Quanto deve essere la pressione arteriosa nello shock settico?

9 dic 2019


Capita  spesso a tutti i medici “in prima linea” di trovarsi di fronte una persona con infezione ed ipotensione arteriosa. Se l’ipotensione non si risolve rapidamente con la somministrazione di fluidi (se indicati), si deve iniziare la somministrazione di un vasocostrittore, di solito la noradrenalina (o norepinefrina che dir si voglia), per aumentare di pressione arteriosa. Ricordiamo che oggi questa condizione di ipotensione che necessita di vasocostrittore è definita shock settico se ad essa si associa un elevato valore di lattato plasmatico (1).

Ora nasce spontanea la domanda: che livello di pressione arteriosa dobbiamo mantenere con la norepinefrina?

Sono certo che a molti verrà in mente il valore di 65 mmHg di pressione arteriosa media. Questa soglia è supportata da una raccomandazione forte della linea-guida della Surviving Sepsis Campaign (2): “We recommend an initial target mean arterial pressure (MAP) of 65 mmHg in patients with septic shock requiring vasopressors (strong recommendation, moderate quality of evidence)”.

Questo numero “magico” mi lascia molti dubbi, come qualsiasi altro numero che pretenda di dare presunte certezze alla pratica medica. Ed una attenta lettura della linea guida ben supporta questo mio dubbio.

La raccomandazione di cui sopra fornisce una indicazione solo per l’inizio del trattamento (“We recommend an initial target…)”, che seguendo l’aggiornamento 2018 della linea guida sembrerebbe coprire la prima ora dalla presentazione in ospedale (3). Dall’ora successiva (ora più, ora meno) si individualizzare il livello di pressione arteriosa caso per caso (dimenticando i 65 mmHg), dopo aver raggiunto una migliore comprensione del paziente . Questo è quanto afferma la linea guida, in una riga delle sue 74 pagine:   “When a better understanding of any patient’s condition is obtained, this target should be individualized to the pertaining circumstances.“.

Mi sembra di poter tranquillamente affermare che la vera raccomandazione della linea guida sia l’invito ad approfondire sempre il ragionamento clinico per trovare ogni volta l’approccio terapeutico più appropriato.

Per poter tradurre in pratica tutto questo, cerchiamo prima di capire il significato della pressione arteriosa e quali sono le conoscenze che la ricerca ci mette a disposizione.

Pressione arteriosa o perfusione tissutale?

La prima considerazione è che la pressione arteriosa non può e non deve essere il fine del trattamento emodinamico. Il vero obiettivo è la perfusione tissutale, che assicura alle cellule l’apporto di ossigeno necessario per il metabolismo. In fisiologia la perfusione tissutale non dipende dalla pressione arteriosa (entro certi limiti) per effetto dell’autoregolazione, un fenomeno presente in quasi tutti i distretti vascolari che mantiene costante il flusso ematico nonostante i cambiamenti nella pressione arteriosa. Ma nello shock l’ipotensione potrebbe condizionare la perfusione tissutale perchè la pressione arteriosa può abbassarsi al di sotto della soglia di autoregolazione, che peraltro probabilmente è perduta o meno efficiente in corso di shock settico.

Pressione arteriosa media < 65 mmHg e perfusione tissutale nello shock settico.

Non vi sono studi sugli effetti di una pressione arteriosa media inferiore a 65 mmHg sulla perfusione tissutale di pazienti in shock settico. L’obiettivo minimo dei 65 mmHg appare pertanto arbitrario: potremmo accettare valori pressori inferiori qualora non si manifestassero segni o sintomi correlabili a ipoperfusione tissutale (vedi sotto).

Pressione arteriosa media > 65 mmHg e perfusione tissutale nello shock settico.

Gli studi fisiologici su pazienti con shock settico sono concordi del rilevare che l’aumento di pressione arteriosa media oltre 65 mmHg (ottenuto con l’incremento della dose di norepinefrina) produce un aumento di portata cardiaca e trasporto di ossigeno (4-6). Gli effetti sulla perfusione tissutale sono però contraddittori: in alcuni casi non si modifica (4,5), in altri invece migliora (6). In due trial randomizzati e controllati si è valutato l’impatto sull’outcome di pressione arteriosa media “bassa” (60-70 mmHg) e “alta” (75-85 mmHg) (7,8). Complessivamente non si sono osservate differenze di mortalità, con effetti sia positivi che negativi degli alti valori di pressione (più aritmie, meno insufficienza renale nei pazienti con ipertensione arteriosa, mortalità più elevata nel sottogruppo dei pazienti anziani). E’ da notare che però in questi studi i pazienti con “pressione bassa” in realtà raggiungevano valori di pressione arteriosa media più elevati di quanto pianificato, mediamente 70-75 mmHg.

Su queste base possiamo poggiare una proposta per il supporto cardiovascolare nei pazienti con shock settico. Proviamo a sintetizzarla in alcuni punti:

  1. Pur in assenza di qualsiasi supporto della letteratura, possiamo comunque ritenere ragionevole iniziare precocemente l’infusione di farmaci vasoattivi se la pressione arteriosa media è inferiore a 65 mmHg. Infatti la valutazione della perfusione tissutale (il vero obiettivo del trattamento) può richiedere alcune ore: nel frattempo è appropriato garantire empiricamente la pressione di perfusione che deriva da questa scelta;
  2. se questo approccio “funziona”  (senza raggiungere alte dosi di noradrenalina), direi che quanto abbiamo fatto possa essere sufficiente. A mio parere il successo del trattamento iniziale è supportato dalla normalizzazione entro le prime 2-3 ore sia del lattato arterioso, sia della diuresi, sia del tempo di riempimento capillare, sia della saturazione venosa centrale;
  3. se questo il trattamento iniziale non sortisce gli effetti sopra descritti, se le disfunzioni d’organo in atto non sono particolarmente gravi, si può provare nelle 2-3 ore successive ad incrementare la pressione arteriosa media a 75-80 mmHg e rivalutare i suddetti segni clinici di perfusione tissutale;
  4. se l’incremento di pressione arteriosa media non funziona o le disfunzioni d’organo sono gravi, si impone di fare ciò che anche la linea guida ci chiede: conoscere più approfonditamente il paziente per personalizzare l’approccio. Da notare che se facciamo quanto proposto nei punti precedenti, sono trascorse al massimo 5-6 ore dall’inizio dello shock settico. Non dobbiamo aspettare oltre, potrebbe essere solo tempo perso. Per personalizzare l’approccio, dobbiamo ragionare in termini di trasporto di ossigeno (oxygen delivery, DO2), che è il prodotto della portata cardiaca (cardiac output, CO) ed il contenuto arterioso di O2 (CaO2): DO2 = CO x CaO2. Diventa quindi necessario misurare la portata cardiaca. In un paziente settico con disfunzioni d’organo in atto e segni di ipoperfusione tissutale, ritengo che il CaO2 possa essere ottimizzato quando l’emoglobina ha una concentrazione di almeno 10 g/dL ed una saturazione arteriosa del 95%. Dopodichè, se la portata cardiaca è inferiore al normale e non abbiamo raggiunto gli obiettivi di perfusione tissutale sopra descritti, dovremmo incrementarla (se possibile e con gli interventi appropriati, senza insistere inutilmente con la somministrazione di fluidi) all’interno del range di normalità, che per l’indice cardiaco è 2.5-4 l·min-1·m-2.
  5. Se l’ipoperfusione tissutale permane nonostante l’escalation terapeutica descritta nei punti precedenti, dobbiamo ritenere che essa sia secondaria ad una maldistribuzione del flusso ematico e ad alterazioni del metabolismo cellulare. A questo punto l’emodinamica non può più nulla e ci dobbiamo limitare a mantenere saggiamente le posizioni, o addirittura tornare ad accettare un indice cardiaco ai limiti inferiori della norma qualora valori più elevati siano ottenuti con una elevata aggressività terapeutica.

Abbiamo constatato ancora una volta come la medicina non si faccia ricercando formule magiche, come invece faceva Harry Potter nelle sue avventure: la realtà è diversa dalla magia, dobbiamo pertanto evitare l’harrypotterizzazione della medicina (felice espressione “rubata” al dott. Giuseppe Umana di Catania).

Oggi non abbiamo parlato di ventilazione meccanica, lo faremo sicuramente nel prossimo post. Del resto chi segue ventilab sa bene che dedichiamo ben volentieri spazio anche all’emodinamica (clicca sulla tag “emodinamica” per vedere i post che hanno trattato questo argomento), un amore della prima ora. E’ stato proprio l’incontro con la fisiopatologia cardiovascolare a farmi decidere di fare il rianimatore: oggi sarei un neurologo se non avessi incontrato Starling e Guyton qualche mese prima della laurea. E proprio questa passione è stata decisiva nella decisione di aggiungere il “Corso di emodinamica” nella proposta formativa di ventilab (ci sono gli ultimi posti liberi nella edizione di marzo 2020, se sei interessato all’evento cercalo nel catalogo degli eventi formativi di Fondazione Poliambulanza).

Come sempre, un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

Bibliografia.
1) Singer M, Deutschman CS, Seymour CW, et al.: The Third International Consensus Definitions for Sepsis and Septic Shock (Sepsis-3). JAMA 2016; 315:801-810
2) Rhodes A, Evans LE, Alhazzani W, et al.: Surviving Sepsis Campaign: International Guidelines for Management of Sepsis and Septic Shock. Crit Care Med 2017; 45:486–552
3) Levy MM, Evans LE, Rhodes A: The Surviving Sepsis Campaign Bundle: 2018 update. Intensive Care Med 2018; 44:925–928
4) LeDoux D, Astiz ME, Carpati CM, et al.: Effects of perfusion pressure on tissue perfusion in septic shock. Crit Care Med 2000; 28:2729–2732
5) Bourgoin A, Leone M, Delmas A, et al.: Increasing mean arterial pressure in patients with septic shock: Effects on oxygen variables and renal function: Crit Care Med 2005; 33:780–786
6) Thooft A, Favory R, Salgado D, et al.: Effects of changes in arterial pressure on organ perfusion during septic shock. Crit Care 2011; 15:R222
7) Asfar P, Meziani F, Hamel J-F, et al.: High versus Low Blood-Pressure Target in Patients with Septic Shock. N Eng J Med 2014; 370:1583–1593
8) Lamontagne F, Meade MO, Hébert PC, et al.: Higher versus lower blood pressure targets for vasopressor therapy in shock: a multicentre pilot randomized controlled trial. Intensive Care Med 2016; 42:542–550

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