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Alcalosi respiratoria e acidosi respiratoria nei pazienti con ventilazione meccanica: quando trattarle e quando accettarle.

31 lug 2021

La ventilazione meccanica deve evitare acidosi respiratoria o alcalosi respiratoria?

Come spesso avviene in medicina (e nella vita…), la risposta a questa domanda non può esaurirsi con un semplice “sì” o “no” ma richiede un approccio un po’ più articolato. La risposta è infatti diversa in caso di acidosi o alcalosi e se la ventilazione meccanica è controllata o assistita.

Anticipo le conclusioni nella figura 1, che poi cercherò di motivare.


Figura 1


In questo post per acidosi ed alcalosi intendiamo disturbi non compensati dell'equilibrio acido base, quindi di condizioni con pH < 7.35 (acidemia) o pH > 7.45 (alcalemia).

Ricordiamo che la ventilazione meccanica si definisce controllata quando il paziente non contribuisce in alcun modo alla ventilazione: la frequenza respiratoria rilevata è uguale a quella impostata, non vi sono segni di trigger inspiratorio né di attività inspiratoria durante l'inspirazione. La ventilazione si definisce invece assistita quando invece almeno la frequenza respiratoria dipende dal paziente: in questo caso si vede l’attivazione del trigger inspiratorio e la frequenza respiratoria è superiore a quella impostata.

Iniziamo ad esaminare i 4 casi sintetizzati nella tabella in figura 1.

ALCALOSI RESPIRATORIA CON VENTILAZIONE CONTROLLATA

E’ in assoluto il caso più semplice da capire e risolvere. L'ipocapnia alla base dell'alcalosi respiratoria è conseguenza unicamente della ventilazione meccanica ed il paziente ne subisce passivamente gli effetti deleteri: vasocostrizione nella circolazione sistemica e riduzione della cessione di ossigeno ai tessuti per spostamento a sinistra della curva di dissociazione dell'emoglobina (figura 2).


Figura 2

La conseguenza può essere ischemia ed ipossia tissutale, particolarmente temibile a livello cerebrale e miocardico.

Questa alcalosi respiratoria deve essere evitata ed è facile farlo: è sufficiente limitare il volume corrente a 6-8 ml/kg di peso ideale e, se nonostante ciò persiste l’ipocapnia, ridurre la frequenza respiratoria quanto basta per rientrare in un range accettabile di pH e PaCO2 accettabile (ad esempio PaCO2 > 30 mmHg e pH < 7.5).

ALCALOSI RESPIRATORIA CON VENTILAZIONE ASSISTITA

In questa condizione l'ipocapnia è una conseguenza dell'aumentata attività dei centri respiratori (figura 3).

Figura 3

L'eventuale modificazione della ventilazione meccanica non potrà risolvere il problema: la riduzione del supporto inspiratorio (o, peggio ancora, la riduzione della sensibilità del trigger inspiratorio) non fa altro che aumentare lo sforzo inspiratorio che il paziente deve generare per mantenere il livello di ventilazione che i centri respiratori comandano. Se la riduzione dell'assistenza inspiratoria dovesse diminuire la ventilazione ed aumentare la
PaCO2, sarebbe segno che i muscoli respiratori, non più adeguatamente assistiti, si sono affaticati ed arresi. In altre parole, la PaCO2 aumenterà solo quando il paziente sarà stremato dallo sforzo di respirare.
L’unica arma sensata per aumentare la
PaCO2 in un paziente con alcalosi respiratoria in ventilazione assistita è ridurre farmacologicamente l’attività dei centri del respiro con la sedazione.

Ma vale la pena farlo? Spesso no, e cerchiamo di capire il perchè.

Uno dei più temibili effetti negativi dell’ipocapnia è la vasocostrizione cerebrale, che però non dovrebbe essere un problema in ventilazione assistita.

L'acidità del pH liquorale è il principale stimolante dei centri del respiro, e quindi la causa prima di iperventilazione ed ipocapnia.  Esistono anche altri stimoli dei centri del respiro, sia corticali che periferici, ma di norma sono secondari rispetto all’importanza che ha la concentrazione di liquorale H+

Possiamo ragionevolmente pensare che un soggetto ipocapnico in ventilazione assistita abbia acidosi liquorale (quindi una elevata concentrazione di H+) che stimola i centri respiratori e l'ipocapnia del sangue arterioso sia la conseguenza dell'iperventilazione. La presenza di acidosi liquorale è un ottimo antidoto contro la vasocostrizione cerebrale che invece è indotta da una condizione opposta, cioè l'alcalosi liquorale (bassa concentrazione di H+ liquorale).

L’acidosi liquorale è frequente nella patologie cerebrali infiammatorie, emorragiche ed ischemiche, che sono proprio quelle condizioni in cui di solito si osserva l’alcalosi respiratoria in ventilazione assistita. 

L'assenza di vasocostrizione cerebrale può essere confermata da una semplice valutazione neurologica: la presenza di una buona vigilanza o addirittura di contenuti di coscienza dovrebbero escludere una significativa ipoperfusione cerebrale.

Dobbiamo però essere consapevoli che l'alcalosi respiratoria nel sangue arterioso, pur probabilmente senza effetti deleteri a livello cerebrale, mantiene i propri effetti indesiderati sistemici extracerebrali, indipendentemente dal pH liquorale. Potrebbe essere una condizione sfavorevole in pazienti a rischio di ipoperfusione coronarica oppure in caso di segni di ipossia tissutale. Possiamo pertanto tollerare l’ipocapnia e l'alcalosi respiratoria nei pazienti in ventilazione assistita se sono assenti rischi di ipoperfusione del miocardio o di altri organi o tessuti.


ACIDOSI RESPIRATORIA CON VENTILAZIONE CONTROLLATA

Nei casi di acidosi respiratoria con ventilazione controllata possiamo aumentare la ventilazione minuto a patto che non esponga al rischio di ventilator-induced lung injury, ad esempio mantenendo la driving pressure inferiore a 15 cmH2O e lo stress index attorno a 1 (vedi post del 28/02/2015).

Se questo non fosse possibile possiamo accettare l'ipercapnia, che ha molti effetti fisiologici favorevoli, come ad esempio l'aumento della portata cardiaca, del trasporto di ossigeno e della cessione di ossigeno ai tessuti (spostamento a destra della curva di dissociazione dell’emoglobina). 

Per questi effetti l'acidosi respiratoria è solitamente ben tollerata dal punto di vista fisiopatologico, sicuramente molto meglio dell’ipocapnia.


ACIDOSI RESPIRATORIA CON VENTILAZIONE ASSISTITA

L'acidosi respiratoria con ventilazione assistita deve sempre essere evitata, perchè segno di un insufficiente supporto inspiratorio per muscoli respiratori deboli o affaticati

Questo è vero anche quando è presente una PaCO2 fisiologica (intorno a 40 mmHg) in presenza di acidosi: non è normale avere una PaCO2 normale quando vi è un’acidosi e quindi anche questa condizione va vista come segno di fatica o debolezza dei muscoli respiratori.

In questi casi la soluzione è semplice: aumentare il supporto inspiratorio e, se questo non risolvesse l'acidosi respiratoria, iniziare una ventilazione controllata per mettere temporaneamente a riposo i muscoli respiratori.

Conclusione.

Acidosi respiratoria ed alcalosi respiratoria possono essere tollerabili o meno in funzione del fatto che si manifestino durante ventilazione controllata o assistita.

In corso di ventilazione controllata non è accettabile l’alcalosi respiratoria mentre in corso di ventilazione assistita non è accettabile l'acidosi respiratoria.

Al contrario l’ipocapnia in ventilazione assistita e l’ipercapnia in ventilazione controllata possono essere accettabili dopo averne valutato l’impatto su altri organi e parenchimi.

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab e buona vacanza!





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Spazio morto, Ventilazione Minuto corretta e Ventilatory Ratio.

31 mar 2021


L’incremento dello spazio morto riduce la ventilazione alveolare in assenza di un adeguato incremento della ventilazione minuto. Quando questo accade, aumenta la
PaCO2. L’ipercapnia però non è causata solamente dall’aumento dello spazio morto, ma può anche essere secondaria ad una riduzione della ventilazione minuto (vedi anche il post del 17/02/2018).
Il post di oggi mette a fuoco questa articolata relazione tra spazio morto, ipoventilazione ed ipercapnia e propone due semplici surrogati di spazio morto (Ventilazione Minuto corretta e Ventilatory Ratio).

 

Ventilazione minuto, ventilazione alveolare, spazio morto e PaCO2.

Siamo abituati a misurare la ventilazione del paziente come ventilazione minuto (VE), ossia il prodotto tra volume corrente (VT) e frequenza respiratoria (FR), che quantifica quanti litri di aria entrano ed escono nelle vie aeree in 1 minuto. Un soggetto sano, come ci insegna la fisiologia, inspira un VT circa 0.5 L circa 12 volte al minuto. Questo significa che la sua VE è 6 L/min.
La
PaCO2 dipende da quella parte di VE che definiamo ventilazione alveolare (VA). La ventilazione dello spazio morto (VD) è la differenza tra VE e VA, ossia di quella parte di VE che non partecipa allo scambio gassoso. In fisiologia lo spazio morto si identifica solamente con il volume di aria che si ferma nelle vie aeree (spazio morto anatomico), circa 150 mL.



 

La VA è quindi calcolata come:

VA = (VT - VD) ∙ FR

In un soggetto maschio sano, che chiameremo con originalità Mario Rossi, utilizzando i suddetti dati possiamo calcolare la VA:
VA = (0.5 L - 0.15 L) ∙ 12/min = 4,2 L/min.
La
PaCO2 è inversamente proporzionale alla VA:

PaCO2 ~ 1/VA

e Mario Rossi ha la sua normale PaCO2 di 40 mmHg con una VA di 4,2 L/min, che corrisponde ad una VE di 6 L/min.

L’ipoventilazione.


Le formule precedenti ci dicono che se Mario Rossi dimezza la frequenza respiratoria (da 12 a 6/min), la VA diventà la metà, e pertanto raddoppia la
PaCO2 a 80 mmHg.

E’ una condizione facilissima da gestire: per tornare ad una PaCO2 di 40 mmHg è sufficiente iniziare la ventilazione meccanica, impostando una frequenza respiratoria di 12/min ed un volume corrente di 500 mL, cosa che tutti gli anestesisti fanno ogni volta in cui inducono una anestesia generale.
L’ipoventilazione è l’ultimo dei problemi per chi sa gestire la ventilazione meccanica, a meno che non riesca ad intubare o le vie aeree siano ostruite…

Lo spazio morto.

Ipotizziamo che a Mario Rossi venga una ARDS e sia ventilato con volume corrente di 430 ml e frequenza respiratoria 28/min. Con questa impostazione la VE è 12 L/min (il doppio del normale) e, se lo spazio morto rimanesse a 150 ml, la VA sarebbe 7.8 L/min (quasi il doppio del normale) e la PaCO2 di conseguenza sarebbe quasi la metà del normale (poco più di 20 mmHg).
Ma sappiamo bene che la realtà è ben diversa: quando Mario Rossi ha una ARDS, potrebbe essere ipercapnico nonostante l’incremento di VA e VE.

Nella ARDS aumenta lo spazio morto alveolare (che è trascurabile in fisiologia), che rappresenta quel volume d’aria che non partecipa allo scambio gassoso pur essendo negli alveoli. Lo spazio morto alveolare si genera se esistono superfici alveolari che non ricevono la perfusione dei capillari polmonari oppure se i polmoni sono caratterizzati da aumento ed eterogeneità del rapporto ventilazione/perfusione. Nella ARDS lo spazio morto fisiologico, cioè la somma di spazio morto anatomico ed alveolare, può anche arrivare al 80% del volume corrente. Con questo valore si spazio morto, è possibile calcolare che nel nostro Mario Rossi vi sia una PaCO2 di 70 mmHg nonostante l’iperventilazione.
A differenza della condizione di ipoventilazione, l’ipercapnia dovuta ad incremento dello spazio morto è particolarmente difficile da risolvere, perché richiederebbe un notevole incremento della VE, attraverso l’aumento di volume corrente e frequenza respiratoria, scelte che rischiano di facilitare il Ventilator-Induced Lung Injury: un correttivo ben peggiore del problema (presunto) che si vuole risolvere.
In questo caso è meglio accettare l’ipercapnia, che è un marker di gravità più che un problema, ed aspettare che si risolva seguendo la guarigione del paziente.

I surrogati dello spazio morto.

Lo spazio morto è la variabile maggiormente associata alla mortalità nei pazienti con ARDS. Conoscerlo può avere un valore prognostico, può consentire di comprendere correttamente il significato di iperventilazione ed ipercapnia, può essere utile nel valutare l’evoluzione della ARDS quando variano sia la VE che il valore di PaCO2. Lo spazio morto, nella valutazione dei pazienti con ARDS, dovrebbe perlomeno affiancare il ben noto PaO2/FIO2, che come sappiamo è soggetto a molte limitazioni (vedi post del 29/01/2017).

Il calcolo dello spazio morto richiede però la misurazione della  pressione parziale media di CO2 nell’espirato, dato che spesso non è disponibile perchè richiede strumenti appropriati come capnometria volumetrica o calorimetria indiretta.
Abbiamo però la possibilità di utilizzare due surrogati della misura dello spazio morto: VE corretta (VEcorr) e Ventilatory Ratio. Pur avendo entrambi questi indici il limite di utilizzare il VE come indicatore di VA (abbiamo visto che non è la stessa cosa), si sono dimostrati associati alla prognosi nei pazienti con ARDS, similmente allo spazio morto. Possono pertanto essere utili surrogati dello spazio morto nella pratica clinica.

La ventilazione minuto corretta (VEcorr).

La VEcorr indica quanto dovrebbe essere la VE per ottenere la normocapnia.
E’ molto facile da calcolare:

VEcorr = VE PaCO2/(PaCO2 fisiologica),

dove la PaCO2 fisiologica è stimata in 40 mmHg.
Se un soggetto è normocapnico, VE e
VEcorr coincidono.
Calcoliamo ora la
VEcorr di Mario Rossi quando ipoventila e quando ha l’ARDS, come descritto nei due esempi precedenti.
Quando Mario Rossi ipoventila:

VEcorr = 3 L/min 80 mmHg/40 mmHg = 6 L/min

In questo esempio la VEcorr è uguale al VE "da libro di fisiologia", e possiamo concludere che lo spazio morto è assente. Una buona notizia per il paziente (basso spazio morto si associa a minore probabilità di morte) ed una condizione molto facile da correggere.
Nei pazienti con ARDS, la
VEcorr si associa ad incremento di mortalità quando è superiore a 13 L/min. 

Calcoliamo VEcorr nel nostro Mario Rossi con l’ARDS:

VEcorr = 12 L/min 70 mmHg/40 mmHg = 21 L/min

Questo significa che Mario Rossi dovrebbe avere una VE di 21 L/min per ottenere una PaCO2 di 40 mmHg: un valore elevatissimo che è indice di un grave aumento dello spazio morto. Una cattiva notizia per Mario Rossi ed una condizione che ci deve indurre a tollerare l’ipercapnia come male minore rispetto ad un’escalation della ventilazione.

Ventilatory Ratio.

Il Ventilatory Ratio indica di quante volte deve essere aumentata la VE, rispetto al valore ideale, per ottenere la normocapnia. A differenza di VEcorr, il Ventilatory Ratio è un numero adimensionale che tiene conto anche del livello di VE ideale, che a sua volta dipende dall’altezza del paziente. Si ritiene che il VE ideale sia 0.1 L/min per kg di peso ideale. Una persona di bassa statura, con peso ideale di 48 Kg, ha un VE ideale di 4.8 L/min, ben diverso dagli 8 L/min che rappresentano il VE ideale di persona alta 185 cm e peso ideale di 80 kg.
Il Ventilatory Ratio si calcola come:

Ventilatory Ratio = VE/(VE ideale) PaCO2/(PaCO2 ideale).

Come detto sopra il VE ideale è calcolato come 0.1 L/min per kg di peso ideale e la PaCO2 ideale è stimata in 37.5 mmHg.
Nel caso di Mario Rossi, che ha un peso ideale di 70 kg, il Ventilatory Ratio quando ipoventila è:

Ventilatory Ratio = 3 L/min / 7 L/min 80 mmHg/ 37.5 mmHg = 0.9.

Ciò significa che Mario Rossi necessita di una VE pari alla 0.9 volte la VE ideale per mantenere la PaCO2 a 37.5 mmHg. Valori di Ventilatory Ratio vicini a 1 indicano l’assenza o la scarsa rilevanza di spazio morto: la VE “ideale” è sufficiente a mantenere la normocapnia, come in fisiologia.
Quando invece invece Mario Rossi ha l’ARDS, il Ventilatory ratio è:

Ventilatory Ratio = 12 L/min / 7 L/min 70 mmHg/37.5 mmHg = 3.2.

In altre parole, in questa condizione Mario Rossi ha bisogno di più del triplo della VE ideale per mantenere la normocapnia, segno di un grave aumento di spazio morto.
Un valore di Ventilatory Ratio superiore a 2 si associa ad incremento del rischio di morte nei pazienti con ARDS.

Conclusioni.

Riassumiamo i punti principali del post:

  • L’ipercapnia ha un significato clinico ben diverso se secondaria a riduzione della ventilazione minuto o ad aumento dello spazio morto;
  • L’ipercapnia secondaria a riduzione della ventilazione minuto è facile da correggere con la ventilazione meccanica; la correzione dell'ipercapnia secondaria ad aumento dello spazio morto può invece essere pericolosa per il paziente, perchè può portare ad una ventilazione non protettiva;
  • La valutazione dello spazio morto è utile nei pazienti con ARDS a fini prognostici e clinici;
  • Nella pratica clinica Ventilazione Minuto corretta e Ventilatory Ratio sono dei surrogati appropriati di spazio morto ottenibili in qualsiasi Terapia Intensiva.
 

 Come sempre, un sorriso a tutti gli amici di ventilab.


Bibliografia:

Fisiopatologia dello spazio morto:

 - Robertson HT. Dead space: the physiology of wasted ventilation. Eur Respir J 2015;45:1704–1716.

Associazione spazio morto-mortalità nella ARDS:

- Nuckton TJ, Pittet J-F, Kallet R, Daniel BM, Pittet J-F, Eisner M, Matthay MA. Pulmonary Dead-Space Fraction as a Risk Factor for Death in the Acute Respiratory Distress Syndrome. N Engl J Med 2002;346:1281–1286.

- Cepkova M, Kapur V, Ren X, Quinn T, Zhuo H, Foster E, Liu KD, Matthay MA. Pulmonary Dead Space Fraction and Pulmonary Artery Systolic Pressure as Early Predictors of Clinical Outcome in Acute Lung Injury. Chest 2007;132:836–842.

- Kallet RH, Zhuo H, Liu KD, Calfee CS, Matthay MA, on behalf of the National Heart Lung and Blood Institute ARDS Network Investigators. The Association Between Physiologic Dead-Space Fraction and Mortality in Subjects With ARDS Enrolled in a Prospective Multi-Center Clinical Trial. Respiratory Care 2014;59:1611–1618.

Associazione
VEcorr/Ventilatory ratio e mortalità nella ARDS:

- Sinha P, Singh S, Hardman JG, Bersten AD, Soni N. Evaluation of the physiological properties of ventilatory ratio in a computational cardiopulmonary model and its clinical application in an acute respiratory distress syndrome population. Br J Anaesth 2014;112:96–101.

- Sinha P, Calfee CS, Beitler JR, Soni N, Ho K, Matthay MA, Kallet RH. Physiologic Analysis and Clinical Performance of the Ventilatory Ratio in Acute Respiratory Distress Syndrome. Am J Respir Crit Care Med 2019;199:333–341.

- Fusina F, Albani F, Bertelli M, Cavallo E, Crisci S, Caserta R, Nguyen M, Grazioli M, Schivalocchi V, Rosano A, Natalini G. Corrected Minute Ventilation Is Associated With Mortality in ARDS Caused by COVID-19. Respir Care 2021;66:619–625.

Spazio morto nella ARDS da COVID-19 e da altre malattie:

- Bertelli M, Fusina F, Prezioso C, Cavallo E, Nencini N, Crisci S, Tansini F, Mazzuca Mari L, Hoxha L, Lombardi F, Natalini G. COVID-19 ARDS is characterized by increased dead space ventilation compared with ARDS from other diseases. A cohort study. Respir Care, in press.


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Trauma cranico e ARDS: l'ipercapnia è solo un problema o può diventare la soluzione?

29 dic 2018


Spesso devo rispondere alla domanda: “Se un paziente con trauma cranico sviluppa una ARDS*, è meglio tenere bassa la pressione intracranica aumentando il volume corrente o è comunque prioritario mantenere la ventilazione protettiva a basso volume corrente anche se questa dovesse aumentare la pressione intracranica?”

Il dilemma nasce dalla possibilità che un’eventuale ipercapnia indotta della ventilazione a basso volume corrente, possa indurre un aumento del flusso ematico cerebrale e di conseguenza della pressione intracranica, una variabile fisiologica che invece nel trauma cranico si dovrebbe limitare.

Cerchiamo di capire perché la risposta a questa domanda è tutt’altro che ovvia, e tentiamo alla fine di proporre una strategia ragionevole.

Rispondiamo separatamente alle diverse parti della domanda iniziale

“Se un paziente con trauma cranico sviluppa una ARDS,…”

Circa il 30% nei pazienti con trauma cranico grave ed emorragia subaracnoidea da rottura di aneurisma cerebrale sviluppa una ARDS (1, 2). Questa elevata incidenza ha un proprio fondamento biologico che riassunto nella teoria del brain-lung crosstalk (comunicazione encefalo-polmone) (3, 4).
In breve, una lesione cerebrale acuta innesca un ipertono adrenergico ed una cascata infiammatoria che predispongono il parenchima polmonare a subire i danni da ventilazione meccanica più facilmente di quanto non accadrebbe al polmone di un soggetto senza lesione cerebrale.
Se si riesce ad innescare una ARDS, i polmoni poi si ”vendicano” sul cervello, liberando a loro volta immunomediatori che possono amplificare il danno cerebrale secondario, andando a bersaglio anche sull’encefalo. Un circolo vizioso in cui encefalo e polmoni si fanno reciprocamente del male.
Ne consegue che nelle persone con trauma cranico, l’impostazione di una ventilazione protettiva, anche in assenza di ARDS, è più importante rispetto ad altri pazienti perchè hanno polmoni che perdonano di meno una ventilazione scorretta.

“…è meglio tenere bassa la pressione intracranica aumentando il volume corrente…”

Le linee-guida sul trauma cranico grave della Brain Trauma Foundation ci danno la risposta a questa parte di domanda: non si deve iperventilare (se non, eventualmente, per far fronte temporaneamente alle condizioni in cui si palesino i segni clinici di una erniazione cerebrale). L’unica raccomandazione sulla ventilazione meccanica delle linee-guida è quella di evitare l’ipocapnia prolungata profilattica (“Prolonged prophylactic hyperventilation with PaCO2 of ≤25 mm Hg is not recommended” – Class IIb) (5), obiettivo chiaramente in sintonia con la ventilazione protettiva, che mai si sognerebbe di iperventilare.
Sappiamo che i pazienti con trauma cranico hanno un incremento del volume delle aree ipoperfuse rispetto ai soggetti normali (6). Ed abbiamo la dimostrazione di cosa accade quando in questi pazienti si riduce la PaCO2: riduzione del flusso ematico cerebrale (nonostante l’aumento della pressione di perfusione cerebrale), aumento del volume delle aree di ipoperfusione, riduzione della PO2 tissutale cerebrale e della saturazione venosa giugulare (in alcuni casi al di sotto dei livelli di sicurezza), incremento di mediatori del danno cerebrale secondario (6–8).
Nella versione estesa delle linee guida si afferma che l’obiettivo della ventilazione nei pazienti con trauma cranico grave è la normocapnia, definita come una PaCO2 tra 35 e 45 mm Hg (in assenza di erniazione cerebrale). Nei pazienti con ARDS la ventilazione a basso volume corrente determina mediamente una PaCO2 inferiore a 45 mmHg (9). Ne consegue che molto spesso si riesce a mantenere una buona ventilazione protettiva anche nel traumatizzato cranico con ARDS senza doversi porre alcun problema.

Ma fino a che livello di pressione intracranica possiamo mantenere la ventilazione protettiva con basso volume corrente? Sempre le linee-guida raccomandano il trattamento della pressione intracranica solo quando è superiore a 22 mmHg (5). Nei pazienti con ARDS e trauma cranico grave quindi dovremmo tranquillamente attenerci alla buona pratica della ventilazione protettiva fino ai 22 mmHg di pressione intracranica.

…o è comunque prioritario mantenere la ventilazione protettiva a basso volume corrente anche se questa dovesse aumentare la pressione intracranica?

In altre parole, quando la pressione intracranica aumenta stabilmente in un paziente con ARDS e trauma cranico, dobbiamo rassegnarci ad aumentare il volume corrente per ridurre la PaCO2, il flusso ematico cerebrale e la pressione intracranica? (dò per scontato che la frequenza respiratoria sia già stata aumentata, se necessario, a 25-35/minuto).

Per prima cosa ci dobbiamo chiedere se la soglia di 22 mmHg debba essere considerata insuperabile. La raccomandazione sul valore soglia di 22 mmHg è classificata nella linea-guida con basso livello di evidenza (IIb, “based on a low-quality body of evidence”) poiché si fonda unicamente su un’analisi retrospettiva di un database (10). Consideriamo preliminarmente che in questa analisi i 22 mmHg si riferiscono al valore medio di pressione intracranica registrato durante il monitoraggio (e non al valore massimo raggiunto). Inoltre si evince dalla lettura dell’articolo che sopravvive il 37 % dei pazienti con valori superiori a 22 mmHg di pressione intracranica media; e che il 52% dei pazienti con pressione intracranica mediamente inferiore ai 22 Hg ha un esito neurologico sfavorevole (10). Insomma, ci possiamo fare l’idea che 22 mmHg non siano la soglia magica della pressione intracranica…
Da queste considerazioni possiamo capire come la pressione intracranica rappresenti una utile guida al trattamento del paziente con trauma cranico, ma che non debba essere vista come un dogma con valori soglia da rispettare ad ogni costo. Anche la pressione intracranica, come tutti i dati clinici, deve essere sempre contestualizzata. Un conto è una pressione intracranica che aumenta per un ematoma intracranico, per un’ischemia cerebrale, per un idrocefalo; forse un altro peso bisogna dare ad un aumento della pressione intracranica secondario ad un aumento del flusso ematico cerebrale. Che potrebbe anche avere degli aspetti positivi… Alcuni eleganti studi su animali evidenziano, in modelli di ischemia cerebrale, che l’ipercapnia riduce l’estensione e la gravità del danno ischemico ed i deficit neurologici rispetto alla normocapnia, nonostante l’incremento della pressione intracranica (11, 12).

Figura 1. Effetto dell’ipercapnia persistente sul pH liquorale (ref. 15)

Peraltro le variazioni stabili di PaCO2 si associano al graduale riavvicinamento della pressione intracranica verso i valori basali nelle ore successive (12, 13). Questo è giustificato dal fatto che non è la PaCO2 che direttamente modifica il flusso ematico cerebrale ma le variazioni che essa induce sul pH liquorale (14). In breve tempo (ore) il pH liquorare tende a ripristinarsi con valori di PaCO2 stabilmente aumentati (15) (figura 1). Possiamo quindi ragionevolmente prevedere che gli effetti dell’ipercapnia sulla pressione intracranica possano essere modesti e comunque con la tendenza a limitarsi nel tempo, quando essa si sviluppa lentamente. E quando la pressione intracranica tende ad aumentare parallelamente all’incremento di PaCO2, possiamo comunque utilizzare nel frattempo le strategie terapeutiche normalmente adottate per ridurre la pressione intracranica (sedazione, drenaggio liquorale, fluidi ipertonici o iperosmotici).
Infine dobbiamo considerare che la ventilazione con alto volume corrente, oltre ad aumentare di per sè la mortalità quando vi è una ARDS (9), peggiora ossigenazione e metabolismo cerebrali ed aumenta l’attivazione delle cellule cerebrali rispetto all’utilizzo di un volume corrente protettivo (16, 17), anche a parità di PaCO2 (16) (ricordiamo il brain-lung crosstalk).

Possiamo ora concludere dando una risposta motivata alla domanda iniziale:

  • nei pazienti con trauma cranico ci deve essere lo scrupoloso rispetto della ventilazione protettiva per prevenire l’ARDS, condizione a cui sono particolarmente predisposti;
  • se si sviluppa l’ARDS in un soggetto con trauma cranico grave, la ventilazione protettiva va mantenuta senza esitazioni se la pressione intracranica resta entro limiti tollerabili (ragionevolmente entro i 20-25 mmHg). Questo anche se vi dovesse essere ipercapnia. La ventilazione protettiva dovrebbe essere gestita impostando volume corrente e PEEP per minimizzare la driving pressure e, se possibile, contenerla entro i 15 cmH2O;
  • se la pressione intracranica supera i 20-25 mmHg, si devono mettere in pratica tutti gli interventi terapeutici normalmente utilizzati per trattare l’ipertensione intracranica (sedazione/paralisi, drenaggio liquorale, mannitolo o soluzione salina ipertonica, chirurgia per rimuovere eventuali lesioni che espansive);
  • se la pressione intracranica supera stabilmente i 25-30 mmHg, nonostante la terapia medica e chirurgica, l’utilizzo di un volume corrente non protettivi deve essere preso in considerazione con una valutazione integrata dello stato neurologico, delle lesioni presenti alla TC encefalo, di monitoraggi neurologici aggiuntivi (ad esempio la saturazione venosa giugulare o altre metodiche più complesse per i centri che le utilizzano con esperienza), del livello di ipossiemia, dell’assetto cardiocircolatorio, …. Qualora non vi siano controindicazioni alla anticoagulazione (però spesso presenti), in questi casi si può anche valutare la rimozione extracorporea di CO2 o L’ECMO.

L’ipercapnia può essere accettata nel trauma cranico se non scompensa la pressione intracranica ed è la conseguenza inevitabile di una buona ventilazione protettiva. In questo caso l’ipercapnia può essere più una soluzione che un problema…

Un sorriso ed un caro augurio di buon Anno Nuovo a tutti gli amici di ventilab.

* Acute Respiratory Distress Syndrome

Bibliografia.
1. Holland MC, Mackersie RC, Morabito D, et al.: The Development of Acute Lung Injury Is Associated with Worse Neurologic Outcome in Patients with Severe Traumatic Brain Injury: J Trauma Inj Infect Crit Care 2003; 55:106–111
2. Kahn JM, Caldwell EC, Deem S, et al.: Acute lung injury in patients with subarachnoid hemorrhage: Incidence, risk factors, and outcome: Crit Care Med 2006; 34:196–202
3. Mascia L: Acute Lung Injury in Patients with Severe Brain Injury: A Double Hit Model. Neurocrit Care 2009; 11:417–426
4. Mrozek S, Constantin J-M, Geeraerts T: Brain-lung crosstalk: Implications for neurocritical care patients. World J Crit Care Med 2015; 4:163
5. Carney N, Totten AM, OʼReilly C, et al.: Guidelines for the Management of Severe Traumatic Brain Injury, Fourth Edition: Neurosurgery 2017; 80:6–15
6. Coles JP, Minhas PS, Fryer TD, et al.: Effect of hyperventilation on cerebral blood flow in traumatic head injury: Clinical relevance and monitoring correlates. Crit Care Med 2002; 30:1950–1959
7. Imberti R, Bellinzona G, Langer M: Cerebral tissue PO2 and SjvO2 changes during moderate hyperventilation in patients with severe traumatic brain injury. J Neurosurg 2002; 97–102
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9. Acute Respiratory Distress Syndrome Network: Ventilation with Lower Tidal Volumes as Compared with Traditional Tidal Volumes for Acute Lung Injury and the Acute Respiratory Distress Syndrome. N Engl J Med 2000; 342:1301–1308
10. Sorrentino E, Diedler J, Kasprowicz M, et al.: Critical Thresholds for Cerebrovascular Reactivity After Traumatic Brain Injury. Neurocrit Care 2012; 16:258–266
11. Simon P: Brain Acidosis Induced by Hypercarbic Ventilation Attenuates Focal lschemic Injury. J Pharmacol Exp Ther 1993; 267:1428–1431
12. Zhou Q, Cao B, Niu L, et al.: Effects of Permissive Hypercapnia on Transient Global Cerebral Ischemia–Reperfusion Injury in Rats: Anesthesiology 2010; 112:288–297
13. Raichle ME, Posner JB, Plum F: Cerebral Blood Flow During. Arch Neurol 1970; 23:394–403
14. Ainslie PN, Duffin J: Integration of cerebrovascular CO2 reactivity and chemoreflex control of breathing: mechanisms of regulation, measurement, and interpretation. Am J Physiol-Regul Integr Comp Physiol 2009; 296:R1473–R1495
15. Messeter K, Siesjö BK: Regulation of the CSF pH in Acute and Sustained Respiratory Acidosis. Acta Physiol Scand 1971; 83:21–30
16. Bickenbach J, Zoremba N, Fries M, et al.: Low Tidal Volume Ventilation in a Porcine Model of Acute Lung Injury Improves Cerebral Tissue Oxygenation: Anesth Analg 2009; 109:847–855
17. Quilez M, Fuster G, Villar J, et al.: Injurious mechanical ventilation affects neuronal activation in ventilated rats. Crit Care 2011; 15:R124

 

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Ipercapnia e ARDS, cambia qualcosa? Parte seconda: implicazioni cliniche

25 mar 2018


Nel post del 17/02/2018 abbiamo accennato ai risultati di uno studio che ha recentemente documentato un’associazione tra ipercapnia e mortalità nella ARDS (1). Abbiamo considerato che il disegno di questo studio è molto debole e che quindi si deve ragionare bene su questa associazione prima di attribuirle un rapporto causa-effetto.

Si è anche evidenziato come l’ipercapnia sia la conseguenza (e non la causa) di un grave mismatch ventilazione-perfusione, che determina un aumento dello spazio morto alveolare, un ben noto fattore di rischio per la mortalità nei pazienti con ARDS (2).

L’acidosi respiratoria sembra avere effetti clinici e fisiologici più positivi che negativi, come puoi vedere in sintesi nel post del 03/08/2013.

Considerando però l’eventualità di un impatto negativo dell’ipercapnia sull’outcome, analizziamo oggi solo la ripercussione che generalmente le viene attribuita come più frequente e grave: il cuore polmonare acuto, cioè lo scompenso cardiaco acuto destro indotto dal rapido incremento delle resistenze vascolari polmonari.

L’acidosi respiratoria nella ARDS determinerebbe infatti l’aumento delle resistenze vascolari polmonari, alla base del cuore polmonare acuto. Ma siamo sicuri che sia proprio così?

Lo studio clinico probabilmente determinante per supportare il ruolo dell’ipercapnia nella genesi dello scompenso cardiaco destro ha arruolato 11 pazienti con ARDS ventilati per 1 ora, in successione, con due* diverse impostazioni del ventilatore (3). Al termine di un periodo con “bassa frequenza respiratoria ” (VT 8.5 ml/kg x 15/min) il pH era mediamente 7.30 e la PaCO2 52 mmHg, dopo 1 ora con “basso volume corrente” (VT 5.3 ml/kg x 26/min) il pH diminuiva a  7.17 e la PaCO2 aumentava a 71 mmHg. Nella condizione di acidosi respiratoria più grave si osservava una riduzione dell’indice cardiaco ed una dilatazione del ventricolo destro rispetto al ventricolo sinistro (aumento del rapporto tra le aree telediastoliche).

Questo studio presenta però un limite rilevante (del quale non sento normalmente parlare) che non consente di supportare che l’ipercapnia sia la causa del cuore polmonare acuto. Infatti durante la ventilazione “più ipercapnica” è stata anche raddoppiata la PEEP rispetto al ventilazione “meno ipercapnica”! E sappiamo bene che l’incremento della PEEP può dare di per sè un contributo decisivo all’aumento del postcarico del ventricolo destro e favorirne quindi la dilatazione.

Gli stessi autori dello studio sapevano bene come stavano le cose, tant’è che la loro conclusione dello studio è, piuttosto  incredibilmente, la seguente: “Increasing PEEP at constant Pplat during severe ARDS induces acute hypercapnia that may impair RV function and decrease cardiac index.” Affermano cioè che l’incremento della PEEP è la causa dell’ipercapnia (!!!), la quale a sua volta può peggiorare la funzione del ventricolo destro e ridurre la portata cardiaca… Se la causa dell’ipercapnia è stato l’aumento della PEEP, che bisogno c’era di modificare anche volume corrente e frequenza respiratoria per dimostrare gli effetti dell’ipercapnia? E perchè attribuire gli effetti sul cuore destro all’ipercapnia e non alla PEEP? Da notare peraltro che nello studio erano arruolati pazienti con già in atto scompenso cardiocircolatorio (stroke volume quasi la metà del normale) e dilatazione del cuore destro (mediamente il rapporto tra le aree telediastoliche del ventricolo destro e sinistro era 0.64). Mi viene il dubbio che non fosse stata ottimizzata l’emodinamica prima dell’arruolamento nel trial clinico, un problema non da poco nell’interpretazione dei dati… (i pazienti con ARDS non sono solitamente in bassa portata se si fa un appropriato supporto cardiovascolare).

IL MESSAGGIO E’ SEMPRE LO STESSO: LA LETTERATURA NON VA CITATA, MA DEVE ESSERE LETTA CON ATTENZIONE E CAPITA. Costa tempo e fatica, ma è l’unico modo per imparare qualcosa.

Peraltro lo stesso gruppo di ricercatori ha successivamente dimostrato che il cuore polmonare acuto (come definito nella reference 3) non si associa ad un incremento di mortalità (4). Non sembra quindi, comunque, un problema determinante.

Da considerare infine che non è l’ipercapnia che genera ipertensione polmonare ma l’acidosi ad essa associata (5,6). Ne consegue che, relativamente alla possibile ipertensione polmonare, l’ipercapnia non è un problema se il pH tende al compenso metabolico. E questo avviene spesso nella ARDS, condizione in cui l’ipercapnia si instaura in maniera gradualmente progressiva.

A questo punto torniamo ad interpretare i risultati della reference 1 con una maggior consapevolezza.  Lo studio supporta effettivamente l’ipotesi che i pazienti ipercapnici avessero un maggior spazio morto, stimato con la ventilazione minuto necessaria per ottenere 40 mmHg di PaCO2 (VEcorr). Ne consegue, dal punto di vista fisiopatologico, che l’ipercapnia è la conseguenza dello spazio morto ed è quindi ovvio che i pazienti ipercapnici (PaCO2 ≥ 50 mmHg) abbiano una mortalità maggiore rispetto ai non ipercapnici. Un approccio forse più appropriato all’analisi avrebbe potuto essere la ricerca di associazione tra mortalità e spazio morto stimato (con il VEcorr) (cioè la variabile causale dal punto di vista fisiopatologico) e quindi l’aggiustamento per le altre variabili.

Nello studio di Nin e coll., la fuorviante ricerca dell’associazione diretta tra mortalità e ipercapnia porta a conclusioni paradossali ed irragionevoli: i pazienti ipercapnici, rispetto ai non ipercapnici, sono ventilati meno spesso con una ventilazione protettiva (30% vs 70%) (?), hanno mediamente una pressione di plateau di 3 cmH2O superiore (?), un PaO2/FIO2 peggiore (141 vs 185 mmHg) (?) ed hanno più frequentemente barotrauma (11% vs 6%) (?). Pensiamo che l’ipercapnia possa spiegare tutte queste differenze? Sono risultati chiaramente incomprensibili, a meno che non ci si apra all’interpretazione più logica: gli ipercapnici sono tali perchè hanno una malattia polmonare più grave, con maggior shunt e maggior spazio morto. In altre parole: non è l’ipercapnia che determina un aumento di mortalità, ma è la gravità della malattia che aumenta sia la probabilità di morte che la PaCO2. Da questa prospettiva tutto quadra: ben si capisce perchè i pazienti con ARDS più grave abbiano pressioni di plateau più elevate, PaO2/FIO2 inferiori, più frequente barotrauma, ipercapnia più grave e mortalità maggiore.

La risposta alla domanda del titolo “Ipercapnia e ARDS, cambia qualcosa?” direi possa essere tranquillamente: “no”. Anche i nuovi studi non supportano ragionevolmente un nesso casuale tra ipercania e mortalità.

Possiamo ora ragionevolmente concludere che:

  • l’ipercapnia (come del resto l’ipossiemia) è la conseguenza è non la causa di una maggior gravità del danno polmonare; non stupisce pertanto che ipercapnia ed ipossiemia si associno ad un incremento di mortalità;
  • l’ipercapnia non è “velenosa”, non produce cioè effetti tossici clinicamente rilevanti;
  • anche il cuore polmonare acuto, il più pubblicizzato presunto effetto negativo dell’ipercapnia, è ampiamente discutibile che sia indotto dall’ipercapnia (è mediato dall’acidosi) e, quando questo è presente, non si associa ad incremento della mortalità.

Riprendiamo a questo punto il caso di Giorgio, con cui inizia il post del 17/02/2018: non mi preoccupo della sua PaCO2 di 68 mmHg (con pH 7.36), ma sono ahimè consapevole che questo può essere per lui un fattore prognostico sfavorevole. Giorgio è certamente grave, ma non è l’abbasamento della PaCO2 che potrà migliorarne la possibilità di sopravvivenza. Anzi, potrei non fare il suo bene se mettessi in atto manovre che potrebbero esporlo a rischi aggiuntivi con il solo scopo di ridurre la PaCO2.

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

* I pazienti sono anche sottoposti ad un terzo approccio ventilatorio (basso VT, bassa frequenza respiratoria e riduzione dello spazio morto strumentale) che per semplcità non prendiamo in considerazione in questo post.

Bibliografia

1) Nin N et al. Severe hypercapnia and outcome of mechanically ventilated patients with moderate or severe acute respiratory distress syndrome. Intensive Care Med 2017;43:200-8

2) Nuckton TJ et al. Pulmonary dead-space fraction as a risk factor for death in the acute respiratory distress syndrome. N Engl J Med 2002;346:1281-6

3) Mekontso Dessap A et al. Impact of acute hypercapnia and augmented positive end-expiratory pressure on right ventricle function in severe acute respiratory distress syndrome. Intensive Care Med 2009; 35:1850-8

4) Mekontso Dessap A et al. Acute cor pulmonale during protective ventilation for acute respiratory distress syndrome: prevalence, predictors, and clinical impact. Intensive Care Med 2016; 42:862-70

5) Enson Y et al. The influence of hydrogen ion concentration and hypoxia on the pulmonary circulation. J Clin Invest 1964;43:1146-62

6) Weber T et al. Tromethamine buffer modifies the depressant effect of permissive hypercapnia on myocardial contractility in patients with acute respiratory distress syndrome. Am J Respir Crit Care Med 2000; 162:1361–5

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Ipercapnia e ARDS, cambia qualcosa? Parte prima: aspetti fisiopatologici.

17 feb 2018


Giorgio ha una ARDS. L’impostazione della ventilazione meccanica è: volume corrente (VT) 420 ml, frequenza respiratoria (FR) 26/min, PEEP 8 cmH2O. Il PaO2/FIO2 è 170 mmHg, la PaCO2 68 mmHg ed il pH 7.36. Dobbiamo preoccuparci di questa ipercapnia?

In passato ho speso parole di tolleranza verso l’incremento della PaCO2 in corso di ventilazione protettiva nei pazienti con ARDS (vedi post del 24/09/2011 e del 03/08/2013). Questa tolleranza è ancora giustificata dopo la pubbblicazione di uno studio (che ultimamente vedo citato sempre più spesso) che evidenzia un’associazione tra ipercapnia e mortalità nei pazienti con ARDS (1)? Questo dato, se credibile, ci deve ovviamente creare forti dubbi se accettare o meno l’ipercapnia di Giorgio.

Lo studio che documenta l’associazione tra ipercapnia e mortalità è un’analisi secondaria su pazienti arruolati in tre studi osservazionali condotti tra il 1998 ed il 2010 ed il livello di ipercapnia è stato definito in base al peggior valore di PaCO2 rilevato nelle prime 48 ore di ventilazione meccanica. Siamo di fronte ad un disegno dello studio certamente debole, e perciò i risultati devono essere interpretati criticamente, soprattutto alla luce della plausibilità biologica. Per questo può essere utile, e piacevole, un tuffo nella fisiologia per capire perchè si genera l’ipercapnia nei pazienti con ARDS e quali sono le sue conseguenze biologiche e cliniche.

La pressione parziale della CO2 alveolare (PACO2).

La pressione parziale della CO2 alveolare (PACO2, con la “A” maiuscola per identificare l’alveolo) dipende della produzione di CO2 (V’CO2) e della ventilazione alveolare (VA). In particolare, la PACO2 aumenta se la ventilazione alveolare VA diminuisce. Il tutto è riassunto con semplice efficacia nell’equazione dei gas alveolari per la CO2:


(equazione 1)

La ventilazione alveolare VA differisce dalla ventilazione minuto VE (il prodotto di VT e FR) perchè esclude la parte di VT che resta confinata nello spazio morto (VD), cioè che si ferma nelle vie aeree prive di strutture alveolari e quindi senza possibilità di scambio gassoso:

(equazione 2)

L’equazione 2 può essere riscritta, in modo forse più utile per la prosecuzione della lettura, come:

(equazione 3)

dove VD/VT è il rapporto tra spazio morto e volume corrente, variabile con la quale torneremo presto a fare i conti. La ventilazione alveolare VA pertanto diminuisce se si riduce la ventilazione minuto VE e/o se aumenta il VD/VT.

L’equazione 1 può essere può essere riformulata nel seguente modo:

(equazione 4)

Assumiamo da questo momento che la V’CO2 sia costante e torniamo al caso di Giorgio. Se è elevata la PaCO2, (con la “a” minuscola per identificare il sangue arterioso), sarà elevata anche la PACO2, poichè PACO2 e PaCO2 sono considerate sostanzialmente equivalenti.

La VE di Giorgio durante la ventilazione protettiva è di 10.9 l/min (420 ml × 26/min), quasi il doppio di quella fisiologica, che è circa 5.4-6 l/min (450-500 ml × 12/min). Ne consegue che l’ipoventilazione alveolare e quindi l’ipercapnia possono essere spiegate unicamente da un aumento del VD/VT (equazione 4).

A questo punto complichiamo un po’ il concetto di spazio morto: non parliamo infatti dello spazio morto anatomico (quello delle vie aeree) (VDaw), ma dello spazio morto fisiologico (VDphys), somma del VDaw e dello spazio morto alveolare (VDalv).

Lo spazio morto anatomico VDaw (cioè il volume delle vie aeree) può essere schematizzato come uno spazio aereo anatomicamente sprovvisto di capillari alveolari (G nella figura 1). Il suo volume non si modifica significativamente nella ARDS.

Lo spazio morto alveolare VDalv si genera in quegli alveoli in cui cessa la perfusione capillare, dove quindi la ventilazione non partecipa allo scambio gassoso per l’assenza di contatto con il sangue capillare polmonare (figura 1, F). In queste zone il rapporto ventilazione alveolare/perfusione (VA/Q) è infinito (∞), dal momento che la perfusione è 0.

Nei polmoni patologici esistono anche aree con un eccesso di ventilazione alveolare rispetto alla perfusione (VA/Q elevato, ma non ∞), che contribuiscono allo spazio morto alveolare (figura 1, E). Talvolta questa condizione è definita “spazio morto relativo” o “effetto spazio morto”.

Nella ARDS è l’aumento dello spazio morto alveolare che determina l’incremento dello spazio morto fisiologico.


Figura 1

La figura 2 propone un grafico tradizionale in tutti i testi di fisiologia: la variazione delle pressioni dei gas alveolari al variare del VA/Q. Occupiamoci ora solo della PACO2 (asse verticale): nelle zone con VA/Q = ∞ (i casi F e G della figura 1), la PACO2 è 0 mmHg: l’aria inspirata, che non contiene CO2, non viene modificata per l’assenza di scambio gassoso (figura 2, punto A). La progressiva riduzione del VA/Q (freccia rossa tratteggiata) determina un consensuale aumento della PACO2 (freccia grigia che va da A a B), che al massimo può eguagliare la pressione venosa mista di CO2 (PvCO2) quando il VA/Q diventa 0.

Figura 2

Forse l’argomento non è però così chiaro come può sembrare: l’aumento del VA/Q, che produce VDalv, determina un calo della PACO2 (figura 2). Ma nell’equazione 4 abbiamo visto che l’incremento del VD aumenta la PACO2. Pensiamo alla ARDS, dove coesistono aree con alto e basso VA/Q: nelle zone ad elevato VA/Q, la PACO2 dovrebbe essere bassa, in quelle a basso VA/Q al massimo dovrebbe essere simile a quella venosa (fisiologicamente 46 mmHg) (sempre figura 2). Come possiamo allora spiegare l’ipercapnia di Mario se la PACO2 (e la PaCO2 che è ad essa simile) non raggiunge valori elevati, qualunque sia il VA/Q? Come si può ridurre la VA a tal punto da generare una marcata ipercapnia?

La relazione tra spazio morto e PaCO2 è quindi piuttosto complessa e merita un approfondimento per risolvere le vere o presunte contraddizioni.

La CO2 espirata, alveolare ed arteriosa.

Vedremo ora una descrizione dettagliata dell’impatto che il VA/Q ha su PaCO2 e spazio morto alveolare: la prima parte, relativa alla fisiologia, è fatta passo passo, per consentire poi di muoversi più agilmente negli esempi successvi. Premetto che è una interpretazione originale: ho cercato di seguire una strada diversa da quella che si trova solitamente nei testi ed in letteratura. Ho preferito questo approccio (con i rischi e i limiti che può avere) perchè seguendo l’approccio tradizionale non ho mai capito veramente bene come si possa generare l’ipercapnia quando in assenza di una riduzione della ventilazione al minuto.

Ipotizziamo di avere un soggetto sano, da “libro di fisiologia”: VT 500 ml, VDaw 150 ml, FR 11/min, V’CO2 200 ml/min. Poichè i suoi polmoni sono sani ed ha una fisiologica distribuzione del VA/Q, tutto il suo spazio morto corrisponde a quello anatomico ed è circa il 30% del volume corrente (VD/VT = 150 ml/500 ml = 0.30). La VE è 5500 ml/min (500 ml × 11/min): la VA è 3850 ml/min [(500 ml -150 ml) × 11/min], mentre 1650 ml/min è la ventilazione al minuto dello spazio morto (150 ml × 11/min).

Immaginiamo i polmoni divisi in due compartimenti di identiche dimensioni, in cui la VA sia distribuita al 50% in ciascun compartimento polmonare (cioè 1925 ml/min per compartimento).

La CO2 prodotta ogni minuto dal metabolismo tissutale (cioè il V’CO2) è trasportata ai capillari polmonari. In condizioni di equilibrio, i polmoni eliminano solamente e completamente una quantità di CO2 uguale a quella prodotta dai tessuti e non più di questa. Prendiamo in considerazione questa condizione di stabilità, in cui il volume di CO2 espirato coincida perfettamente con la produzione di CO2.

Consideriamo la portata cardiaca Q distribuita equamente nei due compartimenti. Poichè la CO2 prodotta dal metabolismo è portata ai capillari alveolari dalla portata cardiaca, vi sarà anche una uguale ripartizione del V’CO2 nei due comportimenti, a ciascuno dei quali saranno indirizzati quindi 100 ml di CO2 ogni minuto (cioè il 50% del V’CO2). E’ questa la quantità di CO2 che ciascun compartimento deve eliminare all’equilibrio attraverso la ventilazione alveolare.

Questa condizione è schematizzata nella figura 3. I due compartimenti sono delimitati nelle aree azzurra e rosa. L’apparato respiratorio, delimitato dalla linea nera continua, è composto da una “Y” capovolta (le vie aeree, cioè il VD), esterna ai due compartimenti polmonari, e da due spazi alveolari circolari, ciascuno in un differente compartimento. La doppia riga continua rossa schematizza i rispettivi capillari polmonari, nel cui interno è quantificato il flusso di CO2 che, trasportato dal sangue, deve essere “smaltito” nei polmoni ogni minuto.

Ed ora veniamo al dunque.


Figura 3

Ci troviamo nella condizione in cui, in ciascun compartimento, 100 ml di CO2 si miscelano in 1925 ml di VA. Possiamo quindi calcolare la frazione alveolare di CO2 (FACO2), cioè il rapporto tra il volume di CO2 ed il volume alveolare (per la precisone è, in questo caso, un rapporto tra flussi). La FACO2 in questo caso è 0.052 (cioè 100 ml/min di CO2 in 1925 ml/min di VA): questo significa che la CO2 rappresenta il 5.2% del gas alveolare (FACO2 × 100). Per la legge delle pressioni parziali dei gas di Dalton, la PACO2 esercita il 5.2% della pressione presente nell’alveolo, che pertanto è 40 mmHg (760 mmHg × 0.052) (Figura 4). (Ipotizziamo per semplicità un quoziente respiratorio di 1, che significa che 100 ml di CO2 che entrano nell’alveolo sostituiscono una uguale quantità di O2 che lascia l’alveolo per entrare nel sangue capillare).



Figura 4

La pressione di CO2 nel gas espirato (PECO2) non è uguale alla PACO2, perchè il gas alveolare si deve miscelare con quello dello spazio morto, che non contiene CO2. Il modo più semplice per conoscere l’ipotetica PECO2 è calcolare la frazione espiratoria di CO2 (FECO2) e moltiplicarla per la pressione atmosferica (similmente a quanto abbiamo fatto per il calcolo della PACO2). E’ probabilmente più facile capire il concetto seguendo i calcoli: all’uscita dalle vie aeree, i 200 ml di CO2, prodotti ogni minuto dal metabolismo ed espirati, sono contenuti nel VE (che nell’esempio è 5500 ml/min); la FECO2 è 0.04 (200/5500) e la PECO2 28 mmHg (760 x 0.04) (Figura 5).

Figura 5

Resta da capire quanto sarà, in questa condizione, la PaCO2. In ciascuno dei compartimenti, la PACO2 si mette in equilibrio con il rispettivo sangue capillare, e la pressione parziale di CO2 alla fine del capillare polmonare (PcCO2) diventa uguale alla corrispondente PACO2. In entrambi i compartimenti la PcCO2 è quindi 40 mmHg. Poichè la portata cardiaca è ripartita equamente, il flusso di sangue in uscita dal circolo capillare polmonare è uguale nei due compartimenti. La PaCO2 è la media ponderata delle PcCO2 dei due compartimenti (cioè la somma dei prodotti tra PcCO2 e frazione di Q in ciascun compartimento); in questo caso è facile: 40 mmHg (cioè: 40 × 0.5 + 40 × 0.5) (Figura 6). (Può essere ovvio, ma è meglio ricordare che la frazione di Q è la percentuale di Q/100)


Figura 6

Ora possiamo calcolare il rapporto tra spazio morto fisiologico e volume corrente con la formula di Bohr-Enghoff:

(equazione 5)

C’è dibattito se questo approccio sia preferibile alla originale formula di Bohr (calcolabile con la capnografia volumetrica), dove la PACO2 sostituisce la PaCO2. Se qualcuno fosse interessato, potremmo discuterne nei commenti.

Il VDphys/VT che calcoliamo con i nostri dati è 0.30, uguale allo VDaw/VT, calcolato con lo spazio morto anatomico della nostra simulazione. Ne deduciamo che in questa condizione non esiste spazio morto alveolare perche spazio morto fisiologico ed anatomico coincidono.

Ipotizzando una portata cardiaca da fisiologia (5000 ml/min), il VA/Q complessivo sarebbe 0.8, anch’esso ovviamente fisiologico.

Ventilazione protettiva, ARDS e ipercapnia.

Applicando la ventilazione protettiva di Giorgio (VT 420 ml × FR 26/min) ad un polmone fisiologico, come quello esaminato nell’esempio precedente, quanto sarebbe la PaCO2?

Vediamo il risultato finale nella figura 7.



Figura 7

Risparmiamoci tutti i passaggi visti nell’esempio precedente (è comunque un ottimo esercizio per chi lo volesse fare) e arriviamo al risultato finale: la ventilazione protettiva applicata ad un soggetto sano produce ipocapnia (nel nostro esempio la PaCO2 è 22 mmHg). Questa ventilazione sarà anche protettiva, ma è pur sempre una forma di iperventilazione.

Rispetto alla ventilazione fisiologica, il VDphys/VT è un po’ aumentato (da 0.30 a 0.36), ma come nell’esempio di prima è uguale al VDaw/VT (150 ml di VDaw su 420 ml di VT): anche in questo caso non vi è spazio morto alveolare, dato che non vi è differenza tra VDphys/VT e VDaw/VT . L’aumento della ventilazione alveolare (da 3850 a 7020 ml/min) è stato molto maggiore dell’aumento di spazio morto, e questo spiega la riduzione della PACO2 e conseguentemente della PaCO2.

Se la portata cardiaca rimanesse uguale a quella dell’esempio precedente (5000 ml/min), il VA/Q complessivo sarebbe 1.4, un mismatch ventilazione/perfusione con alto VA/Q.

Facciamo ora l’esempio di un paziente con ARDS, come Giorgio, a cui viene erogata la ventilazione protettiva con VT 420 ml e FR 26/min. Il polmone è certamente diverso da quello fisiologico.

Figura 8

Nella figura 8 vediamo una sezione TC di polmone sano a sinistra e con ARDS a destra. Nel polmone sano vediamo che il parenchima polmonare è di colore omogeneo. Nel polmone con ARDS vediamo aree iperdiafane (più nere del normale, delimitate dalla linea azzurra) ed aree iperdense (più bianche del normale, linea rossa). Nelle zone iperdiafane vi è sovradistensione delle strutture alveolari, dovuta ad un incremento della ventilazione regionale. Vi è anche una riduzione della perfusione, in parte per un effetto gravitazionale, in parte perchè le pareti alveolari iperdistese comprimono i capillari polmonari. Nelle aree iperdense vi è una riduzione (o l’assenza) di ventilazione, con la perfusione che è favorita dalla forza di gravità, con un effetto variabile sulle resistenze vascolari legato all’entità della vasocostrizione ipossica.

Ipotizziamo che nelle zone più ventilate venga dirottato il 80% delle ventilazione, mentre in quelle meno ventilate sia distribuito il rimanente 20%. Ed ipotizziamo che la perfusione sia distribuita prevalentemente (80%) alle zone poco ventilate ed in piccola parte alle zone iperventilate (20%). La condizione è schematizzata nella figura 9, in cui nel compartimento di sinistra (azzurro) sono schematizzate le aree ben ventilate e mal perfuse ed in quello di destra (rosso) quelle mal ventilate e ben perfuse.


Figura 9

Abbiamo quindi un compartimento ad alto VA/Q (a sinistra) ed una a basso VA/Q (a destra). A sinistra destra arrivano 5616 ml/min (cioè l’80%) di ventilazione che devono drenare, all’equilibrio, il 20% della CO2 prodotta dall’organismo, dal momento che vi arriva solo il 20% della portata cardiaca. A destra sinistra una ventilazione alveolare molto minore (1404 ml/min, cioè il 20 %) deve farsi carico del 80% del V’CO2. Il risultato finale è mostrato in figura 10.


Figura 10

Come sempre, puoi rifare i calcoli da solo (il procedimento è sempre lo stesso). La sostanza è che, nel compartimento di sinistra, la rimozione di poca CO2 da parte di tanta ventilazione porta ad un drastico abbassamento della PACO2 e quindi della PcCO2. Viceversa, nel compartimento di destra, il passaggio di tanta CO2 in poco volume ventilato è possibile solo raggiungendo una elevata PACO2 e quindi una altrettanto elevata PcCO2.  La PaCO2 è la media ponderata del sangue proveniente dai capillari polmonari: 5 mmHg*0.2 + 87 mmHg*0.8 = 70 mmHg. Il risultato finale è una PaCO2 elevata (70 mmHg, più o meno come quella di Giorgio), frutto del fatto che molto sangue con 87 mmHg di PCO2 si miscela a poco sangue con 5 mmHg di PCO2.

Il VDphys/VT è di 0.80, ben più elevato dello 0.36 del VDaw/VT (150 ml di VDaw/420 ml di VT). In questo caso abbiamo un notevole spazio morto alveolare, essendo il VDalv/VT 0.44 (cioè la differenza tra VDphys/VT e VDaw/VT). Se applichiamo l’equazione 4, si calcola una VA di 2184 ml/min, di gran lunga inferiore ai 7020 ml/min ottenuti utilizzando il solo spazio morto anatomico. Ed anche inferiore ai 3850 ml/min della condizione fisiologica che è stata considerata inizialmente. A questo punto si potrebbero fare molte speculazioni sul significato di ventilazione alveolare e spazio morto fisiologico… certamente ciascuno le potrà fare per proprio conto…

I calcoli che abbiamo fatto non hanno certo la pretesa di essere precisi in vivo e ci sono aspetti complessi di cui non si è tenuto conto. Ma fanno capire bene che l’ipercapnia si genera nelle zone a basso VA/Q: è sempre l’ipoventilazione alveolare a determinare l’aumento della PACO2 e della PaCO2. In alcuni casi il concetto è chiaro, come quando vi è ipoventilazione (riduzione della VE), che ha come inevitabile conseguenza un’omogenea riduzione della VA e quindi del VA/Q. Quando invece si ha iperventilazione (elevata VE) e nonostante questo si sviluppa ipercapnia, essa è generata dal mismatch VA/Q che si genera nelle zone a basso VA/Q regionale, dove si instaura una ipoventilazione distrettuale perchè altre aree polmonari hanno “rubato” ventilazione e ceduto perfusione.

Può ora essere evidente come ipossiemia ed ipercapnia si sviluppino negli stessi compartimenti polmonari, quelli in cui il VA/Q regionale è inferiore a quello fisiologico: poca ventilazione modifica poco il sangue venoso, e l’elevata perfusione fa sì che queste zone abbiano un peso più rilevante sulla composizione del sangue arterioso. Viceversa i compartimenti con alto VA/Q regionale influiscono poco sui gas arteriosi: sono zone a relativamente bassa perfusione e quindi contribuiscono meno alla composizione del sangue arterioso.

Per concludere (per ora)…

Un recente articolo ci ha fatto venire il dubbio che l’ipercapnia possa essere “velenosa” per i pazienti con ARDS, avendo trovato un’associazione tra ipercapnia e mortalità.

Abbiamo capito che le alterazioni regionali del VA/Q sono tipiche dei pazienti con ARDS (figura 8) e che sono la causa dell’ipercapnia durante la ventilazione protettiva. Il mismatch VA/Q è correlato sia all’estensione degli addensamenti polmonari che alle alterazioni della perfusione polmonare. In sostanza, più è grave il paziente con ARDS (sommando le disfunzioni polmonare e cardiocircolatoria), più aumenta il mismatch VA/Q, più aumenta la PaCO2.

L’ipercapnia è quindi un ottimo marker della gravità del paziente con ARDS.

Questo non esclude però che l’ipercapnia possa avere anche un effetto negativo diretto sulle funzioni dell’organismo. Il post di oggi è già lunghissimo, nel prossimo cercheremo di capire gli effetti biologici dell’ipercapnia, per poter finalmente discutere appropriatamente i risultati dello studio da cui abbiamo preso le mosse.

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

Bibliografia.
1) Nin N et al. Severe hypercapnia and outcome of mechanically ventilated patients with moderate or severe acute respiratory distress syndrome. Intensive Care Med 2017;43:200-8

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