Trauma cranico e ARDS: l'ipercapnia è solo un problema o può diventare la soluzione?

29 dic 2018


Spesso devo rispondere alla domanda: “Se un paziente con trauma cranico sviluppa una ARDS*, è meglio tenere bassa la pressione intracranica aumentando il volume corrente o è comunque prioritario mantenere la ventilazione protettiva a basso volume corrente anche se questa dovesse aumentare la pressione intracranica?”

Il dilemma nasce dalla possibilità che un’eventuale ipercapnia indotta della ventilazione a basso volume corrente, possa indurre un aumento del flusso ematico cerebrale e di conseguenza della pressione intracranica, una variabile fisiologica che invece nel trauma cranico si dovrebbe limitare.

Cerchiamo di capire perché la risposta a questa domanda è tutt’altro che ovvia, e tentiamo alla fine di proporre una strategia ragionevole.

Rispondiamo separatamente alle diverse parti della domanda iniziale

“Se un paziente con trauma cranico sviluppa una ARDS,…”

Circa il 30% nei pazienti con trauma cranico grave ed emorragia subaracnoidea da rottura di aneurisma cerebrale sviluppa una ARDS (1, 2). Questa elevata incidenza ha un proprio fondamento biologico che riassunto nella teoria del brain-lung crosstalk (comunicazione encefalo-polmone) (3, 4).
In breve, una lesione cerebrale acuta innesca un ipertono adrenergico ed una cascata infiammatoria che predispongono il parenchima polmonare a subire i danni da ventilazione meccanica più facilmente di quanto non accadrebbe al polmone di un soggetto senza lesione cerebrale.
Se si riesce ad innescare una ARDS, i polmoni poi si ”vendicano” sul cervello, liberando a loro volta immunomediatori che possono amplificare il danno cerebrale secondario, andando a bersaglio anche sull’encefalo. Un circolo vizioso in cui encefalo e polmoni si fanno reciprocamente del male.
Ne consegue che nelle persone con trauma cranico, l’impostazione di una ventilazione protettiva, anche in assenza di ARDS, è più importante rispetto ad altri pazienti perchè hanno polmoni che perdonano di meno una ventilazione scorretta.

“…è meglio tenere bassa la pressione intracranica aumentando il volume corrente…”

Le linee-guida sul trauma cranico grave della Brain Trauma Foundation ci danno la risposta a questa parte di domanda: non si deve iperventilare (se non, eventualmente, per far fronte temporaneamente alle condizioni in cui si palesino i segni clinici di una erniazione cerebrale). L’unica raccomandazione sulla ventilazione meccanica delle linee-guida è quella di evitare l’ipocapnia prolungata profilattica (“Prolonged prophylactic hyperventilation with PaCO2 of ≤25 mm Hg is not recommended” – Class IIb) (5), obiettivo chiaramente in sintonia con la ventilazione protettiva, che mai si sognerebbe di iperventilare.
Sappiamo che i pazienti con trauma cranico hanno un incremento del volume delle aree ipoperfuse rispetto ai soggetti normali (6). Ed abbiamo la dimostrazione di cosa accade quando in questi pazienti si riduce la PaCO2: riduzione del flusso ematico cerebrale (nonostante l’aumento della pressione di perfusione cerebrale), aumento del volume delle aree di ipoperfusione, riduzione della PO2 tissutale cerebrale e della saturazione venosa giugulare (in alcuni casi al di sotto dei livelli di sicurezza), incremento di mediatori del danno cerebrale secondario (6–8).
Nella versione estesa delle linee guida si afferma che l’obiettivo della ventilazione nei pazienti con trauma cranico grave è la normocapnia, definita come una PaCO2 tra 35 e 45 mm Hg (in assenza di erniazione cerebrale). Nei pazienti con ARDS la ventilazione a basso volume corrente determina mediamente una PaCO2 inferiore a 45 mmHg (9). Ne consegue che molto spesso si riesce a mantenere una buona ventilazione protettiva anche nel traumatizzato cranico con ARDS senza doversi porre alcun problema.

Ma fino a che livello di pressione intracranica possiamo mantenere la ventilazione protettiva con basso volume corrente? Sempre le linee-guida raccomandano il trattamento della pressione intracranica solo quando è superiore a 22 mmHg (5). Nei pazienti con ARDS e trauma cranico grave quindi dovremmo tranquillamente attenerci alla buona pratica della ventilazione protettiva fino ai 22 mmHg di pressione intracranica.

…o è comunque prioritario mantenere la ventilazione protettiva a basso volume corrente anche se questa dovesse aumentare la pressione intracranica?

In altre parole, quando la pressione intracranica aumenta stabilmente in un paziente con ARDS e trauma cranico, dobbiamo rassegnarci ad aumentare il volume corrente per ridurre la PaCO2, il flusso ematico cerebrale e la pressione intracranica? (dò per scontato che la frequenza respiratoria sia già stata aumentata, se necessario, a 25-35/minuto).

Per prima cosa ci dobbiamo chiedere se la soglia di 22 mmHg debba essere considerata insuperabile. La raccomandazione sul valore soglia di 22 mmHg è classificata nella linea-guida con basso livello di evidenza (IIb, “based on a low-quality body of evidence”) poiché si fonda unicamente su un’analisi retrospettiva di un database (10). Consideriamo preliminarmente che in questa analisi i 22 mmHg si riferiscono al valore medio di pressione intracranica registrato durante il monitoraggio (e non al valore massimo raggiunto). Inoltre si evince dalla lettura dell’articolo che sopravvive il 37 % dei pazienti con valori superiori a 22 mmHg di pressione intracranica media; e che il 52% dei pazienti con pressione intracranica mediamente inferiore ai 22 Hg ha un esito neurologico sfavorevole (10). Insomma, ci possiamo fare l’idea che 22 mmHg non siano la soglia magica della pressione intracranica…
Da queste considerazioni possiamo capire come la pressione intracranica rappresenti una utile guida al trattamento del paziente con trauma cranico, ma che non debba essere vista come un dogma con valori soglia da rispettare ad ogni costo. Anche la pressione intracranica, come tutti i dati clinici, deve essere sempre contestualizzata. Un conto è una pressione intracranica che aumenta per un ematoma intracranico, per un’ischemia cerebrale, per un idrocefalo; forse un altro peso bisogna dare ad un aumento della pressione intracranica secondario ad un aumento del flusso ematico cerebrale. Che potrebbe anche avere degli aspetti positivi… Alcuni eleganti studi su animali evidenziano, in modelli di ischemia cerebrale, che l’ipercapnia riduce l’estensione e la gravità del danno ischemico ed i deficit neurologici rispetto alla normocapnia, nonostante l’incremento della pressione intracranica (11, 12).

Figura 1. Effetto dell’ipercapnia persistente sul pH liquorale (ref. 15)

Peraltro le variazioni stabili di PaCO2 si associano al graduale riavvicinamento della pressione intracranica verso i valori basali nelle ore successive (12, 13). Questo è giustificato dal fatto che non è la PaCO2 che direttamente modifica il flusso ematico cerebrale ma le variazioni che essa induce sul pH liquorale (14). In breve tempo (ore) il pH liquorare tende a ripristinarsi con valori di PaCO2 stabilmente aumentati (15) (figura 1). Possiamo quindi ragionevolmente prevedere che gli effetti dell’ipercapnia sulla pressione intracranica possano essere modesti e comunque con la tendenza a limitarsi nel tempo, quando essa si sviluppa lentamente. E quando la pressione intracranica tende ad aumentare parallelamente all’incremento di PaCO2, possiamo comunque utilizzare nel frattempo le strategie terapeutiche normalmente adottate per ridurre la pressione intracranica (sedazione, drenaggio liquorale, fluidi ipertonici o iperosmotici).
Infine dobbiamo considerare che la ventilazione con alto volume corrente, oltre ad aumentare di per sè la mortalità quando vi è una ARDS (9), peggiora ossigenazione e metabolismo cerebrali ed aumenta l’attivazione delle cellule cerebrali rispetto all’utilizzo di un volume corrente protettivo (16, 17), anche a parità di PaCO2 (16) (ricordiamo il brain-lung crosstalk).

Possiamo ora concludere dando una risposta motivata alla domanda iniziale:

  • nei pazienti con trauma cranico ci deve essere lo scrupoloso rispetto della ventilazione protettiva per prevenire l’ARDS, condizione a cui sono particolarmente predisposti;
  • se si sviluppa l’ARDS in un soggetto con trauma cranico grave, la ventilazione protettiva va mantenuta senza esitazioni se la pressione intracranica resta entro limiti tollerabili (ragionevolmente entro i 20-25 mmHg). Questo anche se vi dovesse essere ipercapnia. La ventilazione protettiva dovrebbe essere gestita impostando volume corrente e PEEP per minimizzare la driving pressure e, se possibile, contenerla entro i 15 cmH2O;
  • se la pressione intracranica supera i 20-25 mmHg, si devono mettere in pratica tutti gli interventi terapeutici normalmente utilizzati per trattare l’ipertensione intracranica (sedazione/paralisi, drenaggio liquorale, mannitolo o soluzione salina ipertonica, chirurgia per rimuovere eventuali lesioni che espansive);
  • se la pressione intracranica supera stabilmente i 25-30 mmHg, nonostante la terapia medica e chirurgica, l’utilizzo di un volume corrente non protettivi deve essere preso in considerazione con una valutazione integrata dello stato neurologico, delle lesioni presenti alla TC encefalo, di monitoraggi neurologici aggiuntivi (ad esempio la saturazione venosa giugulare o altre metodiche più complesse per i centri che le utilizzano con esperienza), del livello di ipossiemia, dell’assetto cardiocircolatorio, …. Qualora non vi siano controindicazioni alla anticoagulazione (però spesso presenti), in questi casi si può anche valutare la rimozione extracorporea di CO2 o L’ECMO.

L’ipercapnia può essere accettata nel trauma cranico se non scompensa la pressione intracranica ed è la conseguenza inevitabile di una buona ventilazione protettiva. In questo caso l’ipercapnia può essere più una soluzione che un problema…

Un sorriso ed un caro augurio di buon Anno Nuovo a tutti gli amici di ventilab.

* Acute Respiratory Distress Syndrome

Bibliografia.
1. Holland MC, Mackersie RC, Morabito D, et al.: The Development of Acute Lung Injury Is Associated with Worse Neurologic Outcome in Patients with Severe Traumatic Brain Injury: J Trauma Inj Infect Crit Care 2003; 55:106–111
2. Kahn JM, Caldwell EC, Deem S, et al.: Acute lung injury in patients with subarachnoid hemorrhage: Incidence, risk factors, and outcome: Crit Care Med 2006; 34:196–202
3. Mascia L: Acute Lung Injury in Patients with Severe Brain Injury: A Double Hit Model. Neurocrit Care 2009; 11:417–426
4. Mrozek S, Constantin J-M, Geeraerts T: Brain-lung crosstalk: Implications for neurocritical care patients. World J Crit Care Med 2015; 4:163
5. Carney N, Totten AM, OʼReilly C, et al.: Guidelines for the Management of Severe Traumatic Brain Injury, Fourth Edition: Neurosurgery 2017; 80:6–15
6. Coles JP, Minhas PS, Fryer TD, et al.: Effect of hyperventilation on cerebral blood flow in traumatic head injury: Clinical relevance and monitoring correlates. Crit Care Med 2002; 30:1950–1959
7. Imberti R, Bellinzona G, Langer M: Cerebral tissue PO2 and SjvO2 changes during moderate hyperventilation in patients with severe traumatic brain injury. J Neurosurg 2002; 97–102
8. Marion DW, Puccio A, Wisniewski SR, et al.: Effect of hyperventilation on extracellular concentrations of glutamate, lactate, pyruvate, and local cerebral blood flow in patients with severe traumatic brain injury*: Crit Care Med 2002; 30:2619–2625
9. Acute Respiratory Distress Syndrome Network: Ventilation with Lower Tidal Volumes as Compared with Traditional Tidal Volumes for Acute Lung Injury and the Acute Respiratory Distress Syndrome. N Engl J Med 2000; 342:1301–1308
10. Sorrentino E, Diedler J, Kasprowicz M, et al.: Critical Thresholds for Cerebrovascular Reactivity After Traumatic Brain Injury. Neurocrit Care 2012; 16:258–266
11. Simon P: Brain Acidosis Induced by Hypercarbic Ventilation Attenuates Focal lschemic Injury. J Pharmacol Exp Ther 1993; 267:1428–1431
12. Zhou Q, Cao B, Niu L, et al.: Effects of Permissive Hypercapnia on Transient Global Cerebral Ischemia–Reperfusion Injury in Rats: Anesthesiology 2010; 112:288–297
13. Raichle ME, Posner JB, Plum F: Cerebral Blood Flow During. Arch Neurol 1970; 23:394–403
14. Ainslie PN, Duffin J: Integration of cerebrovascular CO2 reactivity and chemoreflex control of breathing: mechanisms of regulation, measurement, and interpretation. Am J Physiol-Regul Integr Comp Physiol 2009; 296:R1473–R1495
15. Messeter K, Siesjö BK: Regulation of the CSF pH in Acute and Sustained Respiratory Acidosis. Acta Physiol Scand 1971; 83:21–30
16. Bickenbach J, Zoremba N, Fries M, et al.: Low Tidal Volume Ventilation in a Porcine Model of Acute Lung Injury Improves Cerebral Tissue Oxygenation: Anesth Analg 2009; 109:847–855
17. Quilez M, Fuster G, Villar J, et al.: Injurious mechanical ventilation affects neuronal activation in ventilated rats. Crit Care 2011; 15:R124

 

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Come impostare la ventilazione meccanica nello shock ipovolemico.

30 set 2018


Può capitare di iniziare la ventilazione meccanica in un paziente con shock ipovolemico. Quando pensiamo allo shock ipovolemico, ci viene subito in mente lo shock emorragico, con ipotensione grave causata dalla evidente perdita acuta di una notevole quantità di sangue. Non dimentichiamo però che esistono anche quadri più subdoli (e probabilmente più frequenti) di shock ipovolemico. Ad esempio pensiamo ad una persone che arriva in Pronto Soccorso dopo alcuni giorni di febbre, vomito e diarrea: non è difficile immaginare che anch’essa possa aver sviluppato una ipovolemia secondaria ad una grave disidratazione e che richieda gli stessi accorgimenti nella ventilazione meccanica che riserviamo allo shock emorragico.

 



Figura 1

Nella figura 1 è schematizzato l’apparato cardiocircolatorio. Il flusso di sangue che esce dal ventricolo sinistro è la portata cardiaca (cardiac output, CO) ed il flusso di sangue che ritorna all’atrio desto è il ritorno venoso (RV). E’ intuitivo che, all’equilibrio, la portata cardiaca ed il ritorno venoso siano uguali. E che quindi la riduzione del ritorno venoso implichi la diminuzione della portata cardiaca.

Il ritorno venoso all’atrio destro è spinto dalla pressione del sistema venulare, che dogmaticamente si assimila alla pressione sistemica media (Pms in figura 1). La pressione sistemica media è determinata sia dalla volemia che dal tono vascolare: la riduzione di uno dei due porta alla riduzione della pressione che spinge il ritorno venoso in atrio destro. In condizioni di ipovolemia, la riduzione della pressione sistemica media e del ritorno venoso può essere limitata grazie all’aumento del tono simpatico (tipico delle condizioni di shock) che incrementa il tono vascolare. In questa condizione a volte è inevitabile dover indurre un’anestesia generale, ad esempio per iniziare la ventilazione invasiva o per eseguire un intervento chirurgico urgente. Questo è un momento particolarmente delicato perchè determina una marcata riduzione del tono simpatico, che in alcuni (per fortuna rari) casi può essere fatale: ricordiamo che l’utilizzo di farmaci vasostrittori può essere salvavita in queste situazioni.

Se la pressione sistemica media è la forza che facilita il ritorno venoso, la pressione in atrio destro (la pressione venosa centrale, PVC in figura 1) ostacola il ritorno venoso. La ventilazione meccanica gioca un ruolo rilevante nella riduzione del ritorno venoso in condizioni di ipovolemia. L’aumento della pressione intratoracica determina un aumento anche della pressionei nei vasi venosi intratoracici e quindi della pressione venosa centrale. Ne consegue che la differenza di pressione tra vene ed atrio destro si riduce e quindi anche il ritorno venoso (vedi nota) (figura 2).


Figura 2

L’effetto della PEEP sul ritorno venoso in questi casi è drammatico. In un modello animale di shock emorragico, l’eliminazione della PEEP determina il miglioramento di portata cardiaca e pressione arteriosa, e consente la sopravvivenza di quasi tutti gli animali. Viceversa mantenere una PEEP di 5 cmH2O o l’incremento della stessa a 10 cmH2O causa la morte di tutti gli animali prima dell’inizio della fase di riespansione volemica (1).

Meno importante è l’effetto del volume corrente, la cui riduzione ha un impatto trascurabile su emodinamica e sopravvienza (2).

L’importanza quasi esclusiva della PEEP è prevedibile: la PEEP è un ostacolo al ritorno venoso che rimane per tutto il ciclo respiratorio, mentre l’espirazione del volume corrente consente una ripresa del ritorno venoso almeno in espirazione.

Da notare che per PEEP si deve intendere la PEEP totale e non la PEEP impostata sul ventilatore meccanico (per la differenza tra le due PEEP vedi post del 10/12/2016). Questo significa che nei pazienti ostruttivi anche la frequenza respiratoria deve essere tenuta bassa (oltre al rapporto I:E). Con la conseguenza dell’ipercapnia, spesso ingiustamente accusata di ogni male, ma che invece può avere numerosi effetti positivi… (vedi post del 03/08/2013). A maggior ragione nei pazienti con shock emorragico, in cui l’incremento della PaCO2 e della ETCO2 possono essere visti come segni positivi di ripristino del circolo.

La PEEP deve però essere gradualmente ripristinata man mano che la pressione arteriosa si stabilizza su valori accettabili. Infatti lo shock emorragico è di per se uno stimolo infiammatorio per il parenchima polmonare (e non solo), ed una ventilazione non protetiva (cioè senza PEEP, peggio se associata ad un elevato volume corrente) amplifica la risposta infiammatoria polmonare e sistemica, con il rischio di facilitare l’insorgenza di ARDS ed insufficienze d’organo (3).

Nel paziente con grave shock emorragico può essere anche utile utilizzare anche una elevata FIO2 nella fase di ipotensione ed anemia. Sappiamo che l’iperossia può essere deleteria, ma per tempi brevi, nella condizione di shock emorragico grave, potrebbe invece essere di aiuto. In uno studio sperimentale è stato infatto dimostrato che la ventilazione con FIO2 1 (rispetto a quella con FIO2 0.21) riduce gli episodi di ipossia tissutale e la mortalità degli animali a 6 ore dall’inizio dello shock (4).

In conclusione, abbiamo buone ragioni per fare una “brutta” ventilazione in caso di grave shock ipovolemico che metta in pericolo la sopravvivenza a breve termine del paziente. In questi casi:

  1. eliminare la PEEP
  2. ridurre la frequenza respiratoria per azzerare l’autoPEEP, cioè consentendo al flusso espiratorio di azzerarsi prima dell’inizio dell’espirazione successiva;
  3. mantenere un volume corrente ragionevole (a buon senso un 7-8 ml/kg di peso ideale, in assenza di particolari danni polmonari)
  4. tollerare l’ipercapnia
  5. utilizzare una elevata FIO2 (anche 1)
  6. appena si ripristina un sufficiente compenso cardiocircolatorio, utilizzare subito la PEEP e ridurre la FIO2 per mantenere la normossiemia (PaO2 tra 60 e 100 mmHg).

E come sempre, un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

Nota: Un piccolo dettaglio fisiologico per i più interessati all’argomento. Questa è la teoria classica del ritorno venoso che attribuisce poca importanza alle resistenze venose. In realtà sembra che la pressione positiva intratoracica agisca prevalentemente aumentando le resistenze venose piuttosto che riducendo la differenza di pressione che guida il ritorno venoso (5-8).

 

Bibliografia.

  1. Krismer AC et al. Influence of positive end-expiratory pressure ventilation on survival during severe hemorrhagic shock. Ann Emerg Med 2005; 46:337-42
  2. Herff H et al. Influence of ventilation strategies on survival in severe controlled hemorrhagic shock. Crit Care Med 2008; 36:2613-20
  3. Bouadma L et al. Mechanical ventilation and hemorrhagic shock-resuscitation interact to increase inflammatory cytokine release in rats. Crit Care Med 2007; 35:2601-6
  4. Meier J et al. Hyperoxic ventilation reduces six-hour mortality after partial fluid resuscitation from hemorrhagic shock. Shock 2004; 22:240-7
  5. Scharf SM et al. Cardiovascular effects of increasing airway pressure in the dog. Am J Physiol 1977; 232:H35-43
  6. Fessler HE et al. Effects of positive end-expiratory pressure on the gradient for venous return. Am Rev Respir Dis 1991; 143:19-24
  7. Nanas S et al. Adaptations of the peripheral circulation to PEEP. Am Rev Respir Dis 1992; 146:688-93
  8. Jellinek H et al. Influence of positive airway pressure on the pressure gradient for venous return in humans. J Appl Physiol
    2000; 88:926-32
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Tracheostomia precoce o tardiva: la risposta è nelle meta-analisi? La qualità della risposta dipende dalla qualità della domanda...

26 ago 2018


Rinaldo è un uomo di 74 anni che da una settimana è sottoposto a ventilazione meccanica invasiva per una riacutizzazione di BroncoPneumopatia Cronica Ostruttiva (BPCO) associata ad una polmonite comunitaria. Quando si riduce il supporto inspiratorio sotto i 10 cmH2O accusa immediatamente dispnea ed ha respiro rapido e superficiale.

Durante la definizione del piano di cura si discute se procedere alla tracheotomia il giorno successivo oppure rimandare la decisione al completamento di almeno due settimane di ventilazione meccanica.

Che atteggiamento ti sembra più appropriato? Ritieni sia giustificata la tracheotmia dopo la prima settimana di ventilazione in assenza di una ragionevole previsione di estubazione nei giorni successivi? Oppure pensi che siano necessarie almeno un paio di settimane di intubazione tracheale prima di arrivare alla proposta di tracheotomia?

In Italia la tracheotomia viene eseguita mediamente dopo 9 giorni dall’inizio della ventilazione meccanica (rapporto Prosafe 2017), con la tendenza a procrastinarla rispetto a qualche anno prima (nel 2011 la si eseguiva mediamente dopo 7 giorni, rapporto Prosafe 2011).

Quale è il timing preferibile per la tracheotomia alla luce delle nostre conoscenze mediche?

Su questo argomento è spesso citata una meta-analisi piuttosto recente (del 2015) (1). Ricordo che le meta-analisi sono analisi quantitative che mettono insieme i risultati di tutti gli studi pubblicati su uno stesso argomento e sono ritenute dai più il massimo livello di evidenza in medicina, un vero totem della sedicente (cioè che se lo dice da sola) Evidence-Based Medicine.

Leggiamo subito le conclusioni dell’abstract della meta-analisi citata, approccio frequente nella Evidence-based Medicine di tutti i giorni: “We found no evidence that early (within 10 days) tracheostomy reduced mortality, duration of mechanical ventilation, intensive care stay, or VAP. Early tracheostomy leads to more procedures and a shorter duration of sedation.” Il problema sembra risolto: la tracheotomia fatta prima dei 10 giorni aumenta il numero di tracheotomie senza offrire nessun beneficio (a parte la riduzione della durata della sedazione). Quindi una invasività evitabile se si attendono almeno 10 giorni prima di prendere una decisione. Nel caso di Rinaldo, quindi dovremmo attendere prima di prendere una decisione.

Esiste però anche un’altra meta-analisi sullo stesso argomento, peraltro pubblicata nello stesso anno (2). Ci aspettiamo evidentemente che dica la stessa cosa (stessa metodologia, stesso argomento), ma nella conclusione dell’abstract (la summa della Evidence-based Medicine) leggiamo: “This updated meta-analysis reveals that early tracheotomy is associated with higher tracheotomy rates and better outcomes, including more ventilator-free days, shorter ICU stays, less sedation, and reduced long-term mortality, compared to late tracheotomy.“. Questa meta-analisi conferma che la tracheotomia precoce aumenta il numero di tracheotomie che si fanno ai nostri pazienti e riduce i tempi di sedazione, ma, contrariamente alla precedente, documenta un miglioramento di importanti esiti clinici associati a questa scelta: meno giorni di ventilazione meccanica, degenze più brevi in Terapia Intensiva e riduzione della mortalità a lungo termine. Pensando a Rinaldo, a questo punto dovremmo procedere subito alla tracheotomia.

Ma, alla fine, la tracheotomia a Rinaldo la facciamo subito o aspettiamo? Perchè queste differenze paradossali tra le due meta-analisi? Come risovere il dilemma?

Le due meta-analisi danno risultati differenti perchè hanno incluso studi differenti. Strano ma vero. Nove studi sono stati inclusi in entrambe le meta-analisi, ma altri 8 sono analizzati solo o in una o nell’altra. Un primo elemento di prudenza verso le meta-analisi: in teoria gli studi analizzati dovrebbero essere scelti con metodologia “scientifica” che dovrebbe portare ad una selezione imparziale. Ma in realtà, come abbiamo visto, il risultato non è sempre questo…

Ma il vero, grande peccato originale delle meta-analisi, frutto dell’ingenuo entusiasmo di dare certezze, è che raggruppano strategie cliniche in realtà differenti in un’unico gruppo, facendo finta che siano uguali. Nello nostro caso specifico sono analizzati insieme sotto lo slogan “tracheotomia precoce” studi in cui “precoce” significa “2 giorni dall’inizio della ventilazione meccanica” e studi in cui “precoce” significa “10 giorni dopo l’inizio della ventilazione”. Qualunque clinico sa che una tracheotomia dopo 2 (due!) giorni di ventilazione meccanica ha implicazioni completamente diverse da una dopo 10 giorni di ventilazione. Sotto lo slogan “tracheotomia tardiva” sono analizzati congiuntamenti studi che definiscono “tardivasia la tracheotomia eseguita dopo 6 giorni di ventilazione meccanica (sì, proprio 6, che per altri studi è invece un timing da trachetomia precoce) che dopo 28 (ventotto!) giorni di ventilazione meccanica.

Tra le due meta-analisi citate, quella di Hosokawa (2) (quella favorevole alla tracheostomia precoce) in realtà presenta anche una sotto-analisi che analizza (seppur in modo opinabile) gli effetti di strategie di durata simile del periodo di ventilazione meccanica precedente alla tracheotomia. Per questo motivo sarebbe da preferire (oltre per il fatto che includere uno studio di rilievo del 2014 (3) non considerato dalla meta-analisi di Szakmany (1)).

Ma il problema da cui siamo partiti era: a Rinaldo proponiamo la tracheotomia dopo la prima o dopo la seconda settimana di ventilazione meccanica? Dei 17 studi originali variamente inclusi nelle due meta-analisi, solo 2 studi confrontano proprio questi timing delle tracheotomie (3,4). La risposta alla nostra domanda potrebbe essere aiutata dalle conoscenze che possiamo acquisire dalla attenta lettura di questi due studi. Lo studio di Terragni (4) ha però tra i criteri di esclusione la presenza di BPCO o di polmonite, condizioni entrambe presenti in Rinaldo. Quindi non prenderemo in considerazione i suoi risultati per supportare una decisione su Rinaldo.

Lo studio di Diaz-Prieto (3) ha un protocollo piuttosto complesso (che per brevità non descrivo) ma che consente di verificare l’effetto della tracheotomia entro 8 giorni o dopo 14 giorni di ventilazione meccanica. In questo trial preferisco leggere l’analisi per protocollo, che ha una metodologia molto simile a quella utilizzata nella comune pratica clinica (nei commenti, se qualcuno fosse interessato, possiamo vedere il perchè). I risultati, espressi nel dettaglio in figura 1, supportano che la tracheotomia entro gli 8 giorni (se clinicamente appropriata, vedi il protocollo dello studio) riduce i giorni di ventilazione meccanica, la degenza in Terapia Intensiva, la durata della sedazione e molto probabilmente anche la mortalità ospedaliera ed a 90 giorni.


Figura 1

A questo punto mi sembra ragionevole proporre a Rinaldo la tracheotomia dopo la prima settimana di ventilazione, visto che non sembra prevedibile una estubazione nei giorni successivi.

Il post di oggi ci può aiutare a comprendere perchè la letteratura medica non produce certezze, ma “solo” (e non è poco) progresso nelle conoscenze. Penso che questa prospettiva sia un modo sano di approcciarsi al metodo scientifico applicato alla medicina (che scienza non è) (5). Evitiamo di sbandierare acriticamente le conclusioni degli abstract come se fossero certezze. Non possiamo credere alla favola che, con una ricerca bibliografica, si possa diventare esperti di argomenti sui quali non siamo competenti. Dobbiamo imparare a leggere e studiare criticamente la letteratura medica. Ci vuole tempo, pazienza, competenza, insomma un lavoraccio. Ma, come dice il saggio, ogni lungo viaggio inizia con un primo passo: prima si inizia, prima si arriva. Progressivamente potremo capire sempre meglio i problemi che affrontiamo ogni giorno, e magari offrire soluzioni appropriate ed originali per ogni singolo caso.

Riassumendo i punti principali:

  • la tracheotomia dopo una settimana di ventilazione meccanica appare giustificata in assenza di una ragionevole aspettativa di una estubazione nei giorni successivi;
  • gli studi clinici devono essere letti con attenzione (soprattutto nei materiali e metodi) e non citati a pappagallo le conclusioni dei loro abstract. Un risultato ha un senso solo ed esclusivamente se siamo consapevoli delle condizioni in cui è stato ottenuto;
  • le meta-analisi possono essere fuorvianti. Se ne possono accettare le conclusioni solo dopo averle lette con attenzione, guardando anche la letteratura originale a cui fanno riferimento.

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

Bibliografia

  1. Szakmany T et al. Effect of early tracheostomy on resource utilization and clinical outcomes in critically ill patients: meta-analysis of randomized controlled trials. Br J Anaesth 2015; 114:396-405
  2. Hosokawa K et al. Timing of tracheotomy in ICU patients: a systematic review of randomized controlled trials. Crit Care 2015; 19:424
  3. Diaz-Prieto A et al. A randomized clinical trial for the timing of tracheotomy in critically ill patients: factors precluding inclusion in a single center study. Crit Care 2014; 18:585
  4. Terragni PP et al. Early vs late tracheotomy for prevention of pneumonia in mechanically ventilated adult ICU patients: a randomized controlled trial. JAMA 2010; 303:1483-9
  5. Cosmacini G. La medicina non è una scienza. Breve storia delle sue scienze di base. Raffaello Cortina Editore, 2008

 

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Sedazione ed intubazione tracheale: evadere dai luoghi comuni

29 lug 2018


La sedazione nel paziente con intubazione tracheale è una profezia che si autoavvera. Esiste infatti la credenza che il paziente intubato debba ricevere una qualche forma di sedazione per poter tollerare la presenza del tubo tracheale. E da questa convinzione, che nasce da un pre-giudizio, si giunge alla somministrazione routinaria di sedazione, la quale a sua volta rende paziente e curanti dipenti da essa.
Se ripenso alla mia pratica clinica quotidiana, ed a quanto si può leggere nella letteratura medica, constato invece che l’eliminazione della sedazione nel paziente intubato non solo è 1) possibile ma 2) migliora la qualità e  3) aumenta l’efficacia delle cure intensive.

Non sedare il paziente con intubazione tracheale è possibile

Sembra impossibile solo a chi non lo fa. E’ assolutamente normale che il paziente intubato tolleri serenamente il tubo tracheale anche senza sedazione. Provare per credere. Per me, da almeno una quindicina di anni, è la regola vedere pazienti con insufficienza respiratoria e ventilazione meccanica che sono tranquilli e lucidamente consapevoli di sè e della propria condizione, con l’assenza di qualsiasi forma di sedazione.

Ci possono essere delle eccezioni, che si limitano però a pazienti con agitazione o delirium ipercinetico. E’ peraltro utile ricordare che il miglior modo per facilitare l’insorgenza di delirium è somministrare farmaci sedativi… Nei pazienti con agitazione, la somministrazione di sedativi può essere appropriata e modulata per ridurre l’agitazione (ad esempio per ottenere una RASS di 0 o 1), evitando se possibile la classica sedazione con il paziente assopito (RASS -1 o inferiore) (figura 1) .


Figura 1. Richmond Agitation-Sedation Scale (RASS)

 

Non sedare il paziente con intubazione tracheale migliora la qualità della cura

La qualità della Terapia Intensiva senza sedazione migliora umanamente: il paziente non è più un corpo senz’anima, ma riconquista la struttura e la dignità di persona, di un essere umano con pensieri e sentimenti, speranze e paure, che entra in relazione con i propri affetti e con le persone che gli prestano assistenza e cura. Smette di essere “il numero 5” e torna ad essere “Giovanna” o “Marco”, condizione quasi impossibile quando manca l’interazione personale, come tipicamente avviene nel paziente sedato. “Giovanna” o “Marco” sono anche più impegnativi da gestire del “numero 5”, hanno esigenze e difficoltà da assecondare che un corpo dormiente non pone. Tutto questo aumenta il carico di lavoro, fisico ed emotivo, del personale della Terapia Intensiva, in particolare degli infermieri. Per gli infermieri la gestione del paziente non sedato è segno tangibile di una elevata capacità professionale ed umana. E’ qui che si afferma una professionalità non rivendicata a priori ma dimostrata come reale valore. Senza una convinta adesione degli infermieri, il paziente senza sedazione non può andare lontano. Ho la possibilità di trattare regolarmente pazienti intubati e non sedati grazie all’eccellente equipe infermieristica del reparto. Questa condizione non nasce per caso, ma da una lunga opera di educazione e di attrazione di persone con un elevato spessore umano e professionale.

Non sedare il paziente con intubazione tracheale aumenta l’efficacia del trattamento

Per capire l’efficacia clinica della scelta di minimizzare la sedazione diamo uno sguardo a ciò che ci dice la letteratura medica.

La ventilazione meccanica invasiva inizia con una anestesia generale per consentire l’intubazione tracheale. Al termine del tempo necessario per far cessare l’effetto clinico dei farmaci utilizzati (al massimo un’ora per ottenere il recupero completo della miorisoluzione), si può decidere se risvegliare il paziente o se proseguire per un certo periodo con la somministrazione di sedativi per ottenere una sedazione profonda più prolungata (una RASS uguale o inferiore a 3, vedi tabella 1). Quando possibile (non sempre lo è) il risveglio precoce dovrebbe essere preferibile. Esistono infatti studi che documentano una associazione  tra il mantenimento della sedazione nei primi giorni di ventilazione meccanica e la mortalità: in altri termini chi viene mantenuto sedato nei primi giorni ha una mortalità più elevata di chi viene risvegliato, anche “pesando” il dato per i confondenti noti (1-3).

Evitare la sedazione riduce la durata della ventilazione meccanica e la durata della degenza in Terapia Intensiva ed in ospedale (con la tendenza anche alla riduzione della mortalità in Terapia Intensiva) (4). Nello studio citato, nei pazienti senza sedazione potevano essere somministrati propofol, oppioidi o aloperidolo in caso di necessità, altrimenti i pazienti erano lasciati senza alcun sedativo di fondo (un approccio molto simile a quello che seguo personalmente). Esistono molti altri dati (che per brevità non analizziamo) che supportano il concetto che la riduzione della sedazione si associa alla riduzione della durata della ventilazione meccanica. Se qualcuno fosse interessato, ne potremo discutere nei commenti.

Figura 2 (tratta da Nseir S et al. Intensive care unit-acquired infection as a side effect of sedation. Crit Care 2010; 14:R30)

 

La sedazione favorisce l’insorgenza delle infezioni, prolungando l’esposizione ai fattori di rischio per le infezioni (4), quali la microaspirazione, la riduzione della motilità gastrointesinale, le perdita della regolazione della microcircolazione e l’alterazione della risposta immunitaria (figure 2, 3 e 4).


Figura 3 (tratta da Nseir S et al. Intensive care unit-acquired infection as a side effect of sedation. Crit Care 2010; 14:R30)

Il possibile aumento dell’esposizione alle infezioni è certamente un problema rilevante nel trattamento dei pazienti critici, associandosi, oltre al possibile impatto clinico, anche alla problematica dell’emergenza della multiresistenza batterica agli antibiotici che necessariamente devono essere utilizzati per il trattamento delle infezioni.



Figura 4 (tratta da Nseir S et al. Intensive care unit-acquired infection as a side effect of sedation. Crit Care 2010; 14:R30)

Evitare la somministrazione routinaria della sedazione ha un effetto favorevole anche sulla funzione renale, aumentando la diuresi e riducendo il numero di pazienti con disfunzione renale (6).

La somminsitrazione notturna di sedativi (propofol) per mantenere una RASS di -3 (vedi sempre la tabella 1), fatta nel tentativo di favorire il sonno, in realtà peggiora la qualità del sonno rispetto all’assenza di sedazione, riducendo numero e durata dei periodi di sonno REM (7).

Sedare i pazienti almeno li protegge dagli effetti sulla sfera psichica associati alla malattia ed alla degenza in Terapia Intensiva? Sembra proprio di no, nemmeno questo. Alcuni studi mostrano che, a distanza di mesi dal ricovero in Terapia Intensiva, i pazienti sedati e quelli non sedati presentano lo stesso livello di Post Traumatic Stress Disorder (cioè ansietà, depressione, incubi, …) (8,9). Uno studio retrospettivo (quindi da valutare con cautela) addirittura trova un’associazione tra Post Traumatic Stress Disorder a sei mesi e la somministrazione di propofol in fase acuta nei pazienti con trauma (10).

Conclusioni

Abbiamo visto che la sedazione non è necessaria per gestire un paziente intubato. Ed abbiamo visto che si può associare a conseguenze cliniche sfavorevoli. La conclusione ovvia è che dovremmo usare i sedativi solo quando necessario per la gestione clinica (trauma cranico grave, ARDS grave, ecc.) o per sedare pazienti gravemente agitati (es. RASS ≥ 2-3).

Penso sia utile essere consapevoli di alcune resistenze a questa strategia.

Una prima resistenza viene dall’abitudine di medici ed infermieri, che hanno ereditato una cultura “di altri tempi”, quando esistevano modalità ed approcci “arcaici” di ventilazione meccanica, quando i pazienti erano più giovani e le degenze più brevi (in poco tempo le cose andavano o bene o male). Oggi, con possibilità di ventilazione più sofisticate, spesso non abbiamo bisogno della sedazione per “adattare” il paziente al ventilatore; l’indicazione al ricovero in Terapia Intensiva si è estesa anche a pazienti anziani ed a condizioni di estrema gravità che possono trovare soluzione solo in tempi lunghi di cura. Dobbiamo necessariamente cambiare la mentalità sulla sedazione. I cambi di mentalità sono sempre lenti, ma se si dove arrivare, prima o poi ci si arriva. Il problema sta nel non vedere lucidamente la direzione da percorrere.

Una seconda resistenza nasce dall’equivoco sul significato dell’ospedale senza dolore. Bisognerebbe essere consapevoli che, se mal interpretato, l’ospedale senza dolore rischia di diventare un ossimoro. L’ospedale è un luogo per la cura della malattia, condizione di sofferenza psichica e fisica. E’ certamente compito del medico lenire farmacologicamente questa sofferenza a patto di non danneggiare la persona curata. Le cure palliative sono l’unico ambito dove la cura della sofferenza passa davanti a tutto. Negli altri contesti di cura, il trattamento farmacologico della sofferenza deve essere bilanciato con gli effetti sfavorevoli. Spero che sia venuto almeno il dubbio che quel paziente mezzo addormentato dai sedativi, che apparentemente non soffre,  possa pagare questa condizione con una maggior possibilità di prolungare la ventilazione meccanica, di avere infezioni, di avere insufficienza renale, di morire. Questi concetti devono essere condivisi con le famiglie dei nostri pazienti, sempre comprensibilmente preoccupate di evitare ogni sofferenza al proprio caro, ma spesso non consapevoli del costo biologico e clinico che questa scelta comporta.

Non dimentichiamo infine che possiamo essere esposti al rischio di utilizzare sedativi anche grazie all’informazione scientifica di chi li produce. Informazione scientifica spesso utile e preziosa per l’aggiornamento professionale, ma non sempre disinteressata.

Un sorriso agli amici di ventilab e buone vacanze!

 

Bigliografia

  1. Shehabi Y et al. Early intensive care sedation predicts long-term mortality in ventilated critically ill patients. Am J Respir Crit Care Med 2012; 186:724-31
  2. Shehabi Y et al. Sedation depth and long-term mortality in mechanically ventilated critically ill adults: a prospective longitudinal multicentre cohort study. Intensive Care Med 2013; 39:910-8
  3. Balzer F et al. Early deep sedation is associated with decreased in-hospital and two-year follow-up survival. Crit Care 2015; 19:197
  4. Strøm T et al. A protocol of no sedation for critically ill patients receiving mechanical ventilation: a randomised trial. Lancet 2010; 375:475-80
  5. Nseir S et al. Intensive care unit-acquired infection as a side effect of sedation. Crit Care 2010; 14:R30
  6. Strøm T et al. Sedation and renal impairment in critically ill patients: a post hoc analysis of a randomized trial. Crit Care 2011; 15:R119
  7. Kondili E et al. Effects of propofol on sleep quality in mechanically ventilated critically ill patients: a physiological study. Intensive Care Med 2012; 38:1640-6
  8. Treggiari MM et al. Randomized trial of light versus deep sedation on mental health after critical illness. Crit Care Med 2009; 37:2527-34
  9. Strøm T et al. Long-term psychological effects of a no-sedation protocol in critically ill patients. Crit Care 2011; 15:R293
  10. Usuki M et al. Potential impact of propofol immediately after motor vehicle accident on later symptoms of posttraumatic stress disorder at 6-month follow up: a retrospective cohort study. Crit Care 2012; 16:R196
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Ventilazione non-invasiva e BPCO riacutizzata: non è la panacea!

25 apr 2018


La ventilazione non-invasiva è ritenuta il trattamento di prima scelta nell’insufficienza respiratoria secondaria a riacutizzazione di broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO). Questa è opinione comune ed anche una raccomadazione forte della recente ed autorevole linea guida sulla ventilazione non-invasiva di European Respiratory Society/American Thoracic Society (ERS/ATS) (1): “We recommend bilevel NIV for patients with ARF leading to acute or acute-on-chronic respiratory acidosis ( pH ⩽7.35) due to COPD exacerbation. (Strong recommendation, high certainty of evidence.)“.

La stessa raccomandazione è stata proposta qualche anno prima anche dalla linea guida della Canadian Critical Care Society (2): “We recommend the use of NPPV in addition to usual care in patients who have a severe exacerbation of COPD (pH < 7.35 and relative hypercarbia). Grade 1A

Non ci sono proprio dubbi quindi e, questa volta, mi sento di condividere pienamente queste raccomadazioni: la riacutizzazzione di BPCO è trattata in maniera appropriata con la ventilazione non-invasiva

Tuttavia nella mia pratica clinica quotidiana ho regolarmente pazienti con riacutizzazione di BPCO che sono intubati e sottoposti a ventilazione invasiva. Come conciliare questa semplice osservazione con quanto quanto finira affermato? Sbaglio qualcosa oppure le raccomandazioni delle linee guida devono essere commentate ed approfondite?

Esistono casi in cui i pazienti con riacutizzazione di BPCO devono essere intubati e ventilati invasivamente? Quando dobbiamo considerare fallita la ventilazione non-invasiva in questo tipo di pazienti? La risposta a queste domande è fondamentale per capire quando non utilizzare (o smettere di utilizzare) la ventilazione non-invasiva pur nella sua indicazione più appropriata.

Innanzitutto dobbiamo considerare che la scelta della ventilazione non-invasiva è condizionata dal livello di gravità di riacutizzazione di BPCO. La linea guida ERS/ATS (1) cita a supporto della propria raccomandazione 24 studi. Nella quasi totalità dei casi (22 su 24), la ventilazione non-invasiva era confrontata all’ossigenoterapia. La raccomadazione della linea guida canadese è esplicitamente rivolta al confronto tra ventilazione non-invasiva ed ossigenoterapia ed analizza 14 trial randomizzati e controllati (2). Ne concludiamo quindi che le raccomandazioni precedenti vanno intese più correttamente in questo modo: la ventilazione non-invasiva deve essere preferita all’ossigenoterapia (non all’intubazione tracheale). Infatti la linea guida ERS/ATS nelle considerazioni per l’implemetazione dice: “Bilevel NIV should be considered when the pH is ⩽7.35, PaCO2 is >45 mmHg and the respiratory rate is >20–24 breaths/min despite standard medical therapy.

Pensiamo a chi conduce uno studio controllato e randomizzato su BPCO riacutizzati ed assegna casualmente i pazienti alla ventilazione non-invasiva o all’ossigenoterapia: evidentemente deve arruolare pazienti che NON abbiano la NECESSITA‘ di essere ventilati, perchè altrimenti sarebbe un crimine assegnarli all’ossigenoterapia. Dobbiamo quindi pensare a pazienti che potrebbe essere lecito ventilare ma potrebbe anche non essere necessario. Questo è confermato dai criteri di inclusione nei trial clinici, che solitamente sono, tra gli altri, un pH < 7.35 con frequenza respiratoria > 20-30/min: quindi pazienti con insufficienza respiratoria lieve-moderata (dal punto di vista del rianimatore). In questi pazienti la ventilazione non-invasiva è da preferire alla ossigenoterapia perchè riduce la probabilità di intubazione e la mortalità. Da notare che da questi studi sono esclusi a priori i pazienti che non tollerano la ventilazione non-invasiva. Dobbiamo quindi pensare che per essere efficace la ventilazione non-invasiva abbia probabilmente bisogno di essere fatta efficacemente in pazienti collaboranti.

Nella pratica clinica la ventilazione non-invasiva viene però presa in considerazione nella riacutizzazione di BPCO anche per situazioni più gravi, cioè quando la ventilazione meccanica (invasiva o non-invasiva) è assolutamente necessaria.

La ventilazione non-invasiva è efficace anche in questi casi? Ci sono studi che ne supportano l’utilizzo? Cosa dicono le linee guida?

Abbiamo a disposizione un unico studio controllato “serio” in pazienti con grave riacutizzazione di BPCO in cui i pazienti siano stati randomizzati per la ventilazione non-invasiva o per l’intubazione tracheale+ventilazione invasiva (3). In questo caso erano arruolati pazienti con una condizione più grave, con pH < 7.20 o frequenza respiratoria ≥ 35/min. In questi pazienti non vi era differenza significativa di mortalità tra ventilazione non-invasiva (26%) ed intubazione (19%) nè di durata della degenza in Terapia Intensiva (22 vs. 21 giorni in media). Un dato da non trascurare è però l’elevata frequenza di fallimento della ventilazione non-invasiva (il 52% dei pazienti ad essa assegnati è stato alla fine intubato) e l’elevata mortalità nei pazienti con fallimento della ventilazione non-invasiva (42%).

In altre parole, nei pazienti con grave riacutizzazione di BPCO e necessità di supporto ventilatorio, la ventilazione non-invasiva non offre rilevanti vantaggi clinici rispetto all’intubazione, fallisce una volta su due e quando fallisce la mortalità è molto elevata. Visti da un altro punto di vista, gli stessi numeri ci dicono però che circa la metà di questi pazienti evita efficacemente l’intubazione tracheale.

Cosa concludiamo quindi per i pazienti con grave riacutizzazione di BPCO (quelli che dobbiamo necessariamente ventilare)? Ventilazione non-invasiva o intubazione? I dati a supporto della ventilazione non-invasiva abbiamo visto essere tutt’altro che decisivi. Ed infatti linee guida differenti offrono raccomandazioni differenti. La linea guida (ERS/ATS) (1) raccomada comunque per un tentativo di ventilazione non-invasiva: “We recommend a trial of bilevel NIV in patients considered to require endotracheal intubation and mechanical ventilation, unless the patient is immediately deteriorating. (Strong recommendation, moderate certainty of evidence.)“. Al contrario la linea guida canadese (2) non prende posizione: “We make no recommendation about the use of NPPV versus intubation and conventional mechanical ventilation in patients who have a severe exacerbation of COPD that requires ventilator support, because of insufficient evidence“. Stesse fonti bibliografiche, conclusioni diverse, entrambe proposte con certezza. Quindi incertezza.

A mio parere può essere una scelta di buon senso fare un primo tentativo di ventilazione non-invasiva nei pazienti con grave riacutizzazione di BPCO se sono stabili dal punto di vista cardiocircolatorio, non hanno ipossiemia grave con infiltrati polmonari (terreno minato per la ventilazione non-invasiva) e se hanno uno stato di coscienza normale o sono facilmente risvegliabili. Si deve essere consapevoli che più è basso il pH e maggiore è il rischio di fallimento della ventilazione non-invasiva, e che quindi il paziente deve essere strettamente monitorato con la possibilità di una rapida intubazione tracheale qualora non migliori (“the lower the pH, the greater risk of failure, and patients must be very closely monitored with rapid access to endotracheal intubation and invasive ventilation if not improving.“)(1).

Domanda decisiva: quanto bisogna aspettare il miglioramento prima di passare all’intubazione? Nel BPCO riacutizzato è una partita di poche ore (non di giorni!!!): Conti e coll. (3) hanno intubato il 75% dei fallimenti della ventilazione non-invasiva tra 2 e 6 ore dal suo inizio, la linea guida ERS/ATS propone una finestra temporale di 1-4 ore per cogliere i miglioramenti che ci attendiamo dalla ventilazione non-invasiva (1). Sappiamo che già dopo un paio d’ore dall’inizio della ventilazione non-invasiva la probabilità di intubazione è molto elevata se il pH rimane inferiore a 7.25-7.30, se persiste uno stato di coscienza alterato, se la frequenza respiratoria non si riduce sotto i 30/min (4) (figura 1).


Figura 1

Ne consegue che il fallimento della ventilazione non-invasiva dovrebbe essere identificato il più precocemente possibile, senza incapponirsi in ostinati ed estenuanti prolungamenti se non si assiste ad un rapido miglioramento.

Un’ultima considerazione spesso trascurata: modalità e criteri di impostazione della ventilazione non-invasiva nella riacutizzazione di BPCO. E’ incredibile come spesso si parli di ventilazione non-invasiva senza definirne i dettagli. Mutatis mutandis, è come se si parlasse dell’efficacia della terapia antibiotica nelle polmoniti comunitarie, trascurando di definire quali antibiotici usare ed a quale dosaggio…

Questo aspetto è già stato trattato in precedenza (vedi ad esempio il post del 30/04/2017), qui per necessità di sintesi proponiamo una ricetta semplificata ma ragionevole. I trial clinici sulla ventilazione non-invasiva nel BPCO riacutizzato hanno in comune un medesimo razionale nella scelta di modalità di ventilazione e parametri ventilatori. E’ utilizzata una ventilazione pressometrica (l’onda di flusso decrescente è preferibile nel paziente con dispnea) con elevato supporto inspiratorio (per mettere a riposo i muscoli respiratori) e bassa PEEP (compromesso tra eventuale riduzione di carico soglia ed incremento del probabilmente già elevato volume polmonare di fine espirazione). Quindi può andare bene una ventilazione a pressione di supporto o una assistita controllata pressometrica, con un supporto inspiratorio fino al massimo tollerato dal paziente (con un volume corrente di almeno 7-8 ml/kg di peso ideale) che porti ad ottenere una frequenza respiratoria inferiore a 25/min, associata ad una PEEP di 3-5 cmH2O.

Come sempre, concludiamo riassumendo in pochi punti la strategia della ventilazione non-invasiva nella riacutizzazione di BPCO (queste considerazioni NON sono valide per altre forme di insufficienza respiratoria):

  • la ventilazione non-invasiva deve essere il primo approccio al paziente con pH <7.35, a patto che sia stabile dal punto di vista cardiovascolare, che non vi sia una ipossiemia grave o alterazioni rilevanti dello stato di coscienza;
  • il ventilatore dovrebbe essere impostato con ventilazione pressometrica (onda di flusso decrescente), supporto inspiratorio elevato (per ottenere una frequenza respiratoria < 25/min con volume corrente) e PEEP 3-5 cmH2O.
  • l’intubazione tracheale deve sostituire la ventilazione non invasiva entro qualche ora dal suo inizio se non si progredisce chiaramente verso la normalizzazione del pH, se non si riduce dispnea e frequenza respiratoria, se persistono le alterazioni del sensorio. Proseguire in queste condizioni la ventilazione non-invasiva non significa essere “fighi” ma temerari;
  • nei casi in cui il pH è molto basso (<7.20-7.25), in cui si hanno alterazioni del sensorio o quando vi sia associata una grave ipossiemia, può essere ragionevole un breve iniziale trial di ventilazione non-invasiva, a patto che si passi immediatamente all’intubazione tracheale in caso di risposta clinica insoddisfacente.

Come sempre, un sorriso agli amici di ventilab.

Bibliografia.

  1. Rochwerg B et al. Official ERS/ATS clinical practice guidelines: noninvasive ventilation for acute respiratory failure. Eur Respir J 2017; 50: 1602426
  2. Keenan SP et al. Clinical practice guidelines for the use of noninvasive positive-pressure ventilation and noninvasive continuous positive airway pressure in the acute care setting. CMAJ 2011; 183:E195-214
  3. Conti G et al. Noninvasive vs. conventional mechanical ventilation in patients with chronic obstructive pulmonary disease after failure of medical treatment in the ward: a randomized trial. Intensive Care Med 2002; 28:1701-7
  4. Confalonieri M et al. A chart of failure risk for noninvasive ventilation in patients with COPD exacerbation. Eur Respir J 2005;25:348-55
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Ipercapnia e ARDS, cambia qualcosa? Parte seconda: implicazioni cliniche

25 mar 2018


Nel post del 17/02/2018 abbiamo accennato ai risultati di uno studio che ha recentemente documentato un’associazione tra ipercapnia e mortalità nella ARDS (1). Abbiamo considerato che il disegno di questo studio è molto debole e che quindi si deve ragionare bene su questa associazione prima di attribuirle un rapporto causa-effetto.

Si è anche evidenziato come l’ipercapnia sia la conseguenza (e non la causa) di un grave mismatch ventilazione-perfusione, che determina un aumento dello spazio morto alveolare, un ben noto fattore di rischio per la mortalità nei pazienti con ARDS (2).

L’acidosi respiratoria sembra avere effetti clinici e fisiologici più positivi che negativi, come puoi vedere in sintesi nel post del 03/08/2013.

Considerando però l’eventualità di un impatto negativo dell’ipercapnia sull’outcome, analizziamo oggi solo la ripercussione che generalmente le viene attribuita come più frequente e grave: il cuore polmonare acuto, cioè lo scompenso cardiaco acuto destro indotto dal rapido incremento delle resistenze vascolari polmonari.

L’acidosi respiratoria nella ARDS determinerebbe infatti l’aumento delle resistenze vascolari polmonari, alla base del cuore polmonare acuto. Ma siamo sicuri che sia proprio così?

Lo studio clinico probabilmente determinante per supportare il ruolo dell’ipercapnia nella genesi dello scompenso cardiaco destro ha arruolato 11 pazienti con ARDS ventilati per 1 ora, in successione, con due* diverse impostazioni del ventilatore (3). Al termine di un periodo con “bassa frequenza respiratoria ” (VT 8.5 ml/kg x 15/min) il pH era mediamente 7.30 e la PaCO2 52 mmHg, dopo 1 ora con “basso volume corrente” (VT 5.3 ml/kg x 26/min) il pH diminuiva a  7.17 e la PaCO2 aumentava a 71 mmHg. Nella condizione di acidosi respiratoria più grave si osservava una riduzione dell’indice cardiaco ed una dilatazione del ventricolo destro rispetto al ventricolo sinistro (aumento del rapporto tra le aree telediastoliche).

Questo studio presenta però un limite rilevante (del quale non sento normalmente parlare) che non consente di supportare che l’ipercapnia sia la causa del cuore polmonare acuto. Infatti durante la ventilazione “più ipercapnica” è stata anche raddoppiata la PEEP rispetto al ventilazione “meno ipercapnica”! E sappiamo bene che l’incremento della PEEP può dare di per sè un contributo decisivo all’aumento del postcarico del ventricolo destro e favorirne quindi la dilatazione.

Gli stessi autori dello studio sapevano bene come stavano le cose, tant’è che la loro conclusione dello studio è, piuttosto  incredibilmente, la seguente: “Increasing PEEP at constant Pplat during severe ARDS induces acute hypercapnia that may impair RV function and decrease cardiac index.” Affermano cioè che l’incremento della PEEP è la causa dell’ipercapnia (!!!), la quale a sua volta può peggiorare la funzione del ventricolo destro e ridurre la portata cardiaca… Se la causa dell’ipercapnia è stato l’aumento della PEEP, che bisogno c’era di modificare anche volume corrente e frequenza respiratoria per dimostrare gli effetti dell’ipercapnia? E perchè attribuire gli effetti sul cuore destro all’ipercapnia e non alla PEEP? Da notare peraltro che nello studio erano arruolati pazienti con già in atto scompenso cardiocircolatorio (stroke volume quasi la metà del normale) e dilatazione del cuore destro (mediamente il rapporto tra le aree telediastoliche del ventricolo destro e sinistro era 0.64). Mi viene il dubbio che non fosse stata ottimizzata l’emodinamica prima dell’arruolamento nel trial clinico, un problema non da poco nell’interpretazione dei dati… (i pazienti con ARDS non sono solitamente in bassa portata se si fa un appropriato supporto cardiovascolare).

IL MESSAGGIO E’ SEMPRE LO STESSO: LA LETTERATURA NON VA CITATA, MA DEVE ESSERE LETTA CON ATTENZIONE E CAPITA. Costa tempo e fatica, ma è l’unico modo per imparare qualcosa.

Peraltro lo stesso gruppo di ricercatori ha successivamente dimostrato che il cuore polmonare acuto (come definito nella reference 3) non si associa ad un incremento di mortalità (4). Non sembra quindi, comunque, un problema determinante.

Da considerare infine che non è l’ipercapnia che genera ipertensione polmonare ma l’acidosi ad essa associata (5,6). Ne consegue che, relativamente alla possibile ipertensione polmonare, l’ipercapnia non è un problema se il pH tende al compenso metabolico. E questo avviene spesso nella ARDS, condizione in cui l’ipercapnia si instaura in maniera gradualmente progressiva.

A questo punto torniamo ad interpretare i risultati della reference 1 con una maggior consapevolezza.  Lo studio supporta effettivamente l’ipotesi che i pazienti ipercapnici avessero un maggior spazio morto, stimato con la ventilazione minuto necessaria per ottenere 40 mmHg di PaCO2 (VEcorr). Ne consegue, dal punto di vista fisiopatologico, che l’ipercapnia è la conseguenza dello spazio morto ed è quindi ovvio che i pazienti ipercapnici (PaCO2 ≥ 50 mmHg) abbiano una mortalità maggiore rispetto ai non ipercapnici. Un approccio forse più appropriato all’analisi avrebbe potuto essere la ricerca di associazione tra mortalità e spazio morto stimato (con il VEcorr) (cioè la variabile causale dal punto di vista fisiopatologico) e quindi l’aggiustamento per le altre variabili.

Nello studio di Nin e coll., la fuorviante ricerca dell’associazione diretta tra mortalità e ipercapnia porta a conclusioni paradossali ed irragionevoli: i pazienti ipercapnici, rispetto ai non ipercapnici, sono ventilati meno spesso con una ventilazione protettiva (30% vs 70%) (?), hanno mediamente una pressione di plateau di 3 cmH2O superiore (?), un PaO2/FIO2 peggiore (141 vs 185 mmHg) (?) ed hanno più frequentemente barotrauma (11% vs 6%) (?). Pensiamo che l’ipercapnia possa spiegare tutte queste differenze? Sono risultati chiaramente incomprensibili, a meno che non ci si apra all’interpretazione più logica: gli ipercapnici sono tali perchè hanno una malattia polmonare più grave, con maggior shunt e maggior spazio morto. In altre parole: non è l’ipercapnia che determina un aumento di mortalità, ma è la gravità della malattia che aumenta sia la probabilità di morte che la PaCO2. Da questa prospettiva tutto quadra: ben si capisce perchè i pazienti con ARDS più grave abbiano pressioni di plateau più elevate, PaO2/FIO2 inferiori, più frequente barotrauma, ipercapnia più grave e mortalità maggiore.

La risposta alla domanda del titolo “Ipercapnia e ARDS, cambia qualcosa?” direi possa essere tranquillamente: “no”. Anche i nuovi studi non supportano ragionevolmente un nesso casuale tra ipercania e mortalità.

Possiamo ora ragionevolmente concludere che:

  • l’ipercapnia (come del resto l’ipossiemia) è la conseguenza è non la causa di una maggior gravità del danno polmonare; non stupisce pertanto che ipercapnia ed ipossiemia si associno ad un incremento di mortalità;
  • l’ipercapnia non è “velenosa”, non produce cioè effetti tossici clinicamente rilevanti;
  • anche il cuore polmonare acuto, il più pubblicizzato presunto effetto negativo dell’ipercapnia, è ampiamente discutibile che sia indotto dall’ipercapnia (è mediato dall’acidosi) e, quando questo è presente, non si associa ad incremento della mortalità.

Riprendiamo a questo punto il caso di Giorgio, con cui inizia il post del 17/02/2018: non mi preoccupo della sua PaCO2 di 68 mmHg (con pH 7.36), ma sono ahimè consapevole che questo può essere per lui un fattore prognostico sfavorevole. Giorgio è certamente grave, ma non è l’abbasamento della PaCO2 che potrà migliorarne la possibilità di sopravvivenza. Anzi, potrei non fare il suo bene se mettessi in atto manovre che potrebbero esporlo a rischi aggiuntivi con il solo scopo di ridurre la PaCO2.

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

* I pazienti sono anche sottoposti ad un terzo approccio ventilatorio (basso VT, bassa frequenza respiratoria e riduzione dello spazio morto strumentale) che per semplcità non prendiamo in considerazione in questo post.

Bibliografia

1) Nin N et al. Severe hypercapnia and outcome of mechanically ventilated patients with moderate or severe acute respiratory distress syndrome. Intensive Care Med 2017;43:200-8

2) Nuckton TJ et al. Pulmonary dead-space fraction as a risk factor for death in the acute respiratory distress syndrome. N Engl J Med 2002;346:1281-6

3) Mekontso Dessap A et al. Impact of acute hypercapnia and augmented positive end-expiratory pressure on right ventricle function in severe acute respiratory distress syndrome. Intensive Care Med 2009; 35:1850-8

4) Mekontso Dessap A et al. Acute cor pulmonale during protective ventilation for acute respiratory distress syndrome: prevalence, predictors, and clinical impact. Intensive Care Med 2016; 42:862-70

5) Enson Y et al. The influence of hydrogen ion concentration and hypoxia on the pulmonary circulation. J Clin Invest 1964;43:1146-62

6) Weber T et al. Tromethamine buffer modifies the depressant effect of permissive hypercapnia on myocardial contractility in patients with acute respiratory distress syndrome. Am J Respir Crit Care Med 2000; 162:1361–5

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Ipercapnia e ARDS, cambia qualcosa? Parte prima: aspetti fisiopatologici.

17 feb 2018


Giorgio ha una ARDS. L’impostazione della ventilazione meccanica è: volume corrente (VT) 420 ml, frequenza respiratoria (FR) 26/min, PEEP 8 cmH2O. Il PaO2/FIO2 è 170 mmHg, la PaCO2 68 mmHg ed il pH 7.36. Dobbiamo preoccuparci di questa ipercapnia?

In passato ho speso parole di tolleranza verso l’incremento della PaCO2 in corso di ventilazione protettiva nei pazienti con ARDS (vedi post del 24/09/2011 e del 03/08/2013). Questa tolleranza è ancora giustificata dopo la pubbblicazione di uno studio (che ultimamente vedo citato sempre più spesso) che evidenzia un’associazione tra ipercapnia e mortalità nei pazienti con ARDS (1)? Questo dato, se credibile, ci deve ovviamente creare forti dubbi se accettare o meno l’ipercapnia di Giorgio.

Lo studio che documenta l’associazione tra ipercapnia e mortalità è un’analisi secondaria su pazienti arruolati in tre studi osservazionali condotti tra il 1998 ed il 2010 ed il livello di ipercapnia è stato definito in base al peggior valore di PaCO2 rilevato nelle prime 48 ore di ventilazione meccanica. Siamo di fronte ad un disegno dello studio certamente debole, e perciò i risultati devono essere interpretati criticamente, soprattutto alla luce della plausibilità biologica. Per questo può essere utile, e piacevole, un tuffo nella fisiologia per capire perchè si genera l’ipercapnia nei pazienti con ARDS e quali sono le sue conseguenze biologiche e cliniche.

La pressione parziale della CO2 alveolare (PACO2).

La pressione parziale della CO2 alveolare (PACO2, con la “A” maiuscola per identificare l’alveolo) dipende della produzione di CO2 (V’CO2) e della ventilazione alveolare (VA). In particolare, la PACO2 aumenta se la ventilazione alveolare VA diminuisce. Il tutto è riassunto con semplice efficacia nell’equazione dei gas alveolari per la CO2:


(equazione 1)

La ventilazione alveolare VA differisce dalla ventilazione minuto VE (il prodotto di VT e FR) perchè esclude la parte di VT che resta confinata nello spazio morto (VD), cioè che si ferma nelle vie aeree prive di strutture alveolari e quindi senza possibilità di scambio gassoso:

(equazione 2)

L’equazione 2 può essere riscritta, in modo forse più utile per la prosecuzione della lettura, come:

(equazione 3)

dove VD/VT è il rapporto tra spazio morto e volume corrente, variabile con la quale torneremo presto a fare i conti. La ventilazione alveolare VA pertanto diminuisce se si riduce la ventilazione minuto VE e/o se aumenta il VD/VT.

L’equazione 1 può essere può essere riformulata nel seguente modo:

(equazione 4)

Assumiamo da questo momento che la V’CO2 sia costante e torniamo al caso di Giorgio. Se è elevata la PaCO2, (con la “a” minuscola per identificare il sangue arterioso), sarà elevata anche la PACO2, poichè PACO2 e PaCO2 sono considerate sostanzialmente equivalenti.

La VE di Giorgio durante la ventilazione protettiva è di 10.9 l/min (420 ml × 26/min), quasi il doppio di quella fisiologica, che è circa 5.4-6 l/min (450-500 ml × 12/min). Ne consegue che l’ipoventilazione alveolare e quindi l’ipercapnia possono essere spiegate unicamente da un aumento del VD/VT (equazione 4).

A questo punto complichiamo un po’ il concetto di spazio morto: non parliamo infatti dello spazio morto anatomico (quello delle vie aeree) (VDaw), ma dello spazio morto fisiologico (VDphys), somma del VDaw e dello spazio morto alveolare (VDalv).

Lo spazio morto anatomico VDaw (cioè il volume delle vie aeree) può essere schematizzato come uno spazio aereo anatomicamente sprovvisto di capillari alveolari (G nella figura 1). Il suo volume non si modifica significativamente nella ARDS.

Lo spazio morto alveolare VDalv si genera in quegli alveoli in cui cessa la perfusione capillare, dove quindi la ventilazione non partecipa allo scambio gassoso per l’assenza di contatto con il sangue capillare polmonare (figura 1, F). In queste zone il rapporto ventilazione alveolare/perfusione (VA/Q) è infinito (∞), dal momento che la perfusione è 0.

Nei polmoni patologici esistono anche aree con un eccesso di ventilazione alveolare rispetto alla perfusione (VA/Q elevato, ma non ∞), che contribuiscono allo spazio morto alveolare (figura 1, E). Talvolta questa condizione è definita “spazio morto relativo” o “effetto spazio morto”.

Nella ARDS è l’aumento dello spazio morto alveolare che determina l’incremento dello spazio morto fisiologico.


Figura 1

La figura 2 propone un grafico tradizionale in tutti i testi di fisiologia: la variazione delle pressioni dei gas alveolari al variare del VA/Q. Occupiamoci ora solo della PACO2 (asse verticale): nelle zone con VA/Q = ∞ (i casi F e G della figura 1), la PACO2 è 0 mmHg: l’aria inspirata, che non contiene CO2, non viene modificata per l’assenza di scambio gassoso (figura 2, punto A). La progressiva riduzione del VA/Q (freccia rossa tratteggiata) determina un consensuale aumento della PACO2 (freccia grigia che va da A a B), che al massimo può eguagliare la pressione venosa mista di CO2 (PvCO2) quando il VA/Q diventa 0.

Figura 2

Forse l’argomento non è però così chiaro come può sembrare: l’aumento del VA/Q, che produce VDalv, determina un calo della PACO2 (figura 2). Ma nell’equazione 4 abbiamo visto che l’incremento del VD aumenta la PACO2. Pensiamo alla ARDS, dove coesistono aree con alto e basso VA/Q: nelle zone ad elevato VA/Q, la PACO2 dovrebbe essere bassa, in quelle a basso VA/Q al massimo dovrebbe essere simile a quella venosa (fisiologicamente 46 mmHg) (sempre figura 2). Come possiamo allora spiegare l’ipercapnia di Mario se la PACO2 (e la PaCO2 che è ad essa simile) non raggiunge valori elevati, qualunque sia il VA/Q? Come si può ridurre la VA a tal punto da generare una marcata ipercapnia?

La relazione tra spazio morto e PaCO2 è quindi piuttosto complessa e merita un approfondimento per risolvere le vere o presunte contraddizioni.

La CO2 espirata, alveolare ed arteriosa.

Vedremo ora una descrizione dettagliata dell’impatto che il VA/Q ha su PaCO2 e spazio morto alveolare: la prima parte, relativa alla fisiologia, è fatta passo passo, per consentire poi di muoversi più agilmente negli esempi successvi. Premetto che è una interpretazione originale: ho cercato di seguire una strada diversa da quella che si trova solitamente nei testi ed in letteratura. Ho preferito questo approccio (con i rischi e i limiti che può avere) perchè seguendo l’approccio tradizionale non ho mai capito veramente bene come si possa generare l’ipercapnia quando in assenza di una riduzione della ventilazione al minuto.

Ipotizziamo di avere un soggetto sano, da “libro di fisiologia”: VT 500 ml, VDaw 150 ml, FR 11/min, V’CO2 200 ml/min. Poichè i suoi polmoni sono sani ed ha una fisiologica distribuzione del VA/Q, tutto il suo spazio morto corrisponde a quello anatomico ed è circa il 30% del volume corrente (VD/VT = 150 ml/500 ml = 0.30). La VE è 5500 ml/min (500 ml × 11/min): la VA è 3850 ml/min [(500 ml -150 ml) × 11/min], mentre 1650 ml/min è la ventilazione al minuto dello spazio morto (150 ml × 11/min).

Immaginiamo i polmoni divisi in due compartimenti di identiche dimensioni, in cui la VA sia distribuita al 50% in ciascun compartimento polmonare (cioè 1925 ml/min per compartimento).

La CO2 prodotta ogni minuto dal metabolismo tissutale (cioè il V’CO2) è trasportata ai capillari polmonari. In condizioni di equilibrio, i polmoni eliminano solamente e completamente una quantità di CO2 uguale a quella prodotta dai tessuti e non più di questa. Prendiamo in considerazione questa condizione di stabilità, in cui il volume di CO2 espirato coincida perfettamente con la produzione di CO2.

Consideriamo la portata cardiaca Q distribuita equamente nei due compartimenti. Poichè la CO2 prodotta dal metabolismo è portata ai capillari alveolari dalla portata cardiaca, vi sarà anche una uguale ripartizione del V’CO2 nei due comportimenti, a ciascuno dei quali saranno indirizzati quindi 100 ml di CO2 ogni minuto (cioè il 50% del V’CO2). E’ questa la quantità di CO2 che ciascun compartimento deve eliminare all’equilibrio attraverso la ventilazione alveolare.

Questa condizione è schematizzata nella figura 3. I due compartimenti sono delimitati nelle aree azzurra e rosa. L’apparato respiratorio, delimitato dalla linea nera continua, è composto da una “Y” capovolta (le vie aeree, cioè il VD), esterna ai due compartimenti polmonari, e da due spazi alveolari circolari, ciascuno in un differente compartimento. La doppia riga continua rossa schematizza i rispettivi capillari polmonari, nel cui interno è quantificato il flusso di CO2 che, trasportato dal sangue, deve essere “smaltito” nei polmoni ogni minuto.

Ed ora veniamo al dunque.


Figura 3

Ci troviamo nella condizione in cui, in ciascun compartimento, 100 ml di CO2 si miscelano in 1925 ml di VA. Possiamo quindi calcolare la frazione alveolare di CO2 (FACO2), cioè il rapporto tra il volume di CO2 ed il volume alveolare (per la precisone è, in questo caso, un rapporto tra flussi). La FACO2 in questo caso è 0.052 (cioè 100 ml/min di CO2 in 1925 ml/min di VA): questo significa che la CO2 rappresenta il 5.2% del gas alveolare (FACO2 × 100). Per la legge delle pressioni parziali dei gas di Dalton, la PACO2 esercita il 5.2% della pressione presente nell’alveolo, che pertanto è 40 mmHg (760 mmHg × 0.052) (Figura 4). (Ipotizziamo per semplicità un quoziente respiratorio di 1, che significa che 100 ml di CO2 che entrano nell’alveolo sostituiscono una uguale quantità di O2 che lascia l’alveolo per entrare nel sangue capillare).



Figura 4

La pressione di CO2 nel gas espirato (PECO2) non è uguale alla PACO2, perchè il gas alveolare si deve miscelare con quello dello spazio morto, che non contiene CO2. Il modo più semplice per conoscere l’ipotetica PECO2 è calcolare la frazione espiratoria di CO2 (FECO2) e moltiplicarla per la pressione atmosferica (similmente a quanto abbiamo fatto per il calcolo della PACO2). E’ probabilmente più facile capire il concetto seguendo i calcoli: all’uscita dalle vie aeree, i 200 ml di CO2, prodotti ogni minuto dal metabolismo ed espirati, sono contenuti nel VE (che nell’esempio è 5500 ml/min); la FECO2 è 0.04 (200/5500) e la PECO2 28 mmHg (760 x 0.04) (Figura 5).

Figura 5

Resta da capire quanto sarà, in questa condizione, la PaCO2. In ciascuno dei compartimenti, la PACO2 si mette in equilibrio con il rispettivo sangue capillare, e la pressione parziale di CO2 alla fine del capillare polmonare (PcCO2) diventa uguale alla corrispondente PACO2. In entrambi i compartimenti la PcCO2 è quindi 40 mmHg. Poichè la portata cardiaca è ripartita equamente, il flusso di sangue in uscita dal circolo capillare polmonare è uguale nei due compartimenti. La PaCO2 è la media ponderata delle PcCO2 dei due compartimenti (cioè la somma dei prodotti tra PcCO2 e frazione di Q in ciascun compartimento); in questo caso è facile: 40 mmHg (cioè: 40 × 0.5 + 40 × 0.5) (Figura 6). (Può essere ovvio, ma è meglio ricordare che la frazione di Q è la percentuale di Q/100)


Figura 6

Ora possiamo calcolare il rapporto tra spazio morto fisiologico e volume corrente con la formula di Bohr-Enghoff:

(equazione 5)

C’è dibattito se questo approccio sia preferibile alla originale formula di Bohr (calcolabile con la capnografia volumetrica), dove la PACO2 sostituisce la PaCO2. Se qualcuno fosse interessato, potremmo discuterne nei commenti.

Il VDphys/VT che calcoliamo con i nostri dati è 0.30, uguale allo VDaw/VT, calcolato con lo spazio morto anatomico della nostra simulazione. Ne deduciamo che in questa condizione non esiste spazio morto alveolare perche spazio morto fisiologico ed anatomico coincidono.

Ipotizzando una portata cardiaca da fisiologia (5000 ml/min), il VA/Q complessivo sarebbe 0.8, anch’esso ovviamente fisiologico.

Ventilazione protettiva, ARDS e ipercapnia.

Applicando la ventilazione protettiva di Giorgio (VT 420 ml × FR 26/min) ad un polmone fisiologico, come quello esaminato nell’esempio precedente, quanto sarebbe la PaCO2?

Vediamo il risultato finale nella figura 7.



Figura 7

Risparmiamoci tutti i passaggi visti nell’esempio precedente (è comunque un ottimo esercizio per chi lo volesse fare) e arriviamo al risultato finale: la ventilazione protettiva applicata ad un soggetto sano produce ipocapnia (nel nostro esempio la PaCO2 è 22 mmHg). Questa ventilazione sarà anche protettiva, ma è pur sempre una forma di iperventilazione.

Rispetto alla ventilazione fisiologica, il VDphys/VT è un po’ aumentato (da 0.30 a 0.36), ma come nell’esempio di prima è uguale al VDaw/VT (150 ml di VDaw su 420 ml di VT): anche in questo caso non vi è spazio morto alveolare, dato che non vi è differenza tra VDphys/VT e VDaw/VT . L’aumento della ventilazione alveolare (da 3850 a 7020 ml/min) è stato molto maggiore dell’aumento di spazio morto, e questo spiega la riduzione della PACO2 e conseguentemente della PaCO2.

Se la portata cardiaca rimanesse uguale a quella dell’esempio precedente (5000 ml/min), il VA/Q complessivo sarebbe 1.4, un mismatch ventilazione/perfusione con alto VA/Q.

Facciamo ora l’esempio di un paziente con ARDS, come Giorgio, a cui viene erogata la ventilazione protettiva con VT 420 ml e FR 26/min. Il polmone è certamente diverso da quello fisiologico.

Figura 8

Nella figura 8 vediamo una sezione TC di polmone sano a sinistra e con ARDS a destra. Nel polmone sano vediamo che il parenchima polmonare è di colore omogeneo. Nel polmone con ARDS vediamo aree iperdiafane (più nere del normale, delimitate dalla linea azzurra) ed aree iperdense (più bianche del normale, linea rossa). Nelle zone iperdiafane vi è sovradistensione delle strutture alveolari, dovuta ad un incremento della ventilazione regionale. Vi è anche una riduzione della perfusione, in parte per un effetto gravitazionale, in parte perchè le pareti alveolari iperdistese comprimono i capillari polmonari. Nelle aree iperdense vi è una riduzione (o l’assenza) di ventilazione, con la perfusione che è favorita dalla forza di gravità, con un effetto variabile sulle resistenze vascolari legato all’entità della vasocostrizione ipossica.

Ipotizziamo che nelle zone più ventilate venga dirottato il 80% delle ventilazione, mentre in quelle meno ventilate sia distribuito il rimanente 20%. Ed ipotizziamo che la perfusione sia distribuita prevalentemente (80%) alle zone poco ventilate ed in piccola parte alle zone iperventilate (20%). La condizione è schematizzata nella figura 9, in cui nel compartimento di sinistra (azzurro) sono schematizzate le aree ben ventilate e mal perfuse ed in quello di destra (rosso) quelle mal ventilate e ben perfuse.


Figura 9

Abbiamo quindi un compartimento ad alto VA/Q (a sinistra) ed una a basso VA/Q (a destra). A sinistra destra arrivano 5616 ml/min (cioè l’80%) di ventilazione che devono drenare, all’equilibrio, il 20% della CO2 prodotta dall’organismo, dal momento che vi arriva solo il 20% della portata cardiaca. A destra sinistra una ventilazione alveolare molto minore (1404 ml/min, cioè il 20 %) deve farsi carico del 80% del V’CO2. Il risultato finale è mostrato in figura 10.


Figura 10

Come sempre, puoi rifare i calcoli da solo (il procedimento è sempre lo stesso). La sostanza è che, nel compartimento di sinistra, la rimozione di poca CO2 da parte di tanta ventilazione porta ad un drastico abbassamento della PACO2 e quindi della PcCO2. Viceversa, nel compartimento di destra, il passaggio di tanta CO2 in poco volume ventilato è possibile solo raggiungendo una elevata PACO2 e quindi una altrettanto elevata PcCO2.  La PaCO2 è la media ponderata del sangue proveniente dai capillari polmonari: 5 mmHg*0.2 + 87 mmHg*0.8 = 70 mmHg. Il risultato finale è una PaCO2 elevata (70 mmHg, più o meno come quella di Giorgio), frutto del fatto che molto sangue con 87 mmHg di PCO2 si miscela a poco sangue con 5 mmHg di PCO2.

Il VDphys/VT è di 0.80, ben più elevato dello 0.36 del VDaw/VT (150 ml di VDaw/420 ml di VT). In questo caso abbiamo un notevole spazio morto alveolare, essendo il VDalv/VT 0.44 (cioè la differenza tra VDphys/VT e VDaw/VT). Se applichiamo l’equazione 4, si calcola una VA di 2184 ml/min, di gran lunga inferiore ai 7020 ml/min ottenuti utilizzando il solo spazio morto anatomico. Ed anche inferiore ai 3850 ml/min della condizione fisiologica che è stata considerata inizialmente. A questo punto si potrebbero fare molte speculazioni sul significato di ventilazione alveolare e spazio morto fisiologico… certamente ciascuno le potrà fare per proprio conto…

I calcoli che abbiamo fatto non hanno certo la pretesa di essere precisi in vivo e ci sono aspetti complessi di cui non si è tenuto conto. Ma fanno capire bene che l’ipercapnia si genera nelle zone a basso VA/Q: è sempre l’ipoventilazione alveolare a determinare l’aumento della PACO2 e della PaCO2. In alcuni casi il concetto è chiaro, come quando vi è ipoventilazione (riduzione della VE), che ha come inevitabile conseguenza un’omogenea riduzione della VA e quindi del VA/Q. Quando invece si ha iperventilazione (elevata VE) e nonostante questo si sviluppa ipercapnia, essa è generata dal mismatch VA/Q che si genera nelle zone a basso VA/Q regionale, dove si instaura una ipoventilazione distrettuale perchè altre aree polmonari hanno “rubato” ventilazione e ceduto perfusione.

Può ora essere evidente come ipossiemia ed ipercapnia si sviluppino negli stessi compartimenti polmonari, quelli in cui il VA/Q regionale è inferiore a quello fisiologico: poca ventilazione modifica poco il sangue venoso, e l’elevata perfusione fa sì che queste zone abbiano un peso più rilevante sulla composizione del sangue arterioso. Viceversa i compartimenti con alto VA/Q regionale influiscono poco sui gas arteriosi: sono zone a relativamente bassa perfusione e quindi contribuiscono meno alla composizione del sangue arterioso.

Per concludere (per ora)…

Un recente articolo ci ha fatto venire il dubbio che l’ipercapnia possa essere “velenosa” per i pazienti con ARDS, avendo trovato un’associazione tra ipercapnia e mortalità.

Abbiamo capito che le alterazioni regionali del VA/Q sono tipiche dei pazienti con ARDS (figura 8) e che sono la causa dell’ipercapnia durante la ventilazione protettiva. Il mismatch VA/Q è correlato sia all’estensione degli addensamenti polmonari che alle alterazioni della perfusione polmonare. In sostanza, più è grave il paziente con ARDS (sommando le disfunzioni polmonare e cardiocircolatoria), più aumenta il mismatch VA/Q, più aumenta la PaCO2.

L’ipercapnia è quindi un ottimo marker della gravità del paziente con ARDS.

Questo non esclude però che l’ipercapnia possa avere anche un effetto negativo diretto sulle funzioni dell’organismo. Il post di oggi è già lunghissimo, nel prossimo cercheremo di capire gli effetti biologici dell’ipercapnia, per poter finalmente discutere appropriatamente i risultati dello studio da cui abbiamo preso le mosse.

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

Bibliografia.
1) Nin N et al. Severe hypercapnia and outcome of mechanically ventilated patients with moderate or severe acute respiratory distress syndrome. Intensive Care Med 2017;43:200-8

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