatore meccanico non può più essere uguale a quella decisa a paziente curarizzato.

Una volta ottimizzata la ventilazione meccanica, una semplice analisi della meccanica respiratoria ci aiuterà a prendere una decisione con una logica.

Torniamo concretamente a Igor e Mirella. Entrambi durante la ventilazione controllata hanno impostato la PEEP e volume corrente per ottenere la minor driving pressure (se possibile comunque non superiore a 15-16 cmH2O) e mantenere lo stress index < 1.1 (vedi post del 28/02/2015). Con questo approccio si sono ottenute due ventilazioni ultraprotettive: con ventilazione volumetrica, Igor ha volume corrente 240 ml e PEEP 2 cmH2O, Mirella volume corrente 180 ml con PEEP 8 cmH2O. Entrambi hanno una bassissima compliance (16 e 11 ml/cmH2O). Il prezzo da pagare per questa impostazione è l’acidosi respiratoria, ma questo lo mettiamo in conto (vedi post del 03/08/2013). Ecco le immagini dello schermo del ventilatore, in alto la pressione delle vie aeree in giallo (in marroncino la pressione esofagea), in basso in verde il flusso (figura 2 Igor, figura 3 Mirella):


Figura 2




Figura 3

Ad entrambi decidiamo di sospendere la paralisi per valutare come proseguire il trattamento.

 

L’interazione paziente-ventilatore.




Figura 4

Vediamo cosa succede ad Igor. Lasciando inalterata l’impostazione del ventilatore, puoi vedere in figura 4 cosa succede appena la paralisi muscolare cessa il proprio effetto. Cosa sta succedendo?

Nella figura 5 rivedi la figura 4 con alcuni dettagli evidenziati. Quando la frequenza respiratoria impostata sul ventilatore è elevata (in questo caso 30/min), se riprende l’attività respiratoria spontanea del paziente, è facile che si verifichino delle asincronie.




Figura 5

Le frecce rosse indicano l’inizio delle insufflazioni del ventilatore (flusso e pressione delle vie aeree iniziano ad aumentare, le frecce blu indicano l’inizio dell’inspirazione del paziente, identificata dal calo della pressione esofagea (traccia marroncina). La regolarità e la ritmicità dell’intervallo tra inizio dell’insufflazione meccanica ed inizio dell’inspirazione del paziente fa pensare ad un reverse triggering (vedi post del 26/12/2014).

Le frecce verticali bianche sottolineano che l’attività inspiratoria del paziente abbassa la pressione delle vie aeree rispetto al valore che dovremmo attenderci (vedi post del 20/08/2017).

Si può risolvere l’asincronia riducendo la frequenza respiratoria del ventilatore ad un valore nettamente inferiore alla frequenza respiratoria spontanea del paziente, in modo da far triggerare tutti gli atti ventilatori al paziente. Lo abbiamo fatto abbassando la frequenza respiratoria di Igor a 10/min, ed il risultato è mostrato in figura 6:





Figura 6


L’inizio dell’inspirazione ora è ben sincrono tra paziente e ventilatore, come si evidenzia con le linee tratteggiate grigie: la riduzione della pressione delle vie aeree e della pressione esofagea e l’inizio del flusso inspiratorio sono ora sempre contemporanei.

Ma nonostante l’ottenimento della sincronia di inizio inspirazione, la ventilazione rimane chiaramente inappropriata: la pressione delle vie aeree non aumenta durante l’inspirazione (compresa tra linea tratteggiata grigia e linea tratteggiata rossa), ed è addirittura negativa nella prima parte dell’inspirazione. Avrai probabilmente notato il flusso inspiratorio sinusoidale nonostante l’impostazione di una ventilazione volumetrica con onda quadra di flusso; questo segno (sempre associato alla marcata depressurizzazione delle vie aeree) compare quando l’inadeguatezza del supporto inspiratorio è veramente critica.

Per cercare di risolvere l’insufficiente supporto inspiratorio, per prima cosa passiamo da una ventilazione volumetrica ad una pressometrica, che eroga un flusso più elevato all’inizio dell’inspirazione: nel caso di Igor è stata scelta inizialmente una ventilazione pressometrica a target di volume nel tentativo di mantenere il volume corrente protettivo.

Al tempo stesso è stata aumentata la PEEP (a 6 cmH2O), cosa suggerita quando si passa al respiro spontaneo nei pazienti con ARDS per ridurre il patient self-inflicted lung injury (P-SILI) (4). Nel nostro caso inoltre eviterà l’inopportuna negativizzazione della pressione delle vie aeree (e quindi ancor più di quella alveolare) durante il trigger.

Ecco il risultato nella figura 7:




Figura 7

Rispetto alla figura precedente, sicuramente notiamo che in inspirazione la pressione non si negativizza più, ma persiste, indistinguibile da prima, l’assenza di un supporto inspiratorio, cioè il mancato aumento della della pressione delle vie aeree durante il flusso inspiratorio. Questo è dovuto al fatto che il volume corrente generato dal paziente è perlomeno uguale (in questo caso era 244 ml) a quello impostato: di fatto Igor inspira da solo tutto il volume corrente, perché il suo cervello (i suoi centri respiratori) vogliono un volume corrente più alto di quello che noi abbiamo deciso ed i suoi muscoli respiratori sono abbastanza forti da farglielo raggiungere. A questo punto vediamo l’effetto su Igor di un aumento del volume corrente, compromesso necessario per mantenere sospesa la paralisi. Passiamo quindi alla ventilazione a pressione controllata, che, come tutte le ventilazioni in cui si imposta una pressione inspiratoria, garantisce un’assistenza inspiratoria costante indipendente dall’attività del paziente. Vediamo nella figura 8 (in cui la pressione esofagea è la linea sottile violetta) il risultato di una pressione controllata di 10 cmH2O, mantenendo costanti le altre impostazioni.


 

Figura 8

Il volume corrente è diventato 360 ml e la frequenza respiratoria 30/min.

Ora va tutto bene, i problemi finora notati sono scomparsi e possiamo dire di aver finalmente ottimizzato l’interazione-paziente ventilatore mentre Igor non è paralizzato. Tutti i passaggi dalla 4 alla figura 8 sono stati fatti in 8 minuti (come rilevato dagli orari che compaiono sugli screenshot del monitor del ventilatore): un processo innocuo per il paziente e di poco impegno quantitativo per il medico.

 

La valutazione della meccanica respiratoria.

Ma la domanda di partenza è: era meglio quando Igor era paralizzato o è meglio senza paralisi? Per ottimizzare la ventilazione senza paralisi abbiamo dovuto accettare l’aumento del volume corrente: Igor non accetta di ventilare con 240 ml di volume corrente, se si sospende la paralisi si “mette tranquillo” con almeno 360 ml di volume corrente. Ma questo nuovo volume corrente è sicuro per Igor? Ripetiamo la misurazione di pressione di plateau e driving pressure per aiutarci (figura 9).




Figura 9

Facciamo una occlusione di fine inspirazione e vediamo la pressione di plateau: 27 cmH2O, che con 6 di PEEP dà una driving pressure di 21 cmH2O, decisamente elevata per una ventilazione protettiva.

Un piccolo approfondimento con la valutazione della pressione transpolmonare. Se vogliamo complicarci la vita, consideriamo anche la pressione transpolmonare, cioè la pressione che effettivamente distende i polmoni, che calcoliamo come differenza tra pressione delle vie aeree e pressione esofagea. Come vediamo in figura 9, la pressione tranpolmonare a fine inspirazione (durante il plateau) è 20 cmH2O (27 cmH2O nelle vie aeree meno 7 cmH2O in esofago). A fine espirazione la pressione transpolmonare è 1 cmH2O (6 cmH2O nelle vie aeree meno 5 cmH2O in esofago, figura 9). Quindi la driving pressure transpolmonare, cioè la differenza di pressione transpolmonare tra fine inspirazione e fine espirazione, è 19 cmH2O. I valori di pressione transpolmonare devono essere considerati in maniera approssimativa, come sempre quando di mezzo c’è la pressione esofagea. Ma 19 cmH2O di driving pressure transpolmonare sono un valore comunque decisamente superiore ai 10-12 cmH2O ritenuti il limite superiore (5).

Nel caso di Igor la sospensione della paralisi ha imposto a sviluppare driving pressure troppo elevate per essere serenamente accettate. Nel suo caso è quindi preferibile proseguire ancora un po’ con la paralisi che consente di mantenere ancora per qualche giorno un volume corrente protettivo associato a driving pressure accettabili.

 

E cosa è successo a Mirella con la sospensione della paralisi? Per brevità evito tutti i passaggi che abbiamo fatto per ottimizzare l’interazione paziente-ventilatore e presento nella figura 10 il risultato finale ottenuto con una ventilazione pressometrica a target di volume con 240 ml di volume corrente (siamo stati costretti anche con lei ad accettare un incremento di volume corrente con la sospensione della paralisi) e mantenendo la PEEP a 8 cmH2O. La frequenza respiratoria è diventata 24/min. 



Figura 10

 

Per valutare se accettare questo nuovo volume corrente, facciamo la solita un’occlusione delle vie aeree a fine inspirazione e vediamo il risultato nella figura 11.



Figura 11

La driving pressure è 13 cmH2O, un valore ampiamente accettabile in un soggetto con ARDS. Questo significa che la sospensione della paralisi ha portato anche ad un miglioramento della compliance (da 11 a 18 ml/cmH2O), forse per il reclutamento di aree polmonari poco ventilate senza l’utilizzo dei muscoli respiratori. Facendo anche per lei i calcoli sulle pressioni tranpolmonari che abbiamo visto per Igor, vediamo che la pressione transpolmonare di fine inspirazione è 15 cmH2O, quella di fine espirazione è 4 cmH2O, e la differenza tra queste due (la driving pressure transpolmonare) è 11 cmH2O. Accogliamo positivamente anche la contenuta frequenza respiratoria con questa nuova impostazione.

Mirella ha superato la prova della sospensione della paralisi, e può iniziare subito la sospensione della paralisi e l’inizio della ripresa della ventilazione spontanea.

 

Abbiamo visto due pazienti apparentemente simili (bassa compliance ed ipossiemia grave) che possono ragionevolmente portare ad un diverso atteggiamento sulla paralisi muscolare. Il post è stato lungo e forse un po’ complesso, spero abbia almeno dato qualche spunto di riflessione.

Quello proposto è il mio approccio, consapevole che la verità assoluta non ce l’ha in tasca nessuno (e quindi nemmeno io). Ritengo solo che la verità non sia banale in medicina e che lo studio ed il ragionamento clinico quotidiano aiutino a muoversi con umiltà nella complessità della malattia.

 

Possiamo concludere fissando alcuni punti chiave del post:

  1. La paralisi può essere un trattamento ragionevole nelle prime giornate di ventilazione meccanica nei pazienti con ARDS grave;

  2. La sospensione della paralisi e la conseguente ripresa di attività respiratoria spontanea necessità un adeguamento dell’impostazione del ventilatore per ottimizzare l’interazione paziente-ventilatore;

  3. Spesso il volume corrente utilizzato in ventilazione protettiva deve essere incrementato quando il paziente riacquista il proprio drive respiratorio. Può essere ragionevole un suo aumento della PEEP, soprattutto se è bassa, al recupero dell’attività respiratoria spontanea;

  4. La valutazione “flessibile” (senza integralismi) della driving pressure può aiutare a definire se la sospensione della paralisi è accettabile o meno. In caso di driving pressure chiaramente superiori ai limiti raccomandati è ragionevole prolungare il periodo di paralisi. In caso di elevata driving pressure, può essere utile verificare se essa si conferma anche sulla driving pressure transpolmonare.

 

Come sempre, un sorriso agli amici di ventilab.

 

 

Bibliografia.

1. Papazian L, Forel J, Gacouin A, et al.: Neuromuscular Blockers in Early Acute Respiratory Distress Syndrome. N Engl J Med 2010; 363:1107–1116

2. The National Heart, Lung, and Blood Institute PETAL Clinical Trials Network: Early Neuromuscular Blockade in the Acute Respiratory Distress Syndrome. N Engl J Med 2019; 380:1997–2008

3. Bellani G, Laffey JG, Pham T, et al.: Epidemiology, Patterns of Care, and Mortality for Patients With Acute Respiratory Distress Syndrome in Intensive Care Units in 50 Countries. JAMA 2016; 315:788–800

4. Yoshida T, Grieco DL, Brochard L, Fujino Y. Patient self-inflicted lung injury and positive end-expiratory pressure for safe spontaneous breathing. Curr Opin Crit Care 2020; 26:59–65

5. Mauri T, Yoshida T, Bellani G, et al.: Esophageal and transpulmonary pressure in the clinical setting: meaning, usefulness and perspectives. Intensive Care Med 2016; 42:1360–1373

 



Read more ...

Cortisone: cura per la COVID-19 o per l’ARDS?

27 lug 2020

In questi giorni è stato pubblicato il trial randomizzato controllato (RCT) conosciuto con la sigla RECOVERY sulla terapia steroidea nella malattia da SARS-COV-2 (COVID-19). Le conclusioni dell’abstract dicono che il desametasone riduce la mortalità a 28 giorni nei pazienti con COVID-19 con ventilazione meccanica invasiva o in ossigenoterapia ma non nei pazienti senza alcun supporto respiratorio (“In patients hospitalized with Covid-19, the use of dexamethasone resulted in lower 28-day mortality among those who were receiving either invasive mechanical ventilation or oxygen alone at randomization but not among those receiving no respiratory support.“) (1).

Anche davanti ad un importante RCT come questo, è necessario conservare lo spirito critico tipico del metodo scientifico ed i risultati di questo studio devono essere integrati con le conoscenze che già abbiamo.

 

I limiti dei trial randomizzati e controllati.

Nonostante la fideistica fiducia nei RCT della evidence-based medicine, non esiste alcuna dimostrazione che il risultato positivo di un RCT sia la prova definitiva dell’efficacia di una terapia in una data malattia

La storia recente ci insegna che numerosi RCT su trattamenti nei pazienti critici, anche se pubblicati sulle più prestigiose riviste di medicina, sono stati poi smentiti nel volgere di pochi anni. Tra i trattamenti la cui efficacia è stata sancita da un RCT e poi sconfessata mi vengono in mente il controllo stretto della glicemia (2), la early-goal directed therapy nello shock settico per mantenere la ScvO2 > 70% (3), l’uso della proteina C attivata ricombinante umana nello shock settico (4) (successivamente ritirata dal commercio), l’infusione di cisatracurium nelle fasi iniziali della ARDS (5). Forse qualche altro esempio può venire in mente anche a te.

Non c’è nulla di strano nel fatto che un RCT venga smentito. Innanzitutto la sedicente evidence-based medicine è in realtà una probability-based medicine. Questo significa, semplificando, che ogni RCT positivo ha 1 probabilità su 20 di dimostrare efficace una terapia che in realtà non lo è. Ancora più elevata la probabilità che un RCT negativo escluda l’efficacia di un trattamento che in realtà è efficace: questo accade 1 volta su 5, nella migliore delle ipotesi. Questi errori intrinseci alla metodologia statistica vengono definiti errore di primo tipo (o errore alfa) ed errore di secondo tipo (o errore beta).

Inoltre i risultati dei RTC sono tipicamente caratterizzati da una scarsa validità esterna, cioè sono poco generalizzabili alla vita reale, non potendo essere necessatiamente considerati validi per pazienti con caratteristiche diverse, curati in contesti diversi ed in periodi storici diversi rispetto a quelli in cui si è svolto il RCT (6).

Questo non significa certamente che i RCT siano studi di scarso valore, tutt’altro. Semplicemente ci ricorda che i loro risultati sono importanti, ma non possono essere accettati, con atto di fede, come la risposta definitiva a un quesito clinico, ma devono integrarsi con le conoscenze che acquisiamo anche con altri tipi di studi. Non esistono studi perfetti, e i RCT non fanno eccezione.

 

Cortisone nella COVID-19: i dati del RCT.

Riprendiamo i risultati del RCT RECOVERY citato in apertura, che si è svolto in 176 ospedali della Gran Bretagna. Sono stati arruolati nello studio i pazienti con infezione sospetta o confermata da SARS-CoV-2. Alla fine il 15% dei pazienti randomizzati non aveva una diagnosi confermata di infezione da SARS-CoV-2, ma sospettata per la presenza di insufficienza respiratoria non cardiogena con addensamento parenchimale o vetro smerigliato al Rx torace (quindi di fatto qualsiasi tipo di polmonite). In questi casi la diagnosi era basata esclusivamente sull’opinione del medico curante (“the diagnosis remains a clinical one based on the opinion of the managing doctor”).

Dopo l’esclusione di 2000 (la maggior parte perché i medici curanti non ritenevano corretto randomizzarli per il trattamento con cortisone), quasi 6500 pazienti sono stati randomizzati per ricevere 6 mg di desametasone orale o endovenoso per 10 giorni o la usual care, cioè la cura normalmente utilizzata in quei 176 ospedali del Regno Unito.

Lo studio non è stato condotto in cieco, quindi i medici curanti sapevano chi stava ricevendo il desametasone e chi no: questo è oggettivamente un limite rilevante per qualsiasi RCT.

La terapia poteva iniziare in qualsiasi momento del ricovero ed in qualunque condizione clinica: alla randomizzazione il 16% dei pazienti era intubato, il 60% faceva ossigenoterapia o ventilazione non-invasiva (queste ultime due considerate come se fossero la stessa cosa) ed il 24% non riceveva nessun supporto respiratorio (nemmeno l’ossigenoterapia). 

Il risultato complessivo è stato la riduzione del 2.8% della mortalità a 28 giorni in chi faceva il desametasone (22.9% in chi ha fatto desametasone vs 25.7% in chi non ha ricevuto questa terapia) (figura 1, riquadro rosso).

La principale riduzione di mortalità si è verificata nei pazienti con ventilazione meccanica invasiva, in cui la mortalità con desametasone è stata il 29% a confronto del 41% dei pazienti con “usual care“.

Molto minore o assente l’efficacia nei pazienti con ossigenoterapia/ventilazione non-invasiva e senza supporti respiratori, che se considerati insieme non hanno avuto nessuna significativa differenza di mortalità (21.7% con desametasone e 22.7% con la usual care) (figura 1, riquadro blu).



Figura 1

 

 Il gruppo di controllo: la “usual care“.

Ora facciamoci una domanda: il desametasone è stato più efficace di che cosa nei pazienti in ventilazione meccanica invasiva? E’ stato più efficace rispetto alla usual care, cioè al trattamento usuale. A questo punto pare logico chiederci quale sia stata la ”usual care” nei 1007 sottoposti a ventilazione meccanica nei 176 ospedali che hanno partecipato al RECOVERY (per una media di 5-6 pazienti per ospedale): quali sono stati i criteri di intubazione, una volta iniziata la ventilazione meccanica che volume corrente, driving pressure, PEEP, pressione di plateau sono stati applicati, quanto spesso è stata usata la pronazione, se e come i pazienti hanno ricevuto miorilassanti, ecc. ecc.

Sappiamo bene che, anche nell’era della ventilazione protettiva, il 35% dei pazienti con ARDS riceve un volume corrente decisamente eccessivo (> 8 m/kg di peso corporeo ideale) e quasi l’80% superiore a 6 ml/kg di peso ideale (7). E sappiamo bene che un elevato volume corrente, PEEP non appropriata o stress index > 1 determinano un aumento delle citochine infiammatorie (8, 9). Lo steroide può aver un effetto anche su questa possibile fonte di infiammazione?

Sappiamo anche che la pronazione, anch’essa protettiva per lo stress polmonare (10–12), nella pratica clinica spesso non è utilizzata nei pazienti con ARDS grave (13). Quanto è stata utilizzata nei pazienti del RECOVERY?

Come abbiamo visto all’inizio del post, il risultato di un RCT dipende fortemente dalla ”usual care, cioè dal contesto in cui il risultato è stato ottenuto e dalla combinazione con gli altri trattamenti, elementi da cui dipende la sua generalizzabilità alla nostra pratica clinica: se non sappiamo quando e come sono stati ventilati i pazienti del RECOVERY trial, non potremo sapere quanto possano essere validi per noi questi risultati.

 

Steroide efficace nella ARDS o nella COVID-19?

Se il cortisonico fosse efficace nella COVID-19, avrebbe dovuto ridurre la mortalità in tutti i pazienti, non solo in quelli sottoposti a ventilazione meccanica invasiva. Perchè ha funzionato molto bene solo nei pazienti intubati e ventilati e poco o nulla negli altri?

Chi ha visto i pazienti con COVID-19 che arrivano alla ventilazione meccanica invasiva sa bene che, a questo stadio, hanno una polmonite bilaterale. E quindi una ARDS (per la diagnosi di ARDS ti rimando al post del 24/06/2012).

Mi sembra logico dedurre che i risultati del RECOVERY supportino l’efficacia della terapia steroidea nella ARDS. Il risultato è tutt’altro che innovativo, visto che la terapia con steroidi nella ARDS era già raccomandata dalle linee-guida congiunte dell società americana ed europea di Terapia Intensiva (14) e confermata nella sua efficacia da un recente RCT nei pazienti con ARDS (15).

Il merito del RECOVERY è stato quello di fugare le perplessità sull’uso degli steroidi nei pazienti con COVID-19 quando sviluppano una ARDS. Inizialmente l’utilizzo degli steroidi nella COVID-19 era sconsigliato nel timore che potesse ridurre la clearance virale (16). I risultati del trial RECOVERY confermano questo timore nei pazienti senza grave insufficienza respiratoria (che hanno una mortalità del 15-20%), ma mostrano che quando compare una ARDS il beneficio supera il rischio. E’ quindi giustificato dare lo steroide nella ARDS anche secondaria a COVID-19.

 

Conclusione.

Il risultato del RCT RECOVERY purtroppo ci mostra che la terapia steroidea non è efficace per la COVID-19, altrimenti avrebbe ridotto la mortalità in tutti i livelli di gravità della malattia.

Questo studio ci conferma che  lo steroide è efficace nella ARDS, anche quando secondaria a COVID-19

L’efficacia del desametasone nella ARDS da COVID-19 è valida quando i pazienti sono trattati secondo la usual care (indicazioni all’intubazione, volumi e pressioni di ventilazione, farmaci associati, ecc. ecc.) del RECOVERY, che purtroppo non ci è dato conoscere… (almeno per il momento). Quindi non è detto che questi risultati siano riproducibili in ospedali con organizzazione ed “usual care” diversa da quella degli ospedali britannici che hanno partecipato al trial.

Come sempre, un sorriso a tutti gli amici di ventilab. E buone vacanze! Quest’anno ce le meritiamo proprio 🙂

 

Bibliografia

  1. The RECOVERY Collaborative Group. Dexamethasone in Hospitalized Patients with Covid-19 — Preliminary Report. N Engl J Med 2020;NEJMoa2021436.doi:10.1056/NEJMoa2021436.
  2. van den Berghe, G, Wouters P, Weekers F, Verwaest C, Bruyninckx F, Schetz M, Vlasselaers D, Ferdinande P, Lauwers P, Bouillon R. 110801 Intensive Insulin Therapy in Critically Ill Patients. N Engl J Med 2001;345:1359–1367.
  3. Rivers E, Nguyen B, Havstad S, Ressler J, Muzzin A, Knoblich B, Peterson E, Tomlanovich M. Early Goal-Directed Therapy in the Treatment of Severe Sepsis and Septic Shock. N Engl J Med 2001;345:1368–1377.
  4. Bernard GR, Dhainaut J-F, Helterbrand JD. Efficacy and Safety of Recombinant Human Activated Protein C for Severe Sepsis. N Engl J Med 2001;344:699–709.
  5. Papazian L, Forel J, Gacouin A, Penot-Ragon C, Gilles P, Loundou A, Jaber S, Arnal J, Perez D, Seghboyan J, Constantin J, Courant P, Lefrant J, Claude G, Prat G, Morange S, Roch A. Neuromuscular Blockers in Early Acute Respiratory Distress Syndrome. N Engl J Med 2010;363:1107–1116.
  6. Frieden TR. Evidence for Health Decision Making — Beyond Randomized, Controlled Trials. In: Drazen JM, Harrington DP, McMurray JJV, Ware JH, Woodcock J, editors. N Engl J Med 2017;377:465–475.
  7. Bellani G, Laffey JG, Pham T, Fan E, Brochard L, Esteban A, Gattinoni L, van Haren F, Larsson A, McAuley DF, Ranieri M, Rubenfeld G, Thompson BT, Wrigge H, Slutsky AS, Pesenti A, for the LUNG SAFE Investigators and the ESICM Trials Group. Epidemiology, Patterns of Care, and Mortality for Patients With Acute Respiratory Distress Syndrome in Intensive Care Units in 50 Countries. JAMA 2016;315:788.
  8. Ranieri VM, Suter PM, Tortorella C, Tullio RD, Dayer JM, Brienza A, Bruno F, Slutsky AS. Effect of Mechanical Ventilation on Inflammatory Mediators in Patients with Acute Respiratory Distress Syndrome: A Randomized Controlled Trial: JAMA 2000;44:11–12.
  9. Terragni PP, Filippini C, Slutsky AS, Birocco A, Tenaglia T, Grasso S, Stripoli T, Pasero D, Urbino R, Fanelli V, Faggiano C, Mascia L, Ranieri VM. Accuracy of Plateau Pressure and Stress Index to Identify Injurious Ventilation in Patients with Acute Respiratory Distress Syndrome: Anesthesiology 2013;119:880–889.
  10. Mentzelopoulos SD. Prone position reduces lung stress and strain in severe acute respiratory distress syndrome. Eur Respir J 2005;25:534–544.
  11. Cornejo RA, Díaz JC, Tobar EA, Bruhn AR, Ramos CA, González RA, Repetto CA, Romero CM, Gálvez LR, Llanos O, Arellano DH, Neira WR, Díaz GA, Zamorano AJ, Pereira GL. Effects of Prone Positioning on Lung Protection in Patients with Acute Respiratory Distress Syndrome. Am J Respir Crit Care Med 2013;188:440–448.
  12. Galiatsou E, Kostanti E, Svarna E, Kitsakos A, Koulouras V, Efremidis SC, Nakos G. Prone Position Augments Recruitment and Prevents Alveolar Overinflation in Acute Lung Injury. Am J Respir Crit Care Med 2006;174:187–197.
  13. Guérin C, Gurjar M, Bellani G, Garcia-Olivares P, Roca O, Meertens JH, Maia PA, Becher T, Peterson J, Larsson A, Gurjar M, Hajjej Z, Kovari F, Assiri AH, Mainas E, Hasan MS, Morocho-Tutillo DR, Baboi L, Chrétien JM, François G, Ayzac L, Chen L, Brochard L, Mercat A, for the investigators of the APRONET Study Group, the REVA Network, the Réseau recherche de la Société Française d’Anesthésie-Réanimation (SFAR-recherche) and the ESICM Trials Group. A prospective international observational prevalence study on prone positioning of ARDS patients: the APRONET (ARDS Prone Position Network) study. Intensive Care Med 2018;44:22–37.
  14. Annane D, Pastores SM, Rochwerg B, Arlt W, Balk RA, Beishuizen A, Briegel J, Carcillo J, Christ-Crain M, Cooper MS, Marik PE, Meduri GU, Olsen KM, Rodgers SC, Russell JA. Guidelines for the Diagnosis and Management of Critical Illness-Related Corticosteroid Insufficiency (CIRCI) in Critically Ill Patients (Part I): Society of Critical Care Medicine (SCCM) and European Society of Intensive Care Medicine (ESICM) 2017. Crit Care Med 2017;45:11.
  15. Villar J, Ferrando C, Martínez D, Ambrós A, Muñoz T, Soler JA, Aguilar G, Alba F, González-Higueras E, Conesa LA, Martín-Rodríguez C, Díaz-Domínguez FJ, Serna-Grande P, Rivas R, Ferreres J, Belda J, Capilla L, Tallet A, Añón JM, Fernández RL, González-Martín JM, Aguilar G, Alba F, Álvarez J, Ambrós A, Añón JM, Asensio MJ, Belda J, Blanco J, et al. Dexamethasone treatment for the acute respiratory distress syndrome: a multicentre, randomised controlled trial. Lancet Respir Med 2020;S2213260019304175.doi:10.1016/S2213-2600(19)30417-5.
  16. World Health Organization. Clinical management of severe acute respiratory infection (SARI) when COVID-19 disease is suspected. Interim guidance 13 March 2020. 2020;at <https://www.who.int/docs/default-source/coronaviruse/clinical-management-of-novel-cov.pd>.
 
Read more ...