Ventilazione meccanica volumetrica o pressometrica nel paziente ostruttivo grave?

16 dic 2015


Affrontiamo ora un tema rimasto aperto nella discussione al post precedente: è meglio una modalità volumetrica o pressometrica per la ventilazione meccanica nei pazienti con grave patologia ostruttiva acuta ed iperinflazione dinamica?

Per rispondere a questa domanda, vediamo cosa succede applicando una ventilazione a volume controllato o a pressione controllata allo stesso paziente ostruttivo. Per poter facilmente manipolare ventilazione e meccanica respiratoria, utilizzeremo i dati e le curve di pressione e flusso generati con un modello matematico a cui specifichiamo le caratteristiche del paziente e l’impostazione della ventilazione.(nota 1)

Dopo aver attribuito al paziente una elevata resistenza delle vie aeree ed una elastanza sostanzialmente normale (una situazione simile a quella del paziente protagonista del post precedente), cerchiamo di ventilarlo “bene” sia in volume controllato che in pressione controllata. Teniamo conto che il nostro paziente è in fase acuta, in ventilazione controllata ed ha una grave ipotensione. Date queste premesse, una buona ventilazione meccanica dovrebbe ridurre al minimo la PEEP totale, sia per migliorare il ritorno venoso e quindi la portata cardiaca, sia per ridurre la pressione di plateau, qualora ve ne fosse bisogno. Possiamo quindi condividere che, indipendentemente da volumetrica o pressometrica, dovremo erogare un volume corrente normale (ricordiamo che in fisiologia è normale un volume corrente di circa 6-7 ml/kg di peso ideale) lasciando un lungo tempo espiratorio. Quindi potremmo impostare una ventilazione iniziale con 450 ml di volume corrente senza PEEP, 12/min di frequenza respiratoria, 1” di tempo inspiratorio e 4” di tempo espiratorio, ed una rampa di 0.1”. Ovviamente questa impostazione dovrà essere rivalutata alla luce dei risultati ottenuti (ad esempio per decidere se e quanta PEEP applicare).

Impostiamo quindi una pressione controllata ed un volume controllato, scegliendo il livello di pressione controllata che consente di ottenere lo stesso volume corrente della ventilazione a volume controllato. Vediamo le curve di pressione e flusso nelle due modalità di ventilazione in figura 1.



Figura 1.

In ventilazione a pressione controllata abbiamo dovuto applicare un livello di pressione di 35 cmH2O per erogare 450 ml di volume corrente (curva in alto a sinistra). In volume controllato abbiamo invece raggiunto una pressione di picco di 40 cmH2O per assicurarci lo stesso volume corrente (curva in alto a sinistra).

Possiamo considerare un vantaggio della pressione controllata la riduzione della pressione delle vie aeree rispetto al volume controllato? Ritengo di no, come forse avranno intuito i lettori più attenti di ventilab. Cerchiamo di capire il perché.

La pressione che leggiamo sul display e sulle curve del ventilatore meccanico è la pressione NEL VENTILATORE e NON NEI POLMONI del paziente.

Durante l’insufflazione, il flusso aereo si sposta dal ventilatore al paziente perché nel ventilatore c’è una pressione più alta rispetto a quella del parenchima polmonare. Al contrario, in espirazione l’aria esce dai polmoni perché questi hanno una pressione più alta rispetto a quella del ventilatore. E’ una legge molto semplice: il flusso si sposta dal punto in cui la pressione è più elevata a quello in cui è più bassa. In termini matematici si può esprimere questo concetto con la formula V’=dP/R, dove V’ è il flusso, dP la differenza di pressione tra il punto di partenza e quello di arrivo del flusso ed R la resistenza che si oppone al flusso. Quindi quando c’è flusso la pressione nel ventilatore è sempre diversa dalla pressione nei polmoni.

Ritorniamo al nostro caso: la ventilazione a pressione controllata consente di avere 5 cmH2O di pressione in meno rispetto al volume controllato nel VENTILATORE. Mantiene questo vantaggio anche nel PARENCHIMA POLMONARE?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo necessariamente misurare la pressione intrapolmonare. Ricordando la relazione V’=dP/R, possiamo anche dire che ventilatore e polmoni hanno la stessa pressione quando non c’è flusso (e le vie aeree sono pervie). Con una pausa del flusso alla fine della inspirazione, consentiamo alla pressione nel ventilatore e nel parenchima polmonare di equilibrarsi: la pressione che leggiamo nel ventilatore sarà quindi simile a quella intrapolmonare.

Eseguiamo nel nostro paziente “modello” l’occlusione delle vie aeree a fine inspirazione durante la ventilazione a pressione controllata e durante quella in volume controllato e misuriamo le rispettive pressioni di plateau (figura 2).Figura 2.

Con entrambe le ventilazioni abbiamo 14 cmH2O di pressione di plateau (curve in alto). Un dato ampiamente prevedibile: la pressione di plateau è INDIPENDENTE dalla modalità di ventilazione, ed è determinata unicamente dal volume corrente erogato, dall’elastanza dell’apparato respiratorio e dalla PEEP totale. Le strutture alveolari sono esposte (in media) alla pressione di plateau ed è questo il motivo per cui si utilizza la pressione di plateau (e non quella di picco) per guidare la ventilazione protettiva.

Da quanto abbiamo detto ne consegue necessariamente che, a parità di volume erogato, ventilazione pressometrica e volumetrica devono essere considerate equivalenti in termini di protezione dal danno associato alla ventilazione meccanica.

Spesso nella pratica clinica la ventilazione pressometrica viene adottata per limitare la pressione di picco nelle vie aeree, senza però badare alla riduzione di volume corrente ad essa associata. Penso sia ora evidente che potremmo ottenere un risultato analogo (in termini di pressione alveolare) se scegliessimo una ventilazione a volume controllato con riduzione del volume corrente. La differenza è data dal volume corrente e non dalla modalità di ventilazione.

Durante la fase di ventilazione controllata (quindi con paziente prevalentemente passivo), a volte preferisco la ventilazione a volume controllato per alcuni piccoli vantaggiosi effetti “secondari” di questa scelta: 1) obbliga a prendere decisioni esplicite (e quindi consapevoli) sul volume corrente, senza affidarsi alla sua riduzione imprevedibile (e casuale!) legata alla riduzione della pressione applicata; 2) consente di avere sempre sott’occhio una breve pressione di pausa di fine inspirazione (se questa è introdotta nell’impostazione della ventilazione). Questa consente di avere in evidenza una stima approssimativa della pressione di plateau; 3) la valutazione qualitativa della curva di pressione offre informazioni anche su altri segni di possibile sovradistensione polmonare, come ad esempio lo stress index.

Le considerazioni che abbiamo fatto finora ci fanno concludere che anche nel paziente ostruttivo in fase acuta e sottoposto a ventilazione controllata:

1) la diatriba tra ventilazione volumetrica e pressometrica è fuorviante, quello che è veramente importante è scegliere il volume corrente appropriato da raggiungere;

2) il risultato di ogni ventilazione controllata nei pazienti con insufficienza respiratoria dovrebbe essere valutato anche alla luce della pressione di plateau e della PEEP totale.

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

 

nota 1: Non entro nei dettagli del modello. I risultati sono affidabili, anche se le curve di pressione e flusso sono “squadrate”, per effetto dei cambi istantanei del segnale che il modello genera.

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La PEEP nel paziente ostruttivo: non solo ventilazione...

23 nov 2015


Oggi presentiamo un gradito contributo inviatoci dall’amico Paolo Marsilia dell’Ospedale Cardarelli di Napoli, che ci presenta un caso che potrebbe capitare domani notte a ciascuno di noi. Un caso complesso con una soluzione semplice, alla quale possiamo rapidamente giungere solo se, come ha fatto Paolo, identifichiamo esattamente quale sia il problema.

 

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PEEP: quando la notte “non” porta consiglio…



Figura 1.

E’ la storia di Gennaro, 75 anni affetto da broncopneumopatia cronica ostruttiva in ossigenoterapia domiciliare e fibrillazione atriale cronica. Gennaro arriva in Pronto Soccorso gravemente dispnoico, utilizzando i muscoli respiratori accessori. L’emogasanalisi arteriosa evidenzia un pH di 7.30, 49 mmHg di PaCO2, 51 mmHg di PaO2 e 25.4 mmol/L di HCO3. La radiografia del torace mostra un grossolano addensamento polmonare a sinistra (figura 1).

Il quadro clinico rapidamente ingravescente impone l’intervento del rianimatore che procede all’intubazione ed inizia la ventilazione meccanica con 500 ml di volume corrente, una frequenza respiratoria di 15/min, I:E 1:2.5, PEEP 10 cmH2O. Gennaro è sedato con midazolam e remifentanil e dopo alcune ore di ventilazione meccanica il pH è 7.26, la PaCO2 55 mmHg, la PaO2 72 mmHg. Ma la cosa decisamente più preoccupante è il quadro emodinamico. Nonostante l’infusione di noradrenalina 0,1 mcg∙kg-1∙min-1, la pressione arteriosa è 70/40 mmHg con 140/min di frequenza cardiaca.



Figura 2.

Ancora una volta la grafica ventilatoria mi viene in aiuto per gestire un caso difficile. Era infatti evidente il flusso espiratorio troncato alla fine dell’espirazione (figura 2), nonostante il tempo espiratorio fosse comunque piuttosto lungo (circa 2.9 secondi). Questo segno documentava chiaramente la presenza di iperinflazione dinamica ed autoPEEP. Può essere quest’ultima implicata nell’ipotensione di Gennaro? Per capirlo meglio, ho misurato la PEEP totale con la manovra di pausa di fine espirazione (mantenendo i 10 cmH2O di PEEP) (figura 3): 17 cmH2O!



Figura 3.

Diventa chiaro come l’aumento dela pressione intratoracica, determinato dalla elevata PEEP totale, possa essere una grave causa di bassa portata cardiaca, e quindi di ipotensione, nel nostro Gennaro. E’ noto infatti che l’aumento della pressione intratoracica durante la ventilazione meccanica determina un incremento della pressione venosa centrale. Sappiamo anche che il ritorno venoso è generato dalla differenza di pressione tra le vene postcapillari (assimilabile alla pressione sistemica media) e la pressione in atrio destro (assimilabile alla pressione venosa centrale). E’ quindi evidente come l’aumento della pressione venosa centrale possa ridurre il ritorno venoso e di conseguenza la gittata cardiaca. Ad aggravare la riduzione del ritorno venoso può inoltre contribuire la sedazione. Infatti la pressione sistemica media è determinata dal volume intravascolare e dal tono vascolare. La sedazione, con il suo effetto simpaticolitico, può ridurre la pressione sistemica media e quindi la differenza tra pressioni venose e pressione atriale destra. Possiamo infine ipotizzare che la compliance polmonare di Gennaro sia particolarmente elevata rispetto a quella toracica, dal momento che contribuisce in maniera determinante alla “trasmissione” della pressione alveolare al cuore ed ai grossi vasi intratoracici, determinando l’effetto “tamponamento” sostenuto dall’iperinflazione dinamica.

Capito quindi il problema, qual è stata la scelta terapeutica? Eliminare la PEEP! Dopo la modifica dei parametri ventilatori, la pressione arteriosa ha raggiunto un valore di 105/60 mmHg e la frequenza cardiaca si è ridotta a 90 battiti/minuto.

La storia di Gennaro ci ricorda almeno due elementi nella ventilazione meccanica:

  • l’analisi della grafica ventilatoria ci deve sempre guidare nella scelta della migliore ventilazione;
  • nei pazienti con instabilità emodinamica, l’impostazione della PEEP non può prescindere dalla misurazione della PEEP totale.

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Il caso presentato da Paolo pone in evidenza il problema della gestione della PEEP nei pazienti con autoPEEP: l’argomento è complesso (e certamente lo approfondiremo in futuro), ma il messaggio finale è semplice: in alcuni pazienti l’applicazione della PEEP si somma alla PEEP intrinseca già presente ed aumenta la PEEP totale; in altri pazienti l’applicazione di una PEEP inferiore alla autoPEEP non modifica la PEEP totale (in rari casi potrebbe addirittura ridurla leggermente). Possiamo capire quale comportamento ha il paziente che stiamo curando, misurando (come ha fatto Paolo) la PEEP totale (cioè il plateau di pressione durante l’occlusione delle vie aeree a fine espirazione) con e senza PEEP. Questo approccio è semplice e molto più affidabile di talora pindariche speculazione fisiopatologiche.

Soprattutto all’inizio della ventilazione meccanica, il paziente ostruttivo rischia di essere particolarmente sensibile agli effetti emodinamici legati all’aumento della pressione intratoracica . Infatti spesso arriva all’appuntamento con la ventilazione meccanica spesso disidratato (cioè dopo qualche giorno di febbre e ridotto apporto idrico) e quindi con una bassa pressione nelle venule post capicallari. Viene sedato per l’intubazione tracheale, con una ulteriore riduzione delle pressioni venose. Quindi la pressione che “spinge” il ritorno venoso può essere particolarmente bassa (vedi post del 30/04/2013). In aggiunta questi pazienti hanno usualmente (come ipotizzato da Paolo nel suo paziente) una compliance polmonare normale o elevata, condizione che favorisce la trasmissione della pressione intra-alveolare nello spazio pleurico che circonda le strutture vascolari intratoraciche. Una miscela esplosiva per scatenare il peggio dell’interazione cuore-polmoni.

Le misure più immediate che possiamo utilizzare per minimizzare acutamente gli effetti negativi in queste condizioni sono 2: la riduzione della PEEP totale (con la rimozione della PEEP ed il prolungamento del tempo espiratorio) e l’aumento del tono vascolare con i vasocostrittori. Immediatamento dopo questi provvedimenti, possiamo iniziare un trattamento definitivo: sospensione precocissima della sedazione (provando già alla cessazione dell’effetto del miorilassante utilizzato per l’intubazione) e riduzione “strutturale” dell’autoPEEP, che si ottiene esclusivamente con i broncodilatatori (magari aiutandosi mantenendo il paziente in posizione semiseduta) (vedi post del 01/09/2014 e del 08/11/2013).

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.


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PEEP, BPCO e ARDS

18 ott 2015


Guglielmo ha 70 anni ed una Asthma-COPD Overlap Syndrome (ACOS), cioè una broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) con episodi acuti di asma (1). Guglielmo è quindi un paziente ostruttivo e possiamo prevedere che l’iperinflazione dinamica e la PEEP intrinseca (o auto-PEEP) saranno tra i suoi principali problemi se dovesse essere sottoposto a ventilazione meccanica (ad esempio per una riacutizzazione di BPCO o per una crisi asmatica).

Ed è quello che è successo, come possiamo vedere nella figura 1.


Figura 1

In questa immagine Guglielmo è passivo durante una ventilazione pressometrica (come si capisce dall’onda di flusso decrescente, traccia verde) a target di volume (400 ml di volume corrente) senza PEEP, con una frequenza respiratoria di 28/min ed un I:E di 1:1.5. Durante la ventilazione il flusso espiratorio non si azzera quando inizia l’inspirazione successiva (freccia azzurra), segno di espirazione incompleta e quindi di iperinflazione dinamica. Se eseguiamo un’occlusione delle vie aeree a fine espirazione (linea bianca), l’aumento della pressione ci consente di misurare l’auto-PEEP, in questo caso di 7 cmH2O.

Come sarebbe opportuno modificare l’impostazione della ventilazione meccanica, ed in particolare quale la PEEP più appropriata per Guglielmo?

Aggiungo un particolare…Guglielmo è da poco intubato e sottoposto a ventilazione meccanica per una grave ipossiemia con addensamenti polmonari bilaterali, insorti dopo una perforazione del tratto digestivo. Abbiamo quindi un bel quadro di Acute Respiratory Distress Syndrome (ARDS) in un paziente BPCO e asmatico.

A mio parere la patologia ostruttiva in questo momento è l’ultimo dei nostri problemi. Dovremmo peraltro convincerci, in generale, che la presenza di PEEP intrinseca non dovrebbe necessariamente essere l’invito a modificare la ventilazione, a meno che l’iperinflazione dinamica non sia causa di sovradistensione polmonare oppure non determini un risentimento emodinamico. Cose che in questo momento Guglielmo non presenta: è infatti normoteso senza farmaci vasoattivi e la pressione nelle vie aeree è circa 20 cmH2O (come visibile in figura 1).

Riprendo la domanda posta in precedenza: come sarebbe opportuno modificare l’impostazione della ventilazione meccanica, ed in particolare quale la PEEP più appropriata?

La frequenza respiratoria deve essere un po’ elevata nei pazienti con ARDS se vogliamo (come dobbiamo) utilizzare una ventilazione con basso volume corrente. Infatti la ARDS è caratterizzata da un elevato spazio morto e l’utilizzo di una frequenza respiratoria elevata è l’unico modo per garantire una sufficiente ventilazione alveolare (vedi post del 17/06/2011). Quindi ci teniamo i 28 atti/min di frequenza respiratoria.

Il volume corrente è appropriato, di poco inferiore 6 ml/kg in un soggetto il cui peso ideale sia 70 kg (come nel caso di Guglielmo).

Il rapporto I:E di 1:1.5 con una frequenza respiratoria di 28/min determina un tempo inspiratorio di 0.86″, un valore ai limiti inferiori del fisiologico. Ricordiamo che la fase ossigenativa può essere favorita dal mantenimento di un tempo inspiratorio lungo che può aumentare la pressione media delle vie aeree e quindi migliorare l’accoppiamento tra ventilazione e perfusione (vedi post del 21/10/2012 e del 15/03/2014). Di conseguenza proseguiamo (almeno per ora) con un I:E di 1:1.5, pronti a passare ad un 1:1 in caso di peggioramento dell’ipossiemia.

Ci resta da mettere a posto la PEEP. E lo faremo utilizzando il metodo più semplice (e comunque razionale ed efficace), cioè scegliendo la PEEP che determina la minor driving pressure, cioè la minor differenza tra la pressione di occlusione di fine inspirazione e quella di fine inspirazione (vedi post del 06/10/2013 e del 28/02/2015). Questo criterio di scelta della PEEP è utilizzabile anche nei pazienti con ARDS con malattia polmonare cronica ostruttiva.

Vediamo ora come lo abbiamo applicato a Guglielmo, descrivendo anche qualche “scorciatoia” intelligente che rende questo approccio rapido, semplice ed alla portata di chiunque. Per farlo dobbiamo modificare l’impostazione del ventilatore per il tempo strettamente necessario a scegliere la PEEP. Quindi applicheremo questa PEEP ripristinando l’originale impostazione del ventilatore.

Per prima cosa ventiliamo temporaneamente il paziente in volume controllato senza modificare gli altri parametri della ventilazione. Nella inspirazione inseriamo una breve pausa di fine inspirazione, in modo tale da avere in ogni respiro una pressione di “inizio plateau”, come mostrato in figura 2.


Figura 2

Useremo tranquillamente la pressione di “inizio plateau” al posto della pressione di plateau che si dovrebbe misurare dopo almeno 3 secondi di occlusione delle vie aeree a fine inspirazione. Una comodità della pressione di “inizio plateau” è che ci viene fornita sul display del ventilatore respiro per respiro, senza dover fare nessuna manovra di occlusione manuale.

La pressione di “inizio plateau” solitamente sovrastima di di 1-2 cmH2O la pressione di plateau a 3 secondi (2), cosa che avviene anche nel nostro paziente ARDS/BPCO. Nella figura 3 vediamo infatti che la pressione di “inizio plateau” (linea tratteggiata bianca) è leggermente superiore (di 2 cmH2O) rispetto alla pressione di plateau a 3 secondi.



Figura 3

La pressione di “inizio plateau” è un’approssimazione che possiamo non solo accettare ma addirittura preferire alla tradizionale pressione di plateau. Infatti la caduta della pressione durante il prolungarsi del plateau è determinata anche dalla riduzione di pressione e volume nelle aeree polmonari più ventilate a favore dell’aumento di volume e pressione nelle zone meno ventilate. La pressione di “inizio plateau” dovrebbe riflettere maggiormente la pressione alveolare delle parti di polmone maggiormente ventilate e quindi più esposte allo stress di fine inspirazione ed al danno indotto dalla ventilazione meccanica.

A questo punto riduciamo poi la frequenza respiratoria fino ad osservare l’azzeramento del flusso a fine espirazione. Per facilitare questo obiettivo, conviene mantenere approssimativamente costante il tempo inspiratorio con opportune variazioni del I:E. Possiamo vedere in figura 4 come è diventata a questo punto la ventilazione di Guglielmo.



Figura 4

Se lo riteniamo opportuno, con un’occlusione di fine espirazione (freccia bianca in figura 5) possiamo confermare l’assenza di autoPEEP con questo setting (la pressione delle vie aeree non aumenta dopo l’occlusione).


Figura 5

A questo punto iniziamo ad applicare PEEP crescenti (con incrementi di 2 cmH2O), mantenendo ogni livello di PEEP per un paio di minuti (3). Nella mia esperienza personale ho notato che può essere sufficiente mantenere ogni livello di PEEP anche solo per 1 minuto, poiché dopo questo tempo normalmente le pressioni di plateau non si modificano più.

Ad ogni livello di PEEP, facciamo la differenza tra la pressione di “inizio plateau” e la PEEP applicata, cioè calcoliamo la driving pressure. Se abbiamo seguito i passi precedenti, la cosa è facilissima: facciamo semplicemente la differenza tra la pressione di plateau e la PEEP rilevate dal ventilatore, come possiamo vedere in figura 6, dove è mostrata la ventilazione alla PEEP di 14 cmH2O. La pressione di plateau è 26 cmH2O, la PEEP 14 cmH2O, quindi la driving pressure è 12 cmH2O. Facile, semplice, efficace.


Figura 6

Alla fine avremo una driving pressure per ciascun livello di PEEP. LA PEEP più opportuna sarà quella che determina la minor driving pressure. Ovviamente questa sarà la miglior PEEP nella fase acuta di ARDS, con il miglioramento dell’ipossiemia e l’inizio del weaning i nostri ragionamenti cambieranno completamente. Ma questo è un altro discorso, che avremo certamente modo di riaffrontare in futuro.

Nel caso concreto di Guglielmo abbiamo ottenuto 12 cmH2O di driving pressure a tutti i livelli di PEEP testati tra 4 e 14 cmH2O, mentre dai 16 cmH2O di PEEP in poi la driving pressure ha iniziato gradualmente ad aumentare. Quale livello di PEEP scegliere tra 4 e 14 cmH2O? In questo caso abbiamo scelto 14 cmH2O, quello più elevato, perché si associava ad una pressione di plateau ancora accettabile (26 cmH2O di “inizio plateau”), non vi erano segni evidenti di stress index superiore a 1 (vedi post del 15/08/2011 e del 28/08/2011) e non vi era alcun impatto emodinamico rilevante con questa scelta.

A questo punto bisogna riportare Guglielmo alla frequenza respiratoria iniziale (28/min) per consentire una sufficiente ventilazione alveolare (ed adeguare nuovamente il I:E per mantenere approssimativamente costante il tempo inspiratorio). Ora però dobbiamo tenere conto della autoPEEP che si genererà per la riduzione del tempo espiratorio indotta dall’aumento di frequenza respiratoria.

In questi casi il termine best PEEP” può essere fuorviante, perché ci fa pensare che il nostro obiettivo sia impostare questa “best PEEP” sul ventilatore. Ma se così facessimo, avremmo la “best PEEP” nel circuito del ventilatore. Noi invece vogliamo che la best PEEP” sia raggiunta nell’apparato respiratorio, sia cioè la pressione positiva che leggiamo durante l’occlusione di fine espirazione e che definiamo PEEP totale.

Sarebbe quindi più corretto parlare di “best PEEP totale” invece che di “best PEEP”. Questi due valori sono diversi quando è presente PEEP intriseca. Dobbiamo quindi impostare una PEEP esterna che, assieme alla autoPEEP del paziente, faccia ottenere una PEEP totale uguale alla PEEP che abbiamo deciso di applicare.

Nel nostro Guglielmo è presente autoPEEP, quindi se applichiamo 14 cmH2O di PEEP esterna, la PEEP totale sarà superiore alla PEEP applicata. Dobbiamo quindi ridurre progressivamente la PEEP esterna fino a raggiungere una PEEP totale di 14 cmH2O. Nel nostro caso ci siamo riusciti applicando 12 cmH2O di PEEP, come possiamo vedere nella figura 7.



Figura 7

In alto vediamo la traccia della pressione delle vie aeree durante la ventilazione con 12 cmH2O di PEEP, mentre in basso durante l’occlusione delle vie aeree a fine espirazione. Come si può vedere il valore numerico della PEEP letto sul ventilatore durante la ventilazione segna il livello di PEEP impostata, ma durante l’occlusione si modifica e rileva il valore di PEEP totale. A questo punto, se vogliamo, possiamo riportare Guglielmo in ventilazione pressometrica a target di volume ed il risultato sarà quello che vediamo in figura 8.


Figura 8

Oggi abbiamo affrontato uno tra i casi a maggior complessità nella ventilazione meccanica, cioè quello del paziente con BPCO che sviluppa una ARDS. Ma abbiamo visto che, se abbiamo le idee chiare, in maniera semplice possiamo giungere alle scelte ventilatorie più sensate. Ricapitolando i punti salienti di questo lungo post:

1) la ventilazione meccanica nella fase acuta della ARDS nei pazienti con BPCO ha un approccio simile a quello che adottiamo in tutti gli altri pazienti;

2) dobbiamo rassegnarci a frequenze respiratorie elevate (almeno 22-24/min) e tempi inspiratori almeno normali (1:1.5 o 1:1). Dobbiamo quindi eliminare dai nostri obiettivi la riduzione dell’autoPEEP con il ventilatore;

3) scegliamo come “best PEEP totale” (=pressione di occlusione a fine espirazione) quel valore che garantisce la minor driving pressure a parità di volume corrente.

 

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

 

Bibliografia

1) Postma DS et al. The Asthma–COPD Overlap Syndrome. N Engl J Med 2015; 373:1241-9
2) Barberis L et al. Effect of end-inspiratory pause duration on plateau pressure in mechanically ventilated patients. Intensive Care Med 2003; 29:130-4

3) Garnero A et al. Dynamics of end expiratory lung volume after changing positive end-expiratory pressure in acute respiratory distress syndrome patients. Crit Care 2015; 19:340

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Come utilizzare la ventilazione meccanica per favorire il sonno

26 lug 2015


La
ventilazione meccanica disturba il sonno dei pazienti ventilati e oggi cercheremo di discutere come impostarla correttamente per favorire il più possibile il sonno fisiologico.

L’interferenza della ventilazione meccanica sul sonno è un fenomeno clinicamente rilevante. Infatti il 60% dei pazienti ventilati in Terapia Intensiva ha disturbi del sonno attribuibili alla ventilazione meccanica (1). Limitare le turbe del sonno (nei limiti del possibile) è importante sia per migliorare il comfort del paziente che per ridurre complicanze legate all’alterazione del sonno, come ad esempio il delirium. Infatti sappiamo bene che la privazione di sonno può essere causa di delirium (2,3) e che l’insorgenza di delirium è associata ad una incremento sia della mortalità che della disabilità a lungo termine (4,5).

La respirazione durante il sonno.

Normalmente la frequenza respiratoria è condizionata dalla soglia eupnoica di PaCO2, cioè dal livello di PaCO2 che in condizioni normali si associa all’innesco dell’inspirazione spontanea. Pochi mmHg al di sotto della soglia eupnoica, si ha la soglia apnoica di PaCO2, cioè il livello di PaCO2 al di sotto del quale l’attività respiratoria spontanea si arresta. Se per un qualsiasi motivo si ha una fase di iperventilazione (cioè di aumento di frequenza respiratoria e/o volume corrente), la PaCO2 può ridursi al di sotto della soglia apnoica: ne consegue una apnea che si prolungherà fintanto che la risalita della PaCO2 non ricomincerà a stimolare i centri respiratori.

Come si può vedere nelle figura 1, nelle prime fasi del sonno, la soglia apnoica aumenta (con una estrema variabilità individuale) e può superare la soglia eupnoica. Ne consegue una breve fase di apnea durante la quale la PaCO2 aumenta al di sopra della nuova soglia apneica e quindi la respirazione può ricominciare.



Figura 1

Il problema è che questa apnea può risvegliare il soggetto e che il processo ricomincia non appena si riaddormenta (6), generando quindi un respiro periodico con frequenti apnee e interruzioni del sonno evidenti all’elettroencefalogramma. Quando il sonno riesce ad approfondirsi, l’attività respiratoria diventa più regolare ed il respiro periodico scompare.

Durante la degenza in Terapia Intensiva aumenta la durata delle prime fasi del sonno e si riduce quella del sonno più profondo e quindi il paziente critico è maggiormente vulnerabile al respiro periodico ed ai frequenti risvegli che frammentano il sonno.

La ventilazione meccanica durante il sonno.

Quando impostiamo la ventilazione meccanica dobbiamo tenere conto di questi meccanismi se vogliamo favorire il sonno dei pazienti ventilati.

La ventilazione con pressione di supporto favorisce la frammentazione del sonno. Quando il livello di pressione di supporto supera un livello critico (che nei soggetti sani è tra i 7 e gli 11 cmH2O), si produce respiro periodico, che come abbiamo visto disturba il sonno. Ciò si verifica perché il volume corrente aumenta rispetto a quello spontaneo (cioè quello del periodo di veglia), non si ha un’immediata consensuale riduzione della frequenza respiratoria e quindi si sviluppa ipocapnia che si risolve con l’insorgenza di periodi di apnea (7). Dobbiamo essere consapevoli che il supporto inspiratorio che regoliamo appropriatamente durante la veglia può diventare eccessivo durante il sonno, quando diminuiscono le necessità metaboliche (e quindi la produzione di CO2) e quindi superare il livello critico che abbiamod erscritto sopra.

Il modo più semplice di risolvere questo problema è l’utilizzo della ventilazione assistita-controllata, cioè l’impostazione di una ventilazione con un volume corrente predeterminato, lasciando al paziente il compito di triggerare il ventilatore, cosa che otteniamo impostando una bassa frequenza respiratoria (ed un appropriato tempo inspiratorio!, vedi post del 15/03/2014). Personalmente preferisco, per questo scopo, la pressione controllata a target di volume rispetto alla ventilazione con volume controllato.



Figura 2

Durante il sonno la frequenza respiratoria si riduce sia con la pressione di supporto (PSV) che con la ventilazione assistita-controllata (ACV) (figura 2), ma con quest’ultima il volume corrente non aumenta (come invece accade con la pressione di supporto)(figura 3). La ventilazione assistita-controllata  (a target di volume) evita pertanto l’instaurarsi del respiro periodico, lasciando semplicemente guidare la frequenza respiratoria dalla soglia eupnoica di PaCO2 (8).



Figura 3

La soluzione di utilizzare una pressione di supporto bassa (6 cmH2O) durante il sonno non risolve il problema: la ventilazione assistita-controllata determina comunque un sonno di maggior qualità rispetto alla pressione di supporto (9).

La pressione di supporto garantisce la stessa qualità del sonno della ventilazione assistita-controllata solo ad una condizione: il supporto inspiratorio deve essere adeguato continuamente per ottenere un volume corrente stabilmente inferiore a 450 ml (vicino ai 6 ml/kg di peso ideale) ed una frequenza respiratoria tra i 20/min ed i 30/min (10). Questo può essere ottenuto con l’attivo impegno di medici ed infermieri (preziosissimi, se motivati ed addestrati, nel collaborare al monitoraggio intelligente della ventilazione meccanica) oppure con modalità di ventilazione con la regolazione automatica del supporto inspiratorio.

Potemmo sintetizzare in pochi punti operativi quello che abbiamo visto fino ad ora. Se vogliamo favorire il sonno dei nostri pazienti durante le fasi di ventilazione assistita, possiamo scegliere queste modalità di ventilazione:

1) durante il giorno:

indifferentemente pressione di supporto o ventilazione assistita-controllata;

– paradossalmente, nei pazienti che tendono a dormire di giorno, potremmo addirittura preferire la pressione di supporto, che concilia meno il sonno…

2) durante la notte:

ventilazione assistita-controllata: non richiede continui “aggiustamenti” durante la notte. Un’impostazione iniziale ragionevole potrebbe essere: 450 ml di volume corrente (da adeguare evidentemente alle caratteristiche del paziente), frequenza 6/min, tempo inspiratorio di circa 1 secondo (che a questa frequenza respiratoria impostata corrisponde ad un I:E di 1:9);

pressione di supporto: richiede continui “aggiustamenti” durante la notte. Il supporto inspiratorio deve essere variato attivamente per mantenere sempre un volume corrente tra i 350 ed i 450 ml ed una frequenza respiratoria attorno ai 20/min.

 

Come sempre, un sorriso agli amici di ventilab… e buone vacanze!

 

Bibliografia.

1) Bergbom-Engberg I et al. Assessment of patients’ experience of discomforts during respirator therapy. Crit Care Med 1989; 17:1068-72

2) Maldonado JR. Neuropathogenesis of delirium: review of current etiologic theories and common pathways. Am J Geriatr Psychiatry 2013; 21:1190-222

3) J. Patel et al. The effect of a multicomponent multidisciplinary bundle of interventions on sleep and delirium in medical and surgical intensive care patients. Anaesthesia 2014; 69:540-9

4) Ely EW et al. Delirium as a predictor of mortality in mechanically ventilated patients in the intensive care unit. JAMA 2004; 291:1753-62

5) Girard TD et al. Delirium as a predictor of long-term cognitive impairment in survivors of critical illness. Crit Care Med 2010; 38:1513-20

6) Ozsancak A. Sleep and mechanical ventilation. Crit Care Clin 2008; 24:517-31

7) Meza S et al. Susceptibility to periodic breathing with assisted ventilation during sleep in normal subjects. J Appl Physiol 1998; 85:1929-40

8) Parthasarathy S et al. Effect of ventilator mode on sleep quality in critically ill patients. Am J Respir Crit Care Med 2002; 166:1423-9

9) Toublanc B et al. Assist-control ventilation vs. low levels of pressure support ventilation on sleep quality in intubated ICU patients. Intensive Care Med 2007; 33:1148-54

10) Cabello B et al. Sleep quality in mechanically ventilated patients: Comparison of three ventilatory modes. Crit Care Med 2008; 36:1749-55

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Estubazione o tracheotomia?

30 giu 2015


La storia di Giacomo ci aiuterà a riflettere sullo svezzamento dalla ventilazione meccanica ed a farci una domanda: l’estubazione è sempre un successo e la tracheotomia sempre un fallimento?

Giacomo è un uomo di 83 anni, vive in una Residenza Sanitaria Assistenziale, ha una vasculopatia arteriosa polidistrettuale con scompenso cardiaco cronico ed insufficienza renale cronica. Giacomo ha una emiparesi, esito di una pregressa ischemia cerebrale, riesce camminare con l’ausilio del bastone e la domenica spesso esce dalla RSA per far visita ai figli.

Nel freddo inverno padano ha una polmonite bilaterale con una grave insufficienza respiratoria ipossiemica che lo porta al ricovero in Terapia Intensiva ed alla ventilazione meccanica invasiva. Quattro giorni dopo l’intubazione, Giacomo è sveglio ed in grado di capire e di farsi capire da infermieri e medici, ha una forza muscolare ridotta, la tosse a volte sembra efficace, altre volte meno (dipende da chi la valuta). In ventilazione assistita il pH è 7.43 con PaCO2 40 mmHg e PaO2/FIO2 190 mmHg. Esegue un trial di respiro spontaneo per valutare la possibilità di estubazione: dopo 30 minuti di CPAP a 2 cmH2O, il volume corrente è circa 600 ml, la frequenza respiratoria 16/min, il pH 7.44, la PaCO2 40 mmHg ed il PaO2/FIO2 140 mmHg.

Estuberesti Giacomo?

Riprenderemo la storia di Giacomo al termine del post, ora dedichiamoci a qualche riflessione.

Al termine del trial di respiro spontaneo (che in questo caso è stato fatto con un minimo livello di CPAP) abbiamo osservano un buon pattern respiratorio ed un equilibrio acido-base normale. Rimane una moderata disfunzione polmonare, che però in una persona anziana deve essere interpretata con buon senso e che comunque può giovarsi di una ventilazione non-invasiva post-estubazione. Insomma, guardando questi dati, l’estubazione può essere una scelta ragionevole.

Esistono però segni clinici più sfumati, meno oggettivi che possono lasciare qualche dubbio. Giacomo è un anziano fragile, è astenico e la tosse non sempre (e non da tutti) viene dichiarata efficace.

La mia personale posizione è che dovremmo valutare l’espettorazione e non la tosse. L’espettorazione è anche un dato più oggettivo da rilevare: se le secrezioni arrivano all’uscita del tubo tracheale durante la tosse, l’espettorazione è certamente presente.

Queste considerazioni ci possono far venire il dubbio che Giacomo, una volta estubato, non riesca a mantenere sufficientemente pervie le vie aeree.

Abbiamo quindi due alternative: estubare il paziente dando peso ai numeri (frequenza respiratoria, volume corrente, emogasanalsi) o avviarsi verso una tracheotomia, privilegiando la valutazione di dati più qualitativi e soggettivi, come la tosse poco efficace e la debolezza muscolare.

Pragmaticamente, dovremmo chiederci: nuocerebbe di più al paziente un’estubazione fallita o una tracheotomia forse evitabile? In altri termini: è meglio una brutta estubazione o una bella tracheotomia?

Una risposta definitiva a questa domanda ovviamente non esiste, dobbiamo (per fortuna) fare i medici cercando la miglior risposta per ogni singolo paziente, basandoci sulle nostre conoscenze, sulla nostra esperienza clinica e sul contesto in cui lavoriamo.

Una cosa però è certa: la reintubazione (cioè il fallimento dell’estubazione) è un evento molto grave nella storia clinica di un paziente. Il 10-20% delle estubazioni pianificate (cioè avvenuto dopo uno svezzamento terminato con successo) finisce con una reintubazione entro le 48-72 ore successive (1). E’ un dato che fa riflettere, certamente ci dice che lo svezzamento è arte e scienza insieme, mantenendo attuale la domanda proposta da Milic-Emili in un celebre editoriale di quasi 30 anni fa (2).

La mortalità nei pazienti che vengono reintubati è tra il 25 ed il 50 %, mentre in quelli che non vengono reintubati è il 5-10 % (1). Il fallimento dell’estubazione è indipendentemente associato alla mortalità in Terapia Intensiva (3) ed il peggioramento delle disfunzioni d’organo dopo l’estubazione inizia dal giorno dopo l’estubazione nei pazienti che poi verranno intubati (4). Questi dati suggeriscono che l’estubazione fallita può di per sé determinare un aumento della mortalità.

Questi dati sono in accordo con la mia esperienza clinica: più volte ho osservato pazienti estubati che peggiorano lentamente nei giorni successivi, piano piano, senza raggiungere rapidamente una gravità tale da rendere la reintubazione tempestivamente necessaria, ma sfumando gradualmente verso la necessità di ricominciare la ventilazione invasiva. E spesso questi pazienti quando vengono reintubati sono in condizioni peggiori rispetto a quando sono stati estubati (ed a volte anche rispetto al momento della prima intubazione).

Sono stati descritti molti fattori di rischio per la reintubazione, ma l’identikit del paziente che fallisce la reintubazione è l’anziano con tosse debole ed una malattia cardiopolmonare cronica (proprio come Giacomo…) (1).

Se il fallimento dell’estubazione aumenta probabilmente il rischio di morte, quali conseguenze può avere una mancata estubazione che porta alla trachetomia? Su questo posso solo dare una mia personale opinione: non ho mai avuto la percezione che un mio paziente sia morto per effetto diretto o indiretto di una tracheotomia. In molti casi ho invece visto superare rapidamente il periodo di svezzamento dalla ventilazione meccanica dopo la tracheotomia, che poi viene rimossa quando le condizioni generali del paziente sono migliorate.

Riprendiamo la storia di Giacomo. Dopo il trial di respiro spontaneo, Giacomo è stato estubato, è stato sottoposto a 24 ore di ventilazione non-invasiva e dopo altre 24 ore è stato dimesso dalla Terapia Intensiva in un reparto subintensivo.

Ma la storia continua… In Unità di Terapia Subintensiva deve ricominciare la ventilazione non-invasiva e dopo quattro giorni fa ritorno in Terapia Intensiva con una grave insufficienza respiratoria e necessità di farmaci vasoattivi. Dopo una settimana dal nuovo ricovero esegue la tracheotomia e dopo due mesi viene finalmente (e faticosamente) dimesso in un centro di riabilitazione. Abbiamo poi saputo che non molto tempo dopo Giacomo è purtroppo deceduto.

Facciamoci ora una domanda senza risposta: e se, durante il primo ricovero in Terapia Intensiva, Giacomo fosse stato tracheotomizzato invece di essere estubato? Se si fosse quindi dato maggior peso all’età, alle comorbidità, alla debolezza muscolare, alla tosse non univocamente efficace? Pur in assenza di risposte certe, è comunque possibile ipotizzare che probabilmente avremmo avuto un rapido svezzamento dalla ventilazione artificiale, un precoce trasferimento in un centro riabilitativo con la tracheocannula e qui, probabilmente, la sua rimozione in tempi ragionevolmente brevi.

In conclusione, quando consideriamo la possibile estubazione di un soggetto anziano con comorbidità cardiorespiratorie:
– l’espettorazione deve essere valida (o la di tosse veramente efficace se le secrezioni bronchiali sono scarse)
tono e forza muscolare devono essere sufficienti (ad esempio possiamo valutare la capacità di cambiare decubito nel letto o di mantenere anche per brevi periodi la posizione seduta)
– in assenza dei suddetti criteri può essere saggio rimandare al giorno successivo una nuova valutazione per l’estubazione
– essere consapevoli che una tracheotomia riuscita è meglio di un’estubazione fallita.

Come sempre, un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

 

Bibliografia

1) Thille AW et al. The decision to extubate in the Intensive Care Unit. Am J Respir Crit Care Med 2013; 187:1294-1302
2) Milic-Emili J. Is weaning an art or a science? Am Rev Respir Dis 1986; 134:1107-8
3) Frutos-Vivar F et al. Outcome of reintubated patients after scheduled extubation. J Crit Care 2011;2 6:502-9
4) Thille AW et al. Outcomes of extubation failure in medical intensive care unit patients. Crit Care Med 2011; 39:2612-8

 

 

 

 

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ONE LUNG VENTILATION

16 mag 2015


La ventilazione monopolmonare (“one lung ventilation” o OLV) è parte integrante delle tecniche anestesiologiche nella chirurgia del polmone e dell’esofago toracico nelle quali, come nella maggior parte della chirurgia toracoscopica, sono richiesti il decubito laterale del paziente, l’apertura del torace ed il collasso del polmone “superiore” (“non dependent”) per consentire l’atto chirurgico. L’ipossia è la problematica 
di maggior rilievo durante questo tipo di ventilazione e chirurgia e si presenta in circa il 10% dei pazienti; restano ancora dibattuti quali provvedimenti siano adeguati a contrastarla (se e quanta PEEP, FiO2 uguale o inferiore a 1, reclutamenti). E’ però progressivamente cresciuta la consapevolezza che l’insorgenza d’insufficienze d’organo postoperatoria può essere correlata alla condotta intraoperatoria e prevenuta anche con l’utilizzo di bassi volumi correnti.

Ipossia e OLV

Due fenomeni sono determinanti nella genesi dell’ipossia (1)

  • lo shunt vero

  • il mismatch ventilazione/perfusione

Inoltre la posizione sul fianco (2) influisce, con l’effetto della gravità, sia sulla distribuzione del flusso sia sulla creazione di atelettasie; in particolare la posizione sul fianco consente migliore ossigenazione rispetto alla supina e di questo si deve tener conto qualora la ventilazione monopolmonare sia richiesta in posizione supina. Lo shunt vero è determinato dal fatto che il polmone non dipendente è escluso dalla ventilazione ma perfuso; è limitato dal fenomeno della vasocostrizione ipossica (HPV). Nel preoperatorio va ottimizzato il trasporto d’ossigeno e la portata cardiaca mantenuta stabile intraoperatoriamente, incrementi sovranormali della gittata possono aggravare lo shunt per riduzione della vasocostrizione ipossicae per l’apertura di ulteriori vasi in territori non perfusi. Il mismatch ventilazione/perfusione, è condizionato dal dereclutamento o dalla sovradistensione. Il dereclutamento incrementa la quota di perfusione rispetto al volume alveolare; la sovradistensione riduce la perfusione per “strizzamento” dei vasi alveolari e riduzione della perfusione di alveoli ventilati, contemporaneo incremento delle resistenze polmonari e shunt verso distretti non ventilati.

Va ormai sempre più affermandosi il concetto che volumi correnti “ridotti” (6-8 ml pro Kg di peso corporeo ideale nella ventilazione bipolmonare e 5-6 nella monopolmonare) sono in realtà fisiologici. Allo stesso modo si stanno imponendo evidenze che volumi correnti elevati sono certo efficaci nel determinare migliori ossiemie, ma sicuramente in grado di scatenare risposte infiammatorie responsabili di complicanze postoperatorie polmonari ed extrapolmonari, facendo seguito a quanto ormai acquisito per l’ARDS.

Nella produzione scientifica più recente viene quindi consigliato di utilizzare, in anestesia ed in particolare in ventilazione monopolmonare, volumi correnti bassi con PEEP adeguata e manovre di reclutamento, in associazione con FiO2 inferiori (almeno in partenza) a 1.

Tuttavia, se i principi fisiopatologici sono chiari, è difficile trovare in letteratura indicazioni chiare ed applicabili in clinica per la gestione della ventilazione monopolmonare. Quindi mi sono parsi degni d’attenzione due articoli pubblicati lo scorso anno.

Attenti a quei due… trial

Nel primo (3) 12 pazienti sono stati sottoposti in maniera sequenziale a due modalità di ventilazione, definite “convenzionale” e “open lung“, in tre fasi dell’anestesia: bipolmonare supino, monopolmonare in decubito laterale con toracotomia, riespansione del polmone dopo resezione polmonare. In entrambi i gruppi il volume corrente era di 5-6 ml/Kg e la ventilazione “open lung” era in pressione controllata con rapporti I:E di 2:1 – 4:1 facendo in modo che ogni inspirazione cominciasse quando il flusso espiratorio del respiro precedente fosse arrivato a 0 L/min.



La P di lavoro (Paw) è stata inizialmente fissata a 30 cm H20, un valore arbitrariamente selezionato per il reclutamento polmonare, e la pressione di fine espirazione (RP) è stata regolata per mantenere un Vt di 5-6 ml/kg. Dopo 2 minuti, la Paw veniva ridotta a step di 2 cm H20 e la RP regolata, a ogni livello,  per mantenere un Vt = 5-6 ml/kg.  Ad ogni livello di pressione, la Compliance statica è stata calcolata come Vt / (Paw – RP).  La Paw è stata registrata a flusso “0” (equivalente ad un plateau prolungato in VCV).  Paw e RP sono stati quindi impostati al livello che ha prodotto la maggior compliance (cioè il volume corrente desiderato con la minor differenza di pressione) del sistema respiratorio.

Le conclusioni sono abbastanza minimaliste e ci dicono che questa tecnica (open lung) studiata nella ventilazione monopolmonare ottimizza la meccanica respiratoria e migliora gli scambi gassosi.

Nel secondo lavoro (4) trenta pazienti sono stati randomizzati in due gruppi, ventilati con 8 ml/Kg e poi con 5-7 in monopolmonare: entrambi ricevevano una manovra di reclutamento all’inizio e alla fine della ventilazione monopolmonare. Il gruppo di controllo veniva ventilato con PEEP = 5 cmH2O mentre quello di studio con una PEEP personalizzata grazie ad un trial decrementale. In particolare veniva impostata una ventilazione a pressione controllata con 20 cm H2O e PEEP = 5 incrementata di 5 cm H2O alla volta ogni dieci respiri fino a 20: una volta raggiunto il valore di 40 cmH2O (20 di PCV + 20 di PEEP) questa veniva mantenuta per 40 secondi. A questo punto veniva ridotta la PEEP di 2 cmH2O alla volta ogni due minuti, fino a ottenere la miglior Compliance (dinamica). Quindi dopo una nuova manovra di reclutamento, si ventilavano i pazienti in volume controllato con la miglior PEEP individuata.


Gli Autori concludono che, durante la ventilazione monopolmonare, il miglioramento dell’ossigenazione dopo reclutamento è meglio mantenuto dall’impiego di una PEEP individualizzata rispetto ad una PEEP standard.

Quindi quali outcome, in entrambi gli studi, variazioni di parametri fisiopatologici e nessuna incidenza di complicanze, mortalità e quant’altro!

Cosa possiamo imparare?

I due trial utilizzano metodiche di ventilazione tra loro diverse, uno anche poco usuali in anestesia come i rapporti invertiti, e caratterizzate dall’uso combinato di più provvedimenti (reclutamenti, PEEP e misura della compliance) e questo può rendere difficile identificare l’efficacia dei singoli fattori. Finora l’applicazione di una PEEP standard, nei vari trial su pazienti in anestesia e non solo in ventilazione monopolmonare, ha dato risultati imprevedibili in termini di ossigenazione. I due trial raggiungono risultati “limitati” ma sono interessanti per il metodo che possono insegnarci e cui possiamo approcciarci con senso critico. Ritengo infatti che l’approccio proposto, basato sulla ricerca della miglior compliance e personalizzazione della PEEP, abbia l’innegabile vantaggio di:

  • minimizzare il mismatch evitando il dereclutamento o la sovradistensione del polmone

  • lasciarci scegliere, solo a questo punto, quanta FiO2 è necessaria per ottenere la PaO2 desiderata

Confermano inoltre la mia esperienza che non è vero che più è grave l’ipossiemia maggiore deve essere la PEEP.

L’uso dei reclutamenti si è dimostrato utile in alcune categorie di pazienti in anestesia (obesi, laparoscopia) ma non mi sento di consigliarla come manovra routinaria. Diverso è il caso del paziente gravemente ipossico e che necessita di alte FiO2, come può accadere nella ventilazione monopolmonare.

Per quanto riguarda la prevenzione delle insufficienze d’organo postoperatorie c’è ormai consenso sull’impiego di volumi correnti “fisiologici”. Pur non potendo traslare acriticamente le pratiche adottate in terapia intensiva, è anche vero che, nei pazienti critici, la personalizzazione della PEEP (5) e l’impostazione della ventilazione ricercando la migliore compliance (6) hanno dato risultati favorevoli in termini di insufficienze d’organo e di outcome e che questa potrebbe essere una pratica anestesiologica altrettanto efficace in pazienti chirurgici ad alto rischio, per esempio quelli sottoposti a ventilazione monopolmonare.

Un saluto a tutti gli amici di Ventilab.

Bibliografia

  1. Levin AI et al.Arterial oxygenation and one-lung anesthesia. Curr Opin Anaesthesiol 2008, 21:28–36

  2. Szegedi LL et al. Gravity is an important determinant of oxygenation during one-lung ventilation.Acta Anaesthesiol Scand 2010; 54: 744–750

  3. Downs JB et al. Open lung ventilation optimizes pulmonary function during lung surgery. journal of surgical research 2014; 192:242-49

  4. Carlos Ferrando et al. Setting Individualized Positive End-Expiratory Pressure Level with a Positive End-Expiratory Pressure Decrement Trial After a Recruitment Maneuver Improves Oxygenation and Lung Mechanics During One-Lung Ventilation. Anesth Analg 2014;118:657–65

  5. Villar J et. A high positive end-expiratory positive pressure, low tidal volume ventilatory strategy improve uotcome in persistent acute respiratory distress syndrome: A randomized, controlled trial. Crit Care Med 2006; 34:1311-1318.

  6. Amato M. et al. Driving Pressure and Survival in the Acute Respiratory Distress Syndrome.N Engl J Med 2015;372:747-55.

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Pressione venosa centrale: dalla fisiologia alla clinica.

3 mag 2015


“Perché il precarico si può misurare tramite la pressione venosa centrale?”: questa è la domanda finale che mi ha posto, dopo una serie di ben circostanziate considerazioni, Lorenzo, uno studente in Infermieristica di Roma.

La domanda di Lorenzo è tutt’altro che banale: spesso infatti la curva di funzione cardiaca di Frank-Starling ha sull’asse orizzontale indifferentemente la pressione venosa centrale o il volume di fine diastole (figura 1). Sembrerebbe quindi che il precarico possa essere effettivamente espresso allo stesso modo da pressione e volume. E’ proprio così?



Figura 1.

Nel post di oggi cercherò di dare una risposta a questa domanda e di affrontare alcune implicazioni cliniche della pressione venosa centrale, una delle variabili fisiologiche più usate ed abusate nella cura dei pazienti critici.

La pressione venosa centrale.



Figura 2.

La pressione venosa centrale è la pressione dell’atrio destro, struttura in cui affluisce tutta la circolazione venosa sistemica. Durante la diastole la valvola tricuspide rimane aperta ed il sangue può fluire liberamente dall’atrio al ventricolo destro che quindi, in questa fase del ciclo cardiaco, si comportano come un’unica cavità (figura 2). Durante la diastole atrio e ventricolo destro hanno pressioni simili tra loro, che diventano esattamente uguali alla fine della diastole (area azzurra nella figura 3).



Figura 3.

Quindi la pressione venosa centrale ci dà informazioni sulla pressione in atrio destro e sulla pressione del ventricolo destro al termine della diastole.

La pressione transmurale atriale destra.

La pressione venosa centrale è la somma di due pressioni: 1) la pressione che il sangue esercita sulle pareti interne di atrio e ventricolo (la pressione che distende le cavità cardiache) e 2) la pressione che agisce sulle pareti esterne di atrio e ventricolo, determinata dalla pressione pleurica e pericardica (la pressione che comprime le cavità cardiache).

La pressione esterna al cuore può avere un ruolo importante nel determinare la pressione venosa centrale. Pensiamo ad esempio ad un paziente con tamponamento cardiaco: la pressione venosa centrale aumenta per l’effetto della pressione che comprime il cuore dall’esterno. In questo caso il volume del ventricolo destro (RV) sarà chiaramente ridotto pur in presenza di una elevata pressione venosa centrale (figura 4).



Figura 4.

Una situazione analoga è riscontrabile durante la ventilazione a pressione positiva. L’aumento della pressione intratoracica determina un aumento della pressione venosa centrale associato alla riduzione del volume delle cavità cardiache di destra. Ad esempio nella figura 5 si può osservare che la dimensione delle camere cardiache (valutata alla RMN) si riduce di circa il 20% passando da 0 a 10 cmH2O di pressione delle vie aeree e di un altro 20% passando da 10 a 20 cmH2O (Am J Physiol Heart Circ Physiol 2013; 305: H1004 –H1009).



Figura 5.

Abbiamo visto come sia inaffidabile relazione tra pressione venosa centrale e volume cardiaco, soprattutto nei pazienti sottoposti a ventilazione a pressione positiva. E’ evidente che l’unica pressione che ha una qualche relazione diretta con il volume cardiaco è quella che prima abbiamo definito la pressione che distende il cuore e che in fisiologia è definita pressione transmurale.

Da un punto di vista matematico è molto semplice calcolare la pressione transmurale: si deve fare la differenza tra la pressione venosa centrale e la pressione esterna all’atrio. Se ad esempio avessimo una pressione venosa centrale di 15 cmH2O ed una pressione esterna all’atrio destro di 10 cmH2O, la pressione transmurale sarebbe di 5 cmH2O.

Il calcolo della pressione transmurale è semplice, è però difficile stimare la pressione esterna all’atrio destro. Infatti potrebbe essere un valore assimilabile alla pressione pleurica, ma sappiamo che la pressione pericardica non è uguale alla pressione pleurica, ed in alcuni casi può essere molto diversa da questa (come ad esempio nel tamponamento cardiaco). In assenza di malattie pericardiche, potrebbe comunque essere forse un’approssimazione clinicamente accettabile assumere la pressione pleurica come stima della pressione esterna al cuore. La pressione pleurica può a sua volta essere approssimata alla pressione esofagea. Di approssimazione in approssimazione potremmo quindi arrivare a conoscere la pressione transmurale dell’atrio destro.

Il precarico.



Figura 6.

Il precarico (preload) di un muscolo striato è definito come il carico ad esso applicato prima della contrazione (figura 6). La conseguenza del precarico è l’allungamento della fibra muscolare prima dell’inizio della sua contrazione. Per semplificare possiamo dire che il precarico è rappresentato dalla lunghezza della fibra muscolare a riposo.

Sappiamo bene che, per fenomeni di tensione passiva e allineamento miofibrillare ben descritti nei libri fisiologia, la tensione sviluppata da una fibra muscolare striata durante la contrazione è funzione della sua lunghezza iniziale: tanto più è allungata una fibra muscolare prima di contrarsi, tanta più forza essa sviluppa durante la contrazione (figura 7) (come si può vedere nella figura questo non è più vero quando la fibra muscolare supera la sua lunghezza ottimale).



Figura 7.

Applichiamo questi concetti al muscolo cardiaco. La lunghezza delle fibre muscolari cardiache prima dell’inizio della loro contrazione è proporzionale al volume cardiaco a fine diastole, che quindi rappresenta la stima più accurata del precarico: più è grande il volume del ventricolo, maggiore è la lunghezza delle fibre muscolari nella sua parete. Di conseguenza più è grande il ventricolo alla fine della diastole (=maggiore è il precarico), maggiore è la forza da esso sviluppata durante la sistole e quindi maggiore la gittata sistolica (stroke volume) (figura 1).

Precarico, pressione venosa centrale e pressione transmurale dell’atrio destro.

Veniamo ora alla domanda di Lorenzo: è giusto descrivere il precarico con la pressione venosa centrale?

La pressione venosa centrale non dice nulla sul precarico perché, come abbiamo visto in precedenza, non rappresenta la pressione transmurale dell’atrio destro (in particolare nei pazienti critici sottoposti a ventilazione meccanica).

Ma se anche avessimo la possibilità di stimare la pressione transmurale, non sapremmo se nel paziente che stiamo osservando questa corrisponde ad un volume cardiaco normale, basso o elevato. Questo perché non ne conosciamo la compliance cardiaca. Nella figura 8 sono schematizzate tre diverse compliance (le curve nera e rosse): allo stesso volume di fine diastole (EDV), che potrebbe essere quello fisiologico, in relazione alle diverse compliance corrispondono pressioni telediastoliche (EDP) completamente diverse: da pochi mmHg a più di 30 mmHg.



Figura 8.

Questo vuol dire che quando vediamo una pressione di 10 mmHg (la seconda linea verde orizzontale tratteggiata) potremmo avere un volume cardiaco molto basso (se la compliance è ridotta) o molto alto (se la compliance è aumentata).

Nonostante questo, in molti studi fisiologici (anche di importanza fondamentale) le modificazioni della pressione venosa centrale sono state assimilate alle variazioni del precarico del ventricolo destro. Erano forse Starling e Guyton dei fisiologi superficiali? Ma se lo hanno fatto loro, allora possiamo fare anche noi la stessa equivalenza tra precarico e pressione venosa centrale anche nella pratica clinica, considerando il fatto che anche autorevoli linee guida suggeriscono la somministrazione di fluidi finalizzata al raggiungimento di un certo valore di pressione venosa centrale (sigh…).



Figura 9.

Ricordiamo innanzitutto che spesso negli studi fisiologici classici, come ad esempio quello di Starling del 1914 (figura 9), è stata misurata la pressione in atrio destro in cuori isolati, cioè al di fuori del torace. In questo caso la pressione venosa centrale è evidentemente uguale alla pressione transmurale dal momento che non vi è alcuna pressione esterna al cuore (oltre a quella atmosferica).

Consideriamo come di solito procedono questi studi fisiologici: si prende un cuore e si fa variare con alcuni espedienti la sua pressione di riempimento (in questo caso ci si può accontentare della pressione venosa centrale, se rimane costante la pressione esterna al cuore). E’ evidente che in quel cuore e in quel momento ad una pressione venosa centrale più elevata corrisponderà (entro certi limiti) un volume ventricolare destro a fine diastole più elevato: indipendentemente dalla compliance, nello stesso soggetto un aumento di pressione è associato ad un aumento di volume (seppur di entità imprecisata).

Se leggiamo correttamente il grafico in figura 1 (tipico prodotto di questo tipo di esperimenti), possiamo affermare che il progressivo aumento della pressione venosa centrale, corrispondendo in quel cuore ad un dato aumento di volume cardiaco, produrrà un aumento di stroke volume.

Ma quel grafico non ci dice che un valore di pressione venosa centrale è meglio di un altro. Tu, come la maggior parte delle persone che stanno leggendo questo post, hai una pressione venosa centrale di circa 0 mmHg. E probabilmente stai molto bene. Se io ti volessi aumentare la pressione venosa centrale, ad esempio, a 8 mmHg (sigh…) dovrei faticare un sacco per farti stare peggio di come stai ora. In altre parole, il concetto espresso dalla relazione in figura 1 dice solamente che entro certi limiti la portata cardiaca varia proporzionalmente al precarico. La sua trasposizione clinica corretta è che in alcuni soggetti con una bassa portata cardiaca, questa potrebbe essere aumentata con l’aumento del precarico. Nulla di più, nulla di meno, nessun numero magico di pressione venosa centrale, nessun valore sensato da poter mettere sull’asse della pressione venosa centrale.

La curva di Frank-Starling in figura 1 non ci dice che quale sia il valore ottimale di precarico nè in termini di pressione e nemmeno in termini di volume. Anche perchè, prima del precarico, dovremmo definire quale è il livello ottimale di portata cardiaca (che, di norma, non è certo quello più elevato che il paziente possa raggiungere!)… Insomma, visto che non possiamo dire quale sia il precarico “giusto”, perchè continuare a scervellarci con gli indici di precarico (volumetrici o pressometrici che siano?)

Il valore clinico della pressione venosa centrale.

Dopo quanto detto potrebbe sembrare che la pressione venosa centrale abbia una scarsa utilità clinica. Invece la pressione venosa centrale è certamente utile quando la utilizziamo per quello che è: il valore assoluto della pressione in atrio destro. E questa è una pressione importantissima che è opportuno conoscere nei pazienti critici.

Infatti dobbiamo essere consapevoli che una elevata pressione venosa centrale (ad esempio > 10 mmHg) è da evitare (quando non è inevitabile…). Infatti un elevato valore di pressione venosa centrale (indipendentemente dalla pressione transmurale e dal precarico) può essere di per sé un problema. Se la pressione venosa centrale è elevata, la pressione nel sistema venoso periferico deve essere ancor più elevata per consentire al ritorno venoso di fluire, per differenza di pressione, verso l’atrio destro. Ed a sua volta le pressioni nel circolo capillare devono essere ancor più elevate delle pressioni venose in cui il sangue capillare si scarica. Ne consegue che l’aumento della pressione idrostatica capillare sbilancia le forze descritte nell’equazione di Starling (figura 10) verso la formazione di edema tissutale e conseguente ipossia cellulare (vedi post del 13/11/2011).



Figura 10.

Quindi il nostro obiettivo clinico dovrebbe essere volto principalmente alla maggior riduzione possibile della pressione venosa centrale fino al punto in cui questo non pregiudichi una sufficiente perfusione tissutale. (ricorda che tu in questo momento hai una pressione venosa centrale vicina a 0 mmHg e stai bene)

Inoltre il riscontro di elevati valori di pressione venosa centrale deve indirizzarci verso un ragionato processo di diagnosi differenziale. Riprendendo i concetti prima esposti, dobbiamo valutare se la causa sia una compressione dall’esterno del cuore destro (versamento pericardico? elevata pressione intratoracica?), ridotta funzione del cuore di destra (infarto destro? miocardiopatia?), aumento del post-carico del ventricolo destro (ipertensione polmonare?), riduzione della compliance ventricolare (disfunzione diastolica), elevato precarico (sovraccarico di fluidi o disfunzione ventricolare?), valvulopatia (insufficienza tricuspidale? stenosi polmonare?).

Quando la pressione venosa centrale non è alta, essa non è di per sé un problema, non crea alcun ostacolo al ritorno venoso. In caso di shock bisogna valutare se l’aumento di pressione venosa centrale, che può essere ottenuto con la somministrazione di fluidi o di vasocostrittore (vedi post del 30/04/2013), si associ ad un miglioramento della portata cardiaca e della perfusione periferica.

A mio modo di vedere, la principale implicazione terapeutica della pressione venosa centrale è quella di guidare nello “svuotamento” del paziente, compatibilmente con una adeguata perfusione tissutale, piuttosto che nel “riempimento“, strategia veramente priva di qualsiasi razionale fisiologico ed evidenza clinica.

Conclusioni.

Tirando le somme alla fine di questo lunghissimo post, penso che due concetti siano sufficienti per utilizzare correttamente la pressione venosa centrale:

1) conoscere la pressione venosa centrale non ci può dire nulla sul precarico di un paziente e sulla sua necessità di aumentarlo: quindi non è utilizzabile come “indice di riempimento

2) la pressione venosa centrale diventa un problema di per sé quando è elevata perché condiziona la formazione di edema. In questo caso dobbiamo, dopo aver ricercato le cause del suo aumento, fare di tutto per ridurla il più possibile, compatibilmente con il mantenimento di un’adeguata portata cardiaca e perfusione tissutale. Possiamo quindi vedere la pressione venosa centrale come un “indice di svuotamento”.

Come sempre, un sorriso 🙂 a tutti gli amici di ventilab.

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