Ventilazione del paziente asmatico grave: i tre passaggi

31 dic 2010

Il trattamento ventilatorio nel paziente con grave crisi asmatica intubato è un argomento ancora oggi poco supportato dalle evidenze scientifiche, tuttavia gli esperti concordano nel ritenere valida una strategia basata su criteri fisiopatologici. Eccone, in sintesi, gli aspetti salienti.

Il problema cruciale nell’asmatico è la lentezza del flusso espiratorio dovuta all’ostruzione bronchiale: i pazienti iniziano l'inspirazione prima che l'espirazione abbia temine e così sviluppano iperinflazione polmonare con auto-PEEP (PEEPi).

Una ventilazione inappropriata può rapidamente peggiorare l’iperinflazione, indurre danno polmonare, pneumotorace o collasso cardiovascolare, aumentando quindi la morbilità e la mortalità di questi pazienti.

Per minimizzare l'iperinflazione ed evitare eccessive pressioni polmonari spesso è necessario ipoventilare i pazienti, cioè scegliere bassi volumi correnti (TV) e piccole frequenze respiratorie (RR). L’ipoventilazione genera un certo grado di ipercapnia che, in assenza di ipertensione endocranica o ischemia miocardica severa, è generalmente ben tollerata, purchè il pH arterioso rimanga al di sopra di 7.15-7.20.

Ecco un procedimento schematico in tre passaggi recentemente proposto nella ventilazione del paziente con asma grave[1]:

1) Impostazioni iniziali del ventilatore:

  • Modalità controllata (volumetrica o volume garantito)

  • TV: 7-8 mL/kg (calcolato su peso corporeo ideale)

  • RR: 10-12 respiri/minuto

  • FiO2: 100%

  • PEEP: 0 cm H2O


La ventilazione controllata è la modalità di scelta iniziale: il paziente deve essere profondamente sedato ed eventualmente curarizzato per tollerare il setting di ventilazione necessario. Il volume controllato è preferito alla pressione controllata per evitare TV variabili in pazienti con elevate resistenze al flusso, alto grado di iperinflazione e acidosi respiratoria.

Dopo l'intubazione, la FiO2 può essere rapidamente ridotta in modo da mantenere la SaO2 > 88-90%.

In generale, la PEEP non apporta beneficio nei pazienti profondamente sedati in ventilazione controllata, mentre bassi livelli di PEEP possono essere utili nella fase di svezzamento.

2) Valutazione e monitoraggio dell'iperinflazione

Nel paziente asmatico ventilato occorre quantificare e monitorare il grado di iperinflazione. Per fare questo possiamo utilizzare in pratica la PEEPi o la pressione di plateau delle vie aeree (Pplat).

La PEEPi è misurabile con una occlusione a fine espirazione (valori > 15 cm H2O indicano un significativo livello di iperinflazione) anche se questa misura può sottostimare significativamente il livello di iperinflazione in caso di scarsa comunicazione tra gli alveoli e le vie aeree prossimali.

Il metodo raccomandato[2] per monitorare l'iperinflazione e proteggere il paziente da pressioni polmonari dannose è Pplat, che si misura con una occlusione a fine inspirazione. Valori > 30 cm H2O in questi pazienti indicano iperinflazione eccessiva. Una elevata pressione di picco delle vie aeere (Ppeak) invece non è indice di iperinflazione o di danno polmonare.

3) Aggiustamenti successivi del ventilatore


Se dopo le impostazioni iniziali Pplat supera 30 cm H2O bisogna facilitare l'espirazione. A tale scopo possiamo:

  • ridurre RR: è l'intervento più efficace e dovrebbe essere il primo aggiustamento da introdurre[3].

  • ridurre TV di 1 mL/kg fino a 6 mL/kg; ulteriori riduzioni sono limitate dall'aumento progressivo della frazione di spazio morto.

  • ridurre la durata dell'inspirazione a beneficio dell'espirazione, cioè si può aumentare il flusso inspiratorio (a parità di volume corrente), ad esempio da 60 L/minuto a 80-90 L/minuto, oppure ridurre il rapporto Ti/Ttot, ad esempio da 33% a 20% o meno. Aumentare il flusso inspiratorio causerà aumento di Ppeak, il che come detto non è pericoloso.


Bibliografia



  1. Winters ME. Ventilator’s management of the intubated patient with asthma. http://www.medscape.com/viewarticle/733666; 12/13/2010.

  2. Oddo M, Feihl F, Schaller MD, Perret C. Management of mechanical ventilation in acute severe asthma: practical aspects. Intensive Care Med. 2006;32:501-510.

  3. Brenner B, Corbridge T, Kazzi A. Intubation and mechanical ventilation of the asthmatic patient in respiratory failure. J Emerg Med. 2009;37:S23-S34.

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La ventilazione noninvasiva nell'insufficienza respiratoria post-esofagectomia.

23 dic 2010

Sicuramente alcuni amici di ventilab.it ricordano le volte che hanno pensato alla ventilazione noninvasiva (NIV) davanti ad un paziente con insufficienza respiratoria dopo esofagectomia: sarebbe l'ideale...ma sei poi cede l'anastomosi...meglio di no...o forse sì...

Insomma, sappiamo che la NIV è una opzione fondamentale nel trattamento della insufficienza respiratoria postoperatoria (vedi post del 6 maggio). Ma sappiamo anche che la NIV potrebbe causare distensione gastrica, e che questo potrebbe essere uno stress per la sutura tra esofago e stomaco. Che fare? Avere fiducia nella NIV con il rischio di essere responsabilizzati in una eventuale deiscenza della anastomosi? Oppure evitare la NIV come la peste per proteggere la sutura? Sappiamo tutti che la scelta è sempre difficile in questi casi.

A questo proposito mi fa piacere discutere insieme un articolo pubblicato nel gennaio del 2009. Si tratta di uno studio caso-controllo condotto a Marsiglia tra il 2003 ed il 2006  che aveva l'obiettivo principale di confrontare NIV o ossigenoterapia per prevenire l'intubazione nei pazienti con insufficienza respiratoria dopo esofagectomia trantoracica (1). L'insufficienza respiratoria veniva definita dalla presenza di dispnea, ipossiemia (PaO2/FIO2 < 200 mmHg), tachipnea, utilizzo dei muscoli accessori della ventilazione, infiltrati polmonari alla radiografia del torace con febbre e secrezioni purulente. Nel periodo dello studio, in caso di insufficienza respiratoria, i pazienti iniziavano la NIV con maschera facciale, la modalità di ventilazione era la pressione di supporto che iniziava con 8 cmH2O, potendo aumentare per raggiungere un volume corrente di 6-8 ml/kg. La PEEP iniziale era di 4 cmH2O, che poteva aumentare fino ad 8 cmH2O per arrivare al 90% di saturazione arteriosa di ossigeno. La pressione di picco veniva comunque limitata a 25 cmH2O. Se la NIV falliva, si passava all'intubazione tracheale.

I pazienti trattati con NIV sono stati confrontati con pazienti che avevano sviluppato insufficienza respiratoria trattata però solo con ossigenoterapia. Questo gruppo di controllo era costituito da persone operate dal 1999 al 2002, opportunamente selezionate per avere due gruppi omogenei. L'equipe chirurgica è sempre stata la stessa per tutta la durata dello studio.

Nello studio sono stati confrontati 36 pazienti trattati con NIV con 36 pazienti che avevano ricevuto la sola ossigenoterapia (controlli).

I risultati: le intubazioni sono state meno frequenti nei pazienti trattati con NIV (9 su 36, 25%) rispetto ai controlli (23 su 36, 64%). I pazienti trattati con NIV hanno anche avuto una minor incidenza di perdite dall'anastomosi (6% vs. 28%). Infine ci sono stati un minor numero di ARDS, di shock settici e di giornate di degenza in Terapia Intensiva nel gruppo dei pazienti trattati con NIV.

Sicuramente questo studio ha molti limiti dal punto di vista metodologico. Inoltre può essere discutibile la modalità di gestione dell'insufficienza respiratoria.

Nonostante questo, però un dato certo rimane: da quando si è iniziato a praticare la NIV, non sono aumentate le lesioni dell'anastomosi, che addirittura risultano ridotte.

Il messaggio quindi da portare a casa è: la NIV è un'opzione che può essere considerata anche nei casi di insufficienza respiratoria post-esofagectomia. Questo ci può consentire di curare meglio i pazienti in cui l'ossigenoterapia non è sufficiente a trattare l'ipossiemia o se vi è insufficienza della pompa respiratoria (dispnea, tachipnea, acidosi respiratoria, ecc.). Ricordandoci però che, se la NIV non funziona, bisogna ricorrere precocemente l'intubazione.

Grazie per l'attenzione. E tanti auguri di buon Natale.

Bibliografia:

1) Michelet P et al. Non-invasive ventilation for treatment of post-operative respiratory failure after oesophagectomy. Br J Surg 2009; 96:54-60
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Polmonite comunitaria in un ottantenne: caso clinico.

12 dic 2010

Ricevo e pubblico immediatamente un caso inviatoci da Francesco.

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"Ed ecco la polmonite in ottantenne!


Il signor Giuseppe vive da solo, ma da tre giorni non si vedeva in giro. L'hanno trovato a terra moderatamente confuso. In Dipartimento di Emergenza riscontro di polmonite basale destra. Giunge da noi il 9 dicembre dopo 24 ore di ricovero in Medicina d'Urgenza dove è stato sottoposto a CPAP e poi a NIV senza beneficio.


Il quadro respiratorio è da subito grave con PaO2/FIO2 < 100 mmHg in BIPAP (IPAP 35 cmH2O EPAP 10cmH2O). La ventilazione rimane praticamente invariata sino all'11 con scambi stazionari.

Oggi il tracollo con PaO2/FIO2 sui 60-70 mmHg.

Emogasanalisi arteriosa (EGA) con BIPAP 35/15, frequenza respiratoria 14/min, volume corrente circa 600 ml (peso ideale 70 Kg): pH 7,13 PaCO2 60 mmHg, PaO2 62 mmHg, HCO3- 18 mmol/l (in corso CRRT).

Gli Rx del torace seriati mostrano una polmonite mediobasale destra mentre la TC fatta oggi mostra un coinvoglimento (anche se minimo) dell'emisitema di sinistra, dunque ARDS.

Eroicamente cambio il ventilatore per vedere qualche parametro in più. E' già curarizzato, lo passo in ACV 420 ml x 28/min e poi 34/min (visto l'EGA). Per la PEEP ho praticato il metodo del dereclutamento (circa 2 di autoPEEP). Scendendo di PEEP mi sembrava sempre meglio, nel senso che il plateau inspiratorio si è abbassato progressivamente più della PEEP, per cui non mi sono fidato è ho impostato una peep di 13 (+ 3 di autopeep) che mi sembrava la situazione migliore. Con questa impostazione la pressione di plateau è  29 cmH2O e la PEEP totale 16 cmH2O.

Pensando ad un polmone disomogeneo ho anche valutato P1 e P2. P1 pare essere 31 cmH2O.

L'addome è pastoso ma morbido. Non c'è ipertensione addominale.

Attualmente l'EGA è pH  7.16, PaO2 68 mmHg, PaCO2 55 mmHg, HCO3 16 mmol/l.

Vedremo come va.

Noi non abbiamo ossido nitrico, ECMO, Decap...le alternative che io vedo possibili potrebbero essere: pronazionebroncoscopia per vedere se ci fosse qualche tappo nell'emisistema di destra, sentire il centro ECMO.

Potrebbe valere la pena tentare una ventilazione a polmoni separati visto l'esiguo coinvolgimento del polmone di sinsitra? Perchè in tal caso è necessario sincronizzare i ventilatori?

Cosa ne pensate?"

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Questo caso offre una serie di riflessioni che condivido con gli amici di ventilab.it


1) Non so come siano andate le prime 23 ore di NIV in Medicina d'Urgenza. Alla ventiquattresima Giuseppe andavo molto male. Se fosse stato così anche nelle ore precedenti, mi verrebbe da pensare che la NIV è stata "tirata avanti" un po' troppo. Opinione personale (con anche qualche evidenza a supporto): quando la NIV non funziona subito, preferisco intubare senza indugio.


2) Secondo me Giuseppe non ha una ARDS, ma una polmonite. Nelle radiografie del torace non si vedono addensamenti bilaterali e la TC  mostra un minimo addensamento (probabilmente basale) nel polmone indenne. Piccoli addensamenti declive sono la regola nei pazienti ventilati, anche in assenza ARDS. Penso quindi non sia appropriato cercare di curare un danno infiammatorio diffuso del polmone, ma piuttosto la polmonite. Quindi tutto ciò che abbiamo imparato sulla gestione della ARDS deve essere trasferito con molta cautela nella cura di questo paziente. Va sempre bene però cercare di ridurre le pressioni di plateau sotto i 30 cmH2O. Tralascio un commento sulla P1: ne parlerò estesamente in qualche prossimo post.


3) l'ossigenazione del paziente è sufficiente (>60 mmHg). Non mi stupisce che Giuseppe vada bene con PEEP basse: non ha una ARDS, l'addensamento polmonare non si riapre con la PEEP, ed invece si sovradistende il polmone sano. In questo paziente, regolerei la PEEP prevalentemente sull'ossigenazione, riducendola ancora se possibile. Fino a che livello? Difficile dare certezze: personalmente faccio sempre fatica a scendere sotto i 10 cmH2O di PEEP totale in pazienti con grave ipossiemia.


4) che altro fare?




  • E' già in corso la terapia extracorporea di sostituzione della funzione renale (CRRT), penso per l'insufficienza renale secondaria alla sepsi grave, ed ha acidosi mista. Cercherei di aumentare la somministrazione di bicarbonati per correggere il disturbo metabolico. Se il pH aumenta e potremmo tollerare PaCO2 più elevate e quindi ridurre la ventilazione.

  • A questo punto escluderei misure di ventilazione non convenzionale (ECMO, ventilazione a polmoni separati) per trattare la polmonite in un paziente con sufficiente ossigenazione.

  • Temo che anche la broncoscopia possa essere inutile se abbiamo a che fare con una polmonite.

  • Infine prenderei in seria considerazione la ventilazione in posizione laterale con il polmone ammalato in alto e quello sano in basso. In questo modo potremmo avere un maggior flusso polmonare nel polmone declive, sano, ed un minore flusso in quello superiore, addensato, per gradiente idrostatico. E nella maggior parte dei casi si assiste ad un aumento della PaO2 probabilmente secondario ad un miglioramento del rapporto ventilazione perfusione (1).


Veramente molto interessante il caso. Mi piacerebbero molti commenti in tempi brevi: la partecipazione attiva favorisce l'apprendimento duraturo. E magari tutti insieme possiamo dare un aiuto in tempo reale a Francesco e, soprattutto, a Giuseppe.

Stanotte, per i bambini delle nostre zone, arriva Santa Lucia che porta i doni. E ventilab porta ai suoi amici un nuovo post.

Un caro saluto a tutti.


Bibliografia.


1) Thomas PJ at al. Is there evidence to support the use of lateral positioning in intensive care? A systematic review. Anaesth Intensive Care 2007; 35: 239-55.

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Lo svezzamento dalla ventilazione meccanica nel paziente anziano fragile.

6 dic 2010

Nelle scorse settimane ho avuto l'opportunità di confrontarmi sullo svezzamento dalla ventilazione con Ludo Trianni, responsabile  dell’Unità di Terapia Intensiva Respiratoria di Villa Pineta, che abbiamo già conosciuto nel post del 26 ottobre e nei commenti con cui spesso vivacizza il confronto su ventilab.it . Vista la sua esperienza nel weaning di pazienti anziani con svezzamento prolungato dalla ventilazione meccanica, gli ho proposto di condividere con noi il suo approccio al problema.

Con piacere pubblico quindi il primo di una serie di post che Ludo ed i suoi collaboratori ci proporranno. Con la convinzione che questo possa facilitare la nostra pratica quotidiana e la nostra interazione con i centri di svezzamento. Invito tutti gli amici di ventilab.it a non lasciarsi scappare l'occasione per fare commenti e domande a Ludovico.


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I 3 Goals.


La nostra terapia intensiva, nata circa 10 anni fa per la necessità di gestire le riacutizzazioni di BPCO ed assicurare in generale la gestione ed il corretto monitoraggio dell’insufficienza respiratoria acuta su cronica di pazienti non solo affetti da patologie respiratore ma anche cardiache e neuromuscolari, utilizzando le competenze di fisioterapia cardiopolmonare già storicamente presenti, si è ulteriormente caratterizzato anche come weaning center quando, a partire dal 2002, ne sono diventato responsabile. Inoltre, grazie al mio background anestesiologico e rianimatorio, il rapporto con le rianimazioni dell’ASL di Modena si è intensificato in tal senso. Come ho già detto nei miei interventi precedenti su ventilab, la nostra è una casistica “ristretta” al paziente anziano e neuromuscolare già con marcata compromissione respiratoria, per cui ben presto ho potuto constatare che le strategie di svezzamento usualmente applicate in Terapia Intensiva (TI) non si addicevano al nostro case-mix, anzi, tutti i pazienti inviateci dalle TI provinciali avevano più volte fallito numerosi training di svezzamento basati sul trial di respiro spontaneo, con tempi medi di degenza e di tracheotomia rispettivamente di 40 e 20 gg. Ci siamo chiesti il perché, e la risposta è che nel paziente anziano la comorbilità preesistenti all’ingresso nelle TI (cardiopatie, disendocrinopatie, dismetabolismi ed alterazioni cognitive) ed i lunghi tempi di degenza in TI, anche se non vi sono in tal senso al momento evidenze in letteratura, non potevano non incidere pesantemente sulla sua capacità di svezzarsi dalla ventilazione meccanica invasiva: troppo compromesso lo stato nutrizionale, troppo alto il grado di deafferentazione da allettamento prolungato con costante presenza di chronic illness polyneuropathy and myopathy. La risposta è stata quindi “copernicana”: non più il medico che “tenta” di staccare il paziente dal ventilatore, ma il paziente che riesce, tramite un recupero complessivo del suo stato di salute grazie ad un approccio multidisplinare, a staccarsi dal ventilatore. Nel paziente anziano, l’approccio rianimatorio allo svezzamento troppe volte si focalizza infatti unicamente sul recupero dell’unità ventilatoria e conseguentemente dello scambio gassoso, sottostimando le molteplici problematiche presenti nell’anziano stesso e soprattutto non valutando il fattore tempo: il paziente anziano perde rapidamente il proprio labile equilibrio funzionale, ma gli occorrono lunghi periodi di tempo per il suo recupero. La “teoria dei 3 goals” come la definisco io in maniera sicuramente un po’ folcloristica, vuole stigmatizzare che nel paziente anziano occorre arrivare allo svezzamento DOPO il suo completo recupero, non PRIMA. In una nostra evidenza in progress quest’anno su Respiratory Care, inoltre, il recupero delle basic activities daily living tramite training riabilitativo è elemento correlato e predittivo sulla mortalità intraospedaliera e sulle capacità di weaning stesso.

Per tali motivi utilizziamo quindi contemporaneamente e quotidianamente 3 linee di lavoro ad incremento progressivo:

  1. training fisioterapico personalizzato volto al recupero funzionale di tutti i distretti neuromuscolari, tronco, arti superiori ed inferiori, riallenamento alla deambulazione e ripristino della fisiologica fasicità del drive respiratorio, anche durante ventilazione meccanica invasiva. Utilizziamo spesso anche la ventilazione noninvasiva, non tanto e non solo per il reclutamento alveolare, ma come work of breathing discharge e recupero della muscolatura respiratoria.

  2. recupero della massa magra e della funzione deglutitoria

  3. in presenza dei requisiti universalmente riconosciuti imprescindibili per iniziare uno svezzamento (nota 1) , progressivo distacco dal supporto ventilatorio, con un protocollo con distacco orario a step progressivi (1, 2, 4, 8, 16 h.) della durata di 5 giorni, utilizzando tutte le modalità ventilatorie necessarie, lavorando sulla PS, sul volume corrente, sulla PEEP e sul rapporto I:E, mai sul trigger per l’ovvio motivo che il recupero della capacità inspiratoria è direttamente proporzionale ai progressi in ambito riabilitativo).


Normalmente, dopo aver fatto una valutazione endoscopica del tratto tracheo-bronchiale e delle corde vocali per valutare l’eventuale presenza di riduzione del lumen tracheale da malacia della pars membranacea frequente nel del BPCO, dismotilità cordale e lesioni da decubito tracheale, procediamo al decannulamento se:

  1. il paziente ventila spontaneamente, dopo il protocollo a step progressivi, per almeno 72 h consecutive con accettabile emogasanalisi arteriosa (SatO2 > 90%; PaCO2 < 55 mmHg, PaO2 > 70, pH > 7.35< 7.45)

  2. albuminemia > 3 gr/dl, transferrinemia > 150 gr/dl, recupero massa magra ai controlli bioimpedenzometrici settimanali, assenza completa di disfagia ai liquidi e ai solidi con alimentazione a dieta libera per os (nota 2), MIP (maximal inspiratory pressure ) > 35 cmH2O, MEP (maximal expiratory pressure) > 35 cmH2O, PEF ( peak expiratory flow) > 80 l/min.



Nota 1: FR < 30 atti/min., SatO2>90%, PEEP < 6, PAS >100< 150 FC < 140, assenza di aritmie maggiori, uso di sedativi ed inotropi.

Nota 2: Posizioniamo cannula tipo Biesalski ( cannula non cuffiata e non fenestrata) se permangono livellidi MEP e disfagia non del tutto stabilizzati.
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La polmonite nell'anziano in Terapia Intensiva.

29 nov 2010

Ho letto recentemente un articolo che mi ha fatto riflettere molto. Quindi lo voglio condividere con gli amici di ventilab.

Gli autori, canadesi, hanno disegnato uno studio di coorte per determinare se esiste un'associazione tra età avanzata e mortalità nei pazienti ricoverati in Terapia Intensiva  (TI) per polmonite grave (1). Essi ritengono che per ricoverare un paziente in TI si dovrebbe tenere decisamente ("strongly") conto dell'età qualora questa fosse indipendentemente associata alla mortalità.

Sono stati studiati 351 pazienti con polmonite ricoverati in TI entro 24 ore dall'arrivo in Pronto Soccorso. La mortalità a 30 giorni era del 10% nei pazienti con meno di 60 anni ed aumentava nelle fasce di età più avanzata arrivando al  30% nel gruppo di età superiore o uguale agli 80 anni. La mortalità ad un anno dal ricovero si elevava progressivamente con l'età, dal 19% al di sotto dei 60 anni al 57% al di sopra degli 80. L'età era indipendemente associata sia alla mortalità ad 1 mese (adjusted hazard ratio 1.24, CI 95% 1.03-1.49 per incrementi di 10 anni) che ad 1 anno (adjusted hazard ratio 1.39, CI 95% 1.21-1.60 per incrementi di 10 anni).

In altre parole, gli autori hanno dimostrato che nei pazienti dello studio ogni decade di aumento dell'età si associa ad un aumento della mortalità del 24% ad un mese e del 39% ad un anno.

Gli autori commentano che, alla luce di questi risultati, "i pazienti e le loro famiglie sceglierebbero di rinunciare a terapie intensive invasive, dispendiose e possibilmente futili, conoscendo la gravissima prognosi sia a breve che a lungo termine".

La conclusione dell'articolo è che quindi le limitazioni al trattamento intensivo dettate dalla sola età "possono non essere irragionevoli". E che i risultati dello studio possono essere utilizzati per supportare il peso che molti intensivisti attribuiscono all'età del paziente quando prendono decisioni cliniche.

Mi viene un dubbio: o io non ho capito bene il significato dello studio oppure esso sostiene che se una persona ha il 30% di probabilità di morire può non valere la pena di curarla in Terapia Intensiva. E che una persona preferirebbe morire piuttosto di farsi ricoverare in TI se sapesse di avere 2 probabilità su 3 di sopravvivere.

Beh, se così fosse, potremmo chiudere domani le Terapie Intensive. Infatti nei pazienti ricoverati in TI la mortalità alla dimissione ospedaliera è di circa il 30% (2): quindi il paziente medio ha circa il 30% di probabilità di morte.

Non voglio avventurarmi in discussioni di etica, che purtroppo vengono regolarmente strumentalizzate da tutte le parti. Preferisco semplicemente fare il medico e ricordare l'articolo 3 del Codice di Deontologia Medica: "Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell'Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana, senza distinzioni di età, di sesso, di etnia, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace e in tempo di guerra, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera."

Sicuramente esiste l'esigenza di rendere la cura umana e proporzionata. Ma articoli come quello discusso oggi non ci aiutano in questo, anzi ci possono trarre in inganno. Spesso invito gli amici che lavorano con me ad imparare a leggere criticamente la letteratura scientifica. Penso che in questo caso questo sia più utile cha mai.

A presto. E torneremo a parlare di weaning, ARDS, BPCO e ventilazione meccanica.

1) Sligl WI et al. Age stil matters: prognosticating short- and long-term mortality for critically ill patients with pneumonia. Crit Care Med 2010;        38:2126-32.

2) GiViTI. Progetto Margherita 2. Terapie Intensive Polivalenti. Rapporto 2009.
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Ventilazione meccanica e trauma cranico. Il commento

21 nov 2010
Riprendiamo il caso proposto nell'ultimo post del 12 novembre. Il problema principale era quello di far aumentare la PaCO2 in una paziente con trauma cranico che ventila in pressure support.

Una prima riflessione:  l'ipocapnia di Marinella è davvero un problema? Nel suo caso dobbiamo veramente temere il rischio di favorire lo sviluppo di aree ischemiche? Diversamente da quanto rappresentato nel grafico del precedente post,  il flusso ematico cerebrale è regolato dal pH liquorale piuttosto che dalla PCO2 arteriosa (1). E il pH del liquor è determinato da CO2 e bicarbonati liquorali. La PCO2 liquorale è in equilibrio con quella arteriosa (normalmente è circa 10 mmHg più alta). Se varia la PaCO2 si osserva acutamente una parallela variazione della PCO2 del liquor e quindi del pH liquorale. Quest'ultima è in prima linea responsabile della modifica del flusso ematico cerebrale. Ma entro poche ore il pH del liquor tende a riportarsi comunque verso il suo valore di equilibrio (nel liquor circa 7.33) per la variazione dei bicarbonati liquorali. E il flusso ematico cerebrale torna nella norma. E' stato documentato che il pH liquorale è costante a fronte di ampie variazioni croniche (cioè della durata di qualche ora) della PaCO2. Quindi ci possiamo aspettare un flusso ematico cerebrale normale in un paziente con PaCO2 stabilizzata (1).

Nonostante queste considerazioni, accettiamo comunque che un aumento dell PaCO2 potesse essere favorevole per Marinella. Come ottenerlo?




Iniziamo a chiederci perchè Marinella aveva una PaCO2 bassa. E' assai improbabile che ciò possa essere imputato alla ventilazione con un pressure support troppo alto. Infatti sappiamo bene che con questa modalità di ventilazione solo il paziente può iniziare l'inspirazione. Ed il paziente inizierà l'inspirazione solo quando i  neuroni respiratori bulbari la attiveranno. Ed i neuroni bulbari sono sottoposti a numerose afferenze, ma lo stimolo piu' efficace nel modularne l'attività è il pH liquorale (2). E' quindi probabile che Marinella abbia un basso pH liquorale. E questo basso pH liquorale attiva il centro del respiro e l'iperventilazione di Marinella ne è la conseguenza.

Questo avviene frequentemente quando sono presenti lesioni emorragiche cerebrali (3). Oppure potrebbe esserci stata una lesione traumatica del tronco con una disregolazione del generatore centrale del pattern respiratorio (GCP). In entrambi i casi, modificare il livello di pressione di supporto cambia ma solo il lavoro respiratorio necessario per mantenere la ventilazione generata dal livello di attivazione del GCP.

Quando un paziente ha quindi un'iperentilazione centrale, non dobbiamo cercare di risolvere il problema aumentando il suo lavoro respiratorio. Ho visto a volte non solo ridurre il PSV ma addirittura rendere meno sensibile il trigger inspiratorio, portando il trigger a pressione a - 5-6 cmH2O. In questo modo otteniamo solo lavoro respiratorio e stress maggiori per il paziente, che ridurrà la sua ventilazione solo quando lo si porterà alla fatica dei muscoli respiratori. Cosa che noi non vogliamo certamente.

Quale la soluzione? O accettare l'iperventilazione o agire su GCP. Come? Deprimendone l'attivita'. Ed in questo gli oppioidi sono fantastici (2).




Noi abbiamo scelto per Marinella di accettare l'ipocapnia. Dopo poche ore abbiamo avuto un peggioramento del GCS (fino a 1+4+1), abbiamo eseguito una TC encefalo che evidenziava edema e ed alcune petecchie cerebrali. Abbiamo subito iniziato il monitoraggio della pressione intracranica che evidenziava una moderata ipertensione endocranica, trattata con sedazione ed osmotici. Ovviamente siamo passati ad una ventilazione controllata. Dopo circa una settimana siamo riusciti a sospendere sedativi ed osmotici, Marinella si è svegliata ed è stata trasferita ieri dalla Terapia Intensiva con un GCS di 15 e svezzata dalla tracheotomia.

I messaggi di questa esperienza sono:

1) le variazioni di PaCO2 si associano a variazioni del flusso ematico cerebrale solo acutamente. Già dopo alcune ore il flusso ematico cerebrale tende a tornare verso la normalità se  la PaCO2 si stabilizza sui nuovi valori.

2) le variazioni del livello di pressione di supporto (e di trigger!) non modificano la PaCO2 se il paziente non ha esaurito la forza dei muscoli respiratori. Se vogliamo aumentare la PaCO2 possiamo ridurre l'attività dei neuroni respiratori bulbari con la sedazione. Ma non dobbiamo ridurre il livello di pressione di supporto o la sensibilità del trigger.

Come sempre, infine, esiste sempre la specificità del singolo paziente. Quindi dobbiamo cercare di verificare sempre le nostre ipotesi su ciascuna delle tante nostre Marinelle.

I commenti ricevuti al post precedente contengono anche altri spunti interessanti su cui discutere ed imparare tutti insieme. Ma per oggi mi sembra basti così. Ne riparleremo certamente in futuro.

Un saluto a tutti.

References.

1) Raichle ME, Stone HL. Cerebral blood flow autoregulation and graded hypercapnia. Eur Neurol 1971-1972; 6:1-5.

2) Lumb AB. Nunn's Applied Respiratory Physiology. Chapter 5: Control of breathing, pp. 61-82. Churchill Livingstone, 7th edition (2010).

3) Froman C et al. Hyperventilation associated with low pH of cerebrospinal fluid after intracranial haemorrhage. Lancet. 1966; 1(7441):780-2.




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Ventilazione meccanica e trauma cranico.

12 nov 2010

Marinella è una giovane donna con trauma cranico. Marinella non è il suo vero nome, ma la chiamerò così. D'ora in poi tutti i casi clinici di ventilab avranno nomi d'arte. Mi sono infatti accorto che il sito è stato scoperto anche da parenti ed amici dei nostri pazienti. Per tutelare la privacy delle persone che curiamo non posso, e non voglio, fornire dati che consentano ad altri di identificarle.

Marinella all'ingresso in terapia intensiva si presenta in coma. La Glasgow Coma Scale (GCS) è 1+5+1: cioè applicando uno stimolo doloroso riesce a localizzarlo raggiungendo con le mani il punto in cui viene applicato, non apre gli occhi nè dà alcun segno di comprensione di ciò che le viene detto. Il trauma è esclusivamente cranico, tutto il resto funziona bene: l'intubazione tracheale viene effettuata per il supporto della ventilazione finalizzato alla prevenzione del danno cerebrale secondario.

Il giorno successivo si ha un miglioramento della stato di coscienza con la comparsa dell'apertura degli occhi  (GCS 4+5+1). Marinella è ventilata con pressione di supporto (PS) 8 cmH2O, PEEP 5 cmH2O e FIO2 0.4. La frequenza respiratoria è di 20 atti/minuto ed il volume corrente di circa 450 ml (Marinella è alta circa 160 cm e pesa 55 kg). L'emogasanalisi arteriosa ci mostra un'ottima funzione polmonare (PaO2 204 mmHg, quindi PaO2/FIO2 510 mmHg)  ed un'alcalosi respiratoria: pH 7.49, PaCO2 27 mmHg, HCO3- 23 mmol/L.

Come possiamo vedere nella figura, il flusso ematico cerebrale (CBF), sull'asse delle ordinate, si riduce linearmente con la riduzione della PaCO2. L'ipocapnia indotta dall'iperventilazione può quindi ulteriormente diminuire il flusso ematico cerebrale, spesso già ridotto nelle prime ore dal trauma cranico, aumentando il rischio di sviluppare lesioni cerebrali ischemiche.

Il medico di guardia è preoccupato che l'ipocapnia possa peggiorare la prognosi di Marinella. Decide quindi di ridurre la ventilazione con l'obiettivo di arrivare ad una PaCO2 di circa 35 mmHg. Per fare questo azzera la pressione di supporto e lascia la paziente con CPAP 5 cmH2O. Sei d'accordo con lui? Perchè?

Aspetto qualche commento dagli amici di ventilab. Tra pochi giorni poi ti darò la mia opinione.
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High Frequency Oscillation ed ARDS.

7 nov 2010




Marzia mi ha chiesto un commento della meta-analisi sulla High Frequency Oscillation (HFO) nei pazienti con ALI/ARDS (1). E' con vero piacere che la accontento. Le ventilazioni ad alta frequenza hanno accompagnato una parte della mia carriera. Ho esperienza personale con la High Frequency Jet Ventilation, la External High Frequency Oscillation (che, a parte il nome, è però molto diversa dalla HFO) ed anche con la HFO. Ricordi che mi fanno tornare indietro negli anni...


Emerge sempre più la necessità di strategie ventilatorie che possano essere utilizzate nelle forme più gravi di ARDS, come ad esempio quelle viste durante la recente epidemia influenzale H1N1. Per anni pronazione ed ossido nitrico l'hanno fatta da padrone senza peraltro mai ottenere la conferma della loro efficacia. Ora l'attenzione si è spostata sull'ECMO. L'utilizzo di supporti respiratori extracorporei potrebbe diventare sempre più frequente in un futuro non remoto. Tuttavia non possiamo dimenticare che le tecniche extracorporee hanno spesso un notevole impatto organizzativo ed economico e sono tutt'ora gravate da non trascurabili complicanze.


In questa prospettiva, è sicuramente interessante quantomeno sapere cosa ci si può aspettare dalla HFO.



Cosa è la HFO?


E' una modalità di ventilazione che fa oscillare il polmone attorno ad un volume polmonare medio elevato, con alte pressioni medie delle vie aeree e piccole e frequentissime (almeno 200 al minuto) variazioni cicliche della pressione. Per avere un'idea di come si comportano i polmoni durante HFO, clicca qui.


Il mantenimento di un'elevata capacità funzionale residua favorisce l'ossigenazione e limita il collasso alveolare a fine espirazione (atelectrauma). Le piccole oscillazioni riducono la ciclica sovradistensione polmonare che si potrebbe osservare a volumi correnti maggiori (stress).


L'eliminazione di CO2 avviene applicando piccoli volumi correnti (uguali o inferiori allo spazio morto) con elevate frequenze (di solito si inizia con 300 cicli al minuto). Ma come può avvenire l'eliminazione della CO2 con volumi correnti inferiori allo spazio morto? La teoria è complessa, provo a semplificare: gli alti flussi e le elevate frequenze respiratorie aumentano l'energia delle molecole di gas, con l'effetto finale di consentire al gas fresco di raggiungere gli alveoli sfruttando movimenti diffusivi oltre ai normali moti convettivi (vedi figura).




Efficacia della HFO nella ALI/ARDS.


La meta-analisi ha identificato 8 studi randomizzati e controllati che hanno confrontato HFO con la ventilazione meccanica convenzionale nei pazienti con ALI e ARDS. L'outcome primario era la mortalità a 30 giorni. Questi i principali risultati.

Nei pazienti ventilati convenzionalmente la mortalità è stata del 49% e nei pazienti trattati con HFO del 39% (risk ratio 0.77, CI 95% 0.61-0.98, P=0.03). Ciò significa che utlizzare la HFO nei pazienti con ARDS potrebbe ridurre il rischio di morte di circa il 23% rispetto alla ventilazione convenzionale.

Il rapporto PaO2/FIO2 e la pressione media delle vie aeree sono aumentati durante HFO rispetto alla ventilazione convenzionale mentre la PaCO2 simile tra I due approcci. L'incidenza di ipotensione, barotrauma e occlusione del tubo tracheale erano simili con HFO e ventilazione convenzionale.

Da questi risultati gli autori concludono che la HFOpotrebbe ridurre la mortalità nei pazienti con ARDS se confrontata con la ventilazione convenzionale ed è improbabile che possa causare danno”. Quindi la review “suggerisce che la HFO è un'alternativa sicura ed efficace alla ventilazione convenzionale nei pazienti con ARDS, perlomeno in centri esperti con il suo utilizzo”.


Io mi sento sempre spiazzato davanti alle meta-analisi. Certamente, quando diversi studi su uno stesso argomento offrono risultati contrastanti, le meta-analisi possono essere comode. Ma volendo far parlare i dati per forza, si rischia di non arrivare alla verità. Come quando un presunto colpevole viene pestato durante un interrogatorio: alla fine può arrivare a dire quello che gli altri vogliono. Nello specifico della nostra meta-analisi, molto diversi gli studi tra di loro, impossibili da confrontare le "posologie" ventilatorie di HFO e ventilazioni convenzionali.


La conclusione degli autori di questa meta-analisi mi sembra però equilibrata e giustamente interlocutoria e può essere riassunta in tre punti:




  • la HFO è una metodica che potrebbe ridurre la mortalità nei pazienti con ARDS (concordo con il condizionale utilizzato nell'articolo)

  • è comunque una modalità di ventilazione sicura

  • deve essere affidata a persone (medici ed infermieri) che abbiano una adeguata formazione sulla metodica.



Sono al momento in corso due trial clinici sulla HFO. Tra alcuni anni sapremo qualcosa in più.


Infine mi piace ricordare che la evidence-based medicine ci fornisce indicazioni sull'effetto medio di un trattamento. Ma sappiamo benissimo però che ogni paziente ha le proprie peculiarità. Pazienti diversi rispondono diversamente a ossido nitrico, pronazione, ECMO ed HFO. Cerchiamo di conservare il buon senso e di capire su ogni singolo paziente se una determinato approccio terapeutico è appropriato nel caso specifico. Se c'è un razionale, mettiamo in pratica quello che possiamo e sappiamo fare. Nella ARDS ricorriamo alle strategie di ventilazione non convenzionali quando non riusciamo a mantenere una sufficiente ossigenazione (PaO2 < 60 mmHg) con una ventilazione protettiva. Ci vuole veramente poco per capire se in quel paziente ossido nitrico, pronazione, HFO migliorano la PaO2 consentendo una ventilazione sicura: basta provare. Ci saranno alcuni pazienti che, indipendentemente dai risultati delle meta-analisi, se ne gioveranno mentre altri no. Nelle nostre Terapie Intensive lottano ogni giorno contro la morte le persone vere, non i pazienti medi costruiti dalla statistica.


Reference:


1) Sud S et al .High frequency oscillation in patients with acute lung injury and acute respiratory distress syndrome(ARDS): systematic review and meta-analysis. BMJ 2010;340:c2327

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Lo svezzamento prolungato: un problema veramente difficile.

26 ott 2010

Ricevo e volentieri pubblico un contributo del dott. Ludovico Trianni, specialista in tisiologia e malattie dell'apparato respiratorio, anestesiologia e rianimazione, e responsabile  dell'Unità di Terapia Intensiva Respiratoria di Villa Pineta.


Invito gli amici di ventilab a partecipare alla discussione che Ludovico ci propone.

°_°_°


Lo svezzamento prolungato: un problema veramente difficile. E’ di questo ciò di cui io ed il mio team (medici,infermieri, fisioterapisti specificatamente dedicati, psicologa e dietologa) ci occupiamo quotidianamente nel nostro weaning center. I pazienti che trattiamo provengono tutti dalle rianimazioni presenti nell’ASL di zona e da un centro di cardiochirurgia privato di valenza nazionale.

Il case-mix dal 2003 a tutt’oggi è il seguente:


degenza media reparto di provenienza: 45 gg

tempo medio di PT : 15 gg

età media :  78 a.

rapporto M/F:  1,2/1

Apache II media: 15

Apache II PD media :   25

SAPS II medio: 31

PD SAPS II media: 16

Charlson Index media: 4.5

PaO2/FiO2 ingresso media: 216



Paziente tipo nostro case-mix

Riassumendo i dati suddetti ci troviamo di fronte ad un paziente prevalentemente di sesso maschile, anziano, con un’ età media di 77 a.,  con elevato indice di comorbilità e pressochè costante cuore-polmonare associato a danno polmonare e contemporanea compromissione del mantice (ipossiemia ed ipercapnia), tracheostomizzato dopo diversi tentativi di estubazione,  con prolungato allettamento in ICU (60 gg => CIP costante), in nutrizione artificiale parenterale, enterale o mista (deafferentazione intestinale => gut switched-off)






Domanda: In questo tipo di paziente quali sono le vostre aspettative di weaning dalla VAM e/o dalla tracheostomia?

Legenda:

R:   pazienti respiratori
CV: pazienti cardiovascolari
NM: pazienti neuromuscolari
M/F: maschi/femmine
PD:  prediction of death
PT:   percutaneous tracheostomy
C.I:   charlson Index
CIP:  chronic polineuropathy
CPC: cuore polmonare cronico
MIP:  maximal inspiratory pressure
MEP: maximal espiratory pressure

°_°_°


Grazie Ludovico. Quando capitano in Terapia Intensiva pazienti come quelli che hai descritto, ci si preoccupa spesso di trovare un posto "altrove" per terminare lo svezzamento. Ma tutti dovremmo essere consapevoli delle aspettative da dare a noi stessi e, prima ancora, ai pazienti ed alle loro famiglie.


Quindi, avanti con i commenti. Io ho già pronti i miei, però sarei felice di vedere qualcun altro fare da rompighiaccio. Termino con una considerazione ancora di Ludovico: "Penso che la conoscenza e l'aggiornamento scientifico abbiano nel nostro mondo grande importanza solo se aprono al dibattito, alla riflessione e........al dubbio." Ventilab è nato prorpio con questo spirito.


Ciao a tutti.

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Weaning dalla ventilazione meccanica in tre mosse.

17 ott 2010

Spesso mi viene chiesto quando e come iniziare il weaning dalla ventilazione meccanica. Oggi propongo l'approccio che preferisco per la maggior parte dei pazienti.

Un vecchio adagio dice che lo svezzamento inizia al momento dell'intubazione. Non condivido questa opinione: ad esempio un individuo in ventilazione protettiva spesso deve essere sincronizzato con il ventilatore meccanico e non viceversa. E questo risultato è ottenuto spegnendo l'attività respiratoria del paziente, tutto il contrario del weaning. Una prova dell'efficacia di questo approccio è fornita dallo studio ACURASYS (1), pubblicato un mese fa e da noi anticipato sei mesi prima nel post del 13 marzo: la miorisoluzione profonda continua per le prime 48 ore riduce la mortalità nella ARDS "grave". Cosa di più lontano dal weaning dell'infusione continua di cisatracurium? (e anche oggi sono riuscito a parlare di ARDS!). Quindi esiste un momento per il trattamento aggressivo ed un fase per il weaning. Ma quando questa inizia non dobbiamo perdere tempo!

Possiamo individuare tre fasi che ci portano alla sospensione della ventilazione meccanica. Cerchiamo di definirle:





1. Sospensione della sedazione: Se è vero che non sempre il weaning deve iniziare dopo l'intubazione, è anche vero che bisogna evitare di ritardarlo, ad esempio con l'utilizzo di sedativi. Il processo del weaning quindi inizia con la sospensione della sedazione. Questo è il primo passo che precede ogni altra valutazione. A volte la sospensione della sedazione è un processo graduale, iniziamolo precocemente per non prolungare inutilmente la durata della ventilazione meccanica.
2. Pronto per lo svezzamento. Quando prendere in considerazione un paziente per lo svezzamento dalla ventilazione? Rifacendomi liberamente ad una consensus conference sul weaning dalla ventilazione meccanica (2), ritengo che un paziente DEBBA obbligatoriamente essere preso in considerazione per lo svezzamento dalla ventilazione meccanica (salvo particolari valutazioni che dovrebbero essere motivate sulla cartella clinica) quando:

  • è vigile (occhi aperti) per la maggior parte della giornata

  • tossisce efficacemente le secrezioni tracheobronchiali ed ha una deglutizione coordinata

  • è emodinamicamente stabile (normoteso senza farmaci vasoattivi e  senza tachiaritmie)

  • riesce ad avere almeno 70-80 mmHg di PaO2 con FIO2 < 0,4 e PEEP <8 cmH2O

  • non è tachipnoico (frequenza respiratoria <35/min), non ha respiro rapido e superficiale (frequenza respiratoria/volume corrente in litri < 100) e non ha acidosi respiratoria acuta


Se un paziente ha tutte queste caratteristiche è pronto per lo svezzamento, ma non può essere ancora considerato svezzato dalla ventilazione meccanica. Nei pazienti tracheotomizzati non consideriamo i primi due requisiti: in questo caso dobbiamo togliere solo il ventilatore, non la cannula tracheale.

3. Test di respiro spontaneo. Se un paziente è pronto per lo svezzamento, provo a svezzarlo. Considero un paziente come svezzato se riesce a rimanere in respiro spontaneo con tubo a T (cioè staccato dal ventilatore) per 30 minuti. Per poter rimanere in respiro spontaneo durante questi 30 minuti una persona non deve mai presentare una delle seguenti condizioni:

  • sopore o agitatazione

  • dispnea o respiro paradosso (movimento asincrono torace-addome) 0 utilizzo dei muscoli del collo durante l'inspirazione

  • PaO2 inferiore a 60 mmHgSpO2 minore del 90%

  • acidosi respiratoria acuta

  • aumento della pressione arteriosa o della frequenza cardiaca di più del 15-20 %


Se considero un paziente svezzato, lo estubo IMMEDIATAMENTE (se è intubato) e lo lascio respirare senza supporto ventilatorio.

-°-°-


Le prime due mosse devono essere fatte (o tentate) ogni giorno, la terza solo dopo avere fatto con successo le prime due.


Possono esserci anche approcci diversi, soprattutto nei pazienti con broncopneumopatia cronica ostruttiva. Ma penso che nella maggior parte dei pazienti possa essere appropriato il metodo che abbiamo appena descritto. Che può sembrare banale, ma, come tutti sappiamo, non sempre viene attuato sistematicamente.

E tu condividi il mio approccio? Hai commenti, proposte o domande in merito? Come sempre ti aspetto su ventilab.

References.

1) Papazian L et al. Neuromuscular blockers in early Acute Respiratory Distress Syndrome. N Engl J Med 2010; 363:1107-16

2) Boles JM et al. Weaning from mechanical ventilation. Eur Respir J 2007; 29: 1033–1056
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ARDS e cortisone. Che fare?

9 ott 2010

In queste settimane sono coinvolto nel trattamento di una serie di casi di ARDS molto impegnativi. E inevitabilmente è questo l'argomento che più mi appassiona in questo periodo. Quindi anche oggi ci  occuperemo di ARDS: spero di dare comunque un contributo interessante e prometto che dalla prossima settimana cambieremo argomento.

Cosa ne pensi dell'utilizzo dei corticosteroidi nella ARDS? L'argomento è sicuramente controverso e spesso facciamo scelte di cui non siamo pienamente convinti. Vediamo di fare chiarezza, per quanto possibile.

Esistono solo 3 studi controllati sull'argomento (1-3). Quello più grande (180 pazienti) non mostra differenze di mortalità tra pazienti trattati con cortisone e controlli (1). Gli altri due trial clinici (24 (!) e 91 pazienti), condotti dallo stesso autore, mostrano invece una riduzione della mortalità con l'utilizzo del cortisone (2,3). Un bel problema.

Ma a soccorrerci interviene l'immancabile meta-analisi, pubblicata l'anno scorso, che si conclude affermando che "l'uso di corticosteroidi a basse dosi è associato al miglioramento di mortalità e morbidità ed a una riduzione degli effetti collaterali" (4).

Problema risolto? Credo debbano rimanere molti dubbi. Gli studi considerati nella meta-analisi hanno utilizzato schemi di trattamento diversi tra di loro per dose e durata della terapia ed hanno incluso pazienti con caratteristiche diverse (ed anche uno studio in cui i pazienti non avevano la ARDS!).

Inoltre la percentuale di pazienti con sepsi era molto diversa trai vari studi. E tutti sappiamo che i corticosteroidi possono modificare la mortalità in particolari condizioni di shock settico (5).

Come sempre le meta-analisi si rivelano delle armi a doppio taglio, potenti ed approssimative al tempo stesso!

In definitiva ritengo che per il momento possiamo solo concludere che il cortisone nella ARDS non fa male, forse potrebbe far bene. 

Personalmente ritengo opportuno utilizzare il cortisone in pazienti con ARDS che non migliora entro una settimana dall'insorgenza. Uno schema terapeutico ragionevole potrebbe essere 1-2 mg/kg di metilprednisolone al giorno per 2 settimane, 0.5-1 mg/kg nella terza settimana, quindi graduale sospensione nella quarta settimana.

E tu cosa ne pensi?

Bibliografia:

1) ARDS Network. Efficacy and safety of corticosteroids for persistent acute respiratory distress syndrome. N Engl J Med 2006;354:1671-84

2) Meduri GU et al. Effect of prolonged methylprednisole therapy in unresolved acute respiratory distress syndrome. JAMA 1998; 280:159-65

3) Meduri GU et al. Methylprednisolone infusion in early severe ARDS. Results of a randomized controlled trial. Chest 2007; 131:954-63

4) Tang BMP et al. Use of corticosteroids in acute lung injury and acute respiratory distress syndrome: A systematic review and meta-analysis. Crit Care Med 2009; 37:1594-1603

5) Dellinger RP et al. Surviving Sepsis Campaign: International guidelines for management of severe sepsis and septic shock: 2008. Crit Care Med 2008; 36:296-327

Nota finale: Rauf è deceduto per un infarto acuto del miocardio. Proprio quando iniziavamo a pensare di avercela fatta...
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Versamento pleurico e ARDS - parte seconda

29 set 2010

Forse tutti ricordiamo almeno un paziente che, nonostante un cospicuo versamento pleurico, era svezzato dalla ventilazione meccanica, senza dispnea, e con una PaO2 è maggior di 55-60 mmHg senza ossigenoterapia. Altre volte, in pazienti con insufficienza respiratoria e ventilazione meccanica, dreniamo versamenti pleurici di 2 litri senza osservare miglioramenti significativi della funzione respiratoria. Come si conciliano queste osservazioni con quei casi in cui invece l'evacuazione di un versamento pleurico produce un significativo miglioramento dell'ossigenazione e consente lo svezzamento dalla ventilazione meccanica? Quando conviene drenare un versamento e quando no? Perchè effetti così diversi tra un paziente ed un altro?

Quando drenare un versamento pleurico? A mio parere solo quando questo rappresenta un problema clinico: ritengo inutile drenare una pleura in un paziente svezzato dalla ventilazione, senza segni di infezione, senza ipossiemia e senza dispnea.

Rivediamo il caso di Rauf presentato nel post del 21 settembre: il nostro paziente aveva una grave insufficienza respiratoria associata al versamento pleurico. Quindi abbiamo ritenuto opportuno procedere al drenaggio, rimuovendo oltre due litri di liquido citrino dal cavo pleurico. La radiografia post toracentesi è quella che vedi in alto. La risposta clinica è stata notevole, il rapporto PaO2/FIO2 è passato da 80 a 208 mmHg.

Perchè proprio in Rauf ha funzionato il drenaggio pleurico? Potevamo prevederlo? Forse sì. Prova a pensare alla raccolta di liquido che si trova nel cavo pleurico, tra la gabbia toracica ed i polmoni. Che effetti produce questo versamento su torace (cioè coste e diaframma) e polmoni? L'effetto prevalente è la distensione del torace con una minima compressione dei polmoni: la riduzione del volume polmonare è infatti pari a circa un terzo del volume del versamento pleurico, mentre il restante volume va ad aumentare la distensione del torace (1). E' per questo che spesso l'impatto del versamento sull'ossigenazione non è molto rilevante ed il drenaggio non produce sostanziali miglioramenti della PaO2 (2). Ma ora prova a pensare ad un paziente con un torace molto rigido (cioè poco compliante): il liquido che si accumula nello spazio pleurico avrà più facilità ad espandere il torace o a comprimere il polmone? La risposta è evidente: in questo caso sarà maggiore la compressione del polmone e minore l'espansione del torace. E ci possiamo quindi attendere una maggior efficacia del drenaggio pleurico sull'ossigenazione poichè riduciamo maggiormente la compressione del polmone. Rauf è proprio uno di questi pazienti con torace rigido. Come fare a riconoscerlo? Un primo elemento è la sua elevata pressione addominale (26 cmH2O): l'addome teso comprime verso l'alto il diaframma e quindi rende rigido il torace nella sua parte inferiore, di norma la più distensibile. E' noto che la pressione addominale è direttamente proporzionale all'elastanza toracica, che è la misura della rigidità del torace (3). La diagnosi definitiva di torace rigido può avvenire con il calcolo dell'elastanza toracica (che richiede la misurazione della pressione esofagea): anche questa in Rauf era elevata, come si poteva supporre dai valori di pressione addominale.

Tutte queste spiegazioni possono anche essere complicate ma il messaggio clinico è molto semplice: in teoria il drenaggio pleurico produrrà un miglioramento dell'ossigenazione tanto maggiore quanto più teso è l'addome.

Un saluto a tutti.

Bibliografia:

1) Graf J. Pleural effusion in the mechanically ventilated patient. Curr Opin Crit Care 2009; 15:10-7

2) Doelken P et al. Effect of thoracentesis on respiratory mechanics and gas exchange in the patient receiving mechanical ventilation.Chest 2006; 130:1354-61

3) Gattinoni L et al. Chest wall elastance in acute lung injury/acute respiratory distress syndrome patients. Crit Care 2004; 8:350-5
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Versamento pleurico e ARDS.

21 set 2010

Rauf è un uomo di 41 anni con una ARDS secondaria a polmonite comunitaria.

Il nostro Rauf ci sta mettendo a dura prova. Ha subito mostrato una grave ipossiemia con un rapporto PaO2/FIO2 che oscillava attorno ai 100 mmHg. Abbiamo iniziato una ventilazione protettiva con un volume corrente di circa 400-450 ml (70 kg di peso ideale)ed una PEEP di 20 cmH2O. Con questa impostazione avevamo una pressione plateau di 30 cmH2O associate ad elevati valori di pressione esofagea (25 cmH2O). Quindi pressioni alte dentro agli alveoli (pressione di plateau) e pressioni alte attorno agli alveoli (pressione esofagea): il risultato è una bassa pressione transpolmonare (in questo caso era di 5 cmH2O) e di conseguenza un ridotto stress per gli alveoli. Quindi abbiamo accettato serenamente anche i 30 cmH2O di pressione di plateau.

Dopo alcuni giorni abbiamo raccolto il risultato della nostra condotta: sospendiamo l'ossido nitrico (con il quale ci eravamo aiutati per un paio di giorni), abbiamo un persistente miglioramento della funzione polmonare con un PaO2/FIO2 superiore a 300 (PEEP 15 cmH2O) ed iniziamo la ventilazione assistita con pressure support.

Ma dopo 48 ore nuovo peggioramento, con ipossiemia simile a quella dei primi giorni e necessità di ventilazione controllata con volumi corrente ridotto a 300 ml per mantenere una pressione di plateau a 30 cmH2O. E la radiografia del torace che vedi in alto, eseguita ieri, mostrava la comparsa di un versamento pleurico destro. L'ecografia polmonare, ormai routinaria nei nostri pazienti, stimava il volume del versamento in circa 1500 ml.

E qui volevo arrivare: il versamento pleurico è un reperto non raro nei pazienti in Terapia Intensiva. Come ti comporti di fronte ad esso? Quando e come ritieni opportuno drenarlo? Quali vantaggi ti aspetti?

Nel caso specifico di Rauf avresti drenato il versamento pleurico? Che risultati ti saresti aspettato?

Prossimamente ti racconterò cosa abbiamo fatto noi e come è andata a Rauf. E faremo alcune considerazioni generali sulle implicazioni cliniche di un versamento pleurico nei pazienti sottoposti a ventilazione meccanica e su ciò che ci possiamo aspettare drenandolo.

Nel frattempo mi farebbe molto piacere avere dei feed-back dagli amici che seguono ventilab: quali abitudini e convinzioni hai nel decidere di drenare un versamento pleurico? Sei aggressivo o attendista?
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Spirometria e valutazione preoperatoria.

12 set 2010

Un amico di ventilab mi chiesto “spiegazioni circa l'utilita', l'interpretazione e l'indicazione ad eseguire le prove di funzionalita' respiratoria per quanto concerne la gestione del paziente con malattia del paranchima polmonare e/o della gabbia toracica in sala operatoria.”.

Quando ci troviamo di fronte al referto dei test di funzione polmonare, spesso ci sentiamo un po' spaesati in selva di numeri e grafici. Ma in realtà il compito è più semplice di quanto si possa pensare.

Il test più frequentemente eseguito è la spirometria forzata. Il paziente deve "inspirare più che può", cioè compiere un'inspirazione massimale a capacità polmonare totale, e quindi espirare il più forte e velocemente possibile per svuotare completamente i polmoni, cioè arrivare a volume residuo. Con questa manovra misuriamo due valori importanti nella pratica clinica: il volume totale che il paziente è riuscito ad espirare è la capacità vitale forzata (indicata come FVC, forced vital capacity), mentre il volume esalato nel primo secondo di espirazione prende il nome di FEV1 (forced expiratory volume in one second) (1).

Un soggetto normale riesce ad espirare nel primo secondo circa il 80% del volume totale, quindi il rapporto FEV1/FVC è circa 80%. Nelle malattie ostruttive (come la broncopneumopatia cronica ostruttiva, BPCO) il flusso espiratorio si riduce e quindi nel primo secondo si riesce ad espirare meno del 70% del volume totale. Ne consegue che il rapporto FEV1/FVC è inferiore al 70%, requisito indispensabile per fare diagnosi di BPCO. Per altri approfondimenti vedi il post del 10 giugno. Nelle malattie restrittive (es. fibrosi polmonare, cifoscoliosi, ecc.) invece è ridotta la FVC con un FEV1/FVC aumentato (>85-90%) (2).

Ma è necessario sapere se il paziente ha una malattia polmonare evidenziata dalla spirometria? Di norma la risposta è NO, a meno che non debba essere sottoposto ad una resezione polmonare. Infatti l'utilizzo routinario della spirometria preoperatoria non è raccomandato (3). Tuttavia, sappiamo che nei pazienti anziani con patologie ostruttive o restrittive gravi il rischio perioperatorio è aumentato (4). In questi casi la valutazione della spirometria può migliorare la valutazione del rischio operatorio, elemento utile nei casi in cui sia opportuna una ponderata valutazione rischi/benefici dell'intervento. Inoltre la spirometria può essere utile per selezionare i pazienti che meritano una gestione perioperatoria con l'aumento della terapia broncodilatatrice e con la fisioterapia respiratoria (3).

Diverso è il caso dei pazienti sottoposti a resezione polmonare. In questi il valore di FEV1 dopo broncodilatatore consente di individuare chi può essere sottoposto a pneumonectomia (FEV1 > 2 litri) e chi a lobectomia (FEV1 > 1.5 litri) con basso rischio perioperatorio (5). Qualora il FEV1 sia inferiore rispetto a tali valori, è opportuno ricorrere a valutazioni aggiuntive come la diffusione del CO (DLCO), la stima di FEV1 e DLCO postoperatori, il massimo consumo di O2 sotto sforzo (5-7).

Nella mia pratica quotidiana non richiedo la spirometria preoperatoria in pazienti che debbano essere sottoposti ad interventi indispensabili perchè non penso modifichi la mia condotta anestesiologica. Ritengo invece possa che la spirometria possa aiutare il paziente a valutare correttamente il rischio operatorio quando è candidato ad interventi non indispensabili.

Un cordiale saluto a tutti gli amici di ventilab.it (anche nel vacanziero mese di agosto abbiamo superato i 500 accessi unici!).

Bibliografia:

1) Miller MR et a. Standardisation of spirometry. Eur Respir J 2005; 26: 319-38

2) Pellegrino R et al. Interpretative strategies for lung function tests. Eur Respir J 2005; 26: 948-68

3) Qaseem A et al. Risk assessment for and strategies to reduce perioperative pulmonary complications for patients undergoing noncardiothoracic surgery: a guideline from the American College of Physicians. Ann Intern Med 2006;144:575-80

4) Story DA. Complications and mortality in older surgical patients in Australia and New Zealand (the REASON study): a multicentre, prospective, observational study. Anaesthesia 2010; 65:1022-30




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ARDS e pervietà del forame ovale: non è un dettaglio!

6 set 2010

Oggi voglio segnalare un articolo pubblicato in questi giorni su Critical Care Medicine (1). A prima vista l'argomento ("Prevalenza e prognosi dello shunt attraverso il forame ovale pervio durante ARDS") può sembrare per "addetti ai lavori": in realtà le implicazioni pratiche sono sicuramente rilevanti e spero quindi che questo studio appassioni tutti come ha fatto con me.

Iniziamo ad analizzare insieme l'articolo. Lo studio ha lo scopo di valutare prevalenza ed implicazioni cliniche dello shunt da pervietà del forame ovale nei pazienti con ARDS. Come si vede nella figura il forame ovale è un foro nel setto interatriale che normalmente è presente nel feto e che si chiude spontaneamente nei primi tre mesi di vita.

Perchè è venuto in mente agli autori di studiare questo problema? Perchè è una condizione frequente, in sede autoptica circa un quarto degli individui presenta una pervieta' del forame ovale.

Perchè studiare la pervietà del forame ovale nei pazienti con ARDS? Nei soggetti sani la pervietà del forame ovale raramente determina il passaggio diretto di sangue da un'atrio all'altro (shunt): normalmente la presenza di un lembo previene il passaggio del sangue da sinistra a destra, mentre la pressione maggiore nell'atrio sinistro rispetto a quello destro evita il passaggio di sangue da destra a sinistra. Ma la ARDS è caratterizzata da ipertensione polmonare e richiede l'utilizzo di PEEP elevate: entrambe queste condizioni favoriscono l'aumento delle pressione nell'atrio destro e quindi lo shunt dall'atrio destro a quello sinistro.

La conseguenza clinica dello shunt destro-sinistro è l'ipossiemia: la saturazione del sangue che arriva al ventricolo sinistro e quindi alla circolazione sistemica si riduce perchè nell'atrio sinistro si mescolano il sangue ossigenato proveniente dal circolo polmonare con il sangue venoso proveniente dall'atrio destro.

Nello nostro studio sono stati studiati 203 pazienti con ARDS e la presenza di shunt destro-sinistro era valutata con l'ecocardiografia transesofagea: si iniettava in vena centrale un bolo di 10 ml di liquido contenente 0,5 ml di aria e si osservava se almeno 10 bolle d'aria comparivano nell'atrio sinistro dopo aver opacizzato l'atrio destro.

Il 19% dei pazienti studiati aveva uno shunt dovuto alla pervietà del forame ovale.

Alcuni pazienti che non avevano shunt destro-sinistro lo sviluppavano aumentando la PEEP. Viceversa alcuni pazienti con shunt smettevano di averlo riducendo la PEEP.

Alcuni pazienti con shunt erano stati sottoposti, per necessità clinica, all'inalazione di ossido nitrico o alla pronazione. L'ossido nitrico (che riduce la pressione in arteria polmonare e quindi nelle sezioni destre del cuore) aboliva lo shunt in alcuni pazienti, mentre la pronazione non aveva alcun effetto.

L'effetto di differenti valori di PEEP è stato studiato in una parte di pazienti sia con che senza shunt. Nei pazienti con shunt l'aumento della PEEP non migliorava il PaO2/FIO2, mentre nei pazienti senza shunt si osservava il progressivo aumento dell'ossigenazione con l'aumento della PEEP. La mancata risposta alla PEEP ha un potere predittivo positivo del 80% per la diagnosi di shunt secondario a pervietà del forame ovale.

Quali le implicazioni cliniche di tutto ciò, a mio giudizio?

  1. lo shunt destro-sinistro è una concausa frequente di ipossiemia nei pazienti con ARDS (1 su 5);

  2. se l'ipossiemia non migliora aumentando la PEEP abbiamo l'80% di probabilità di avere uno shunt destro-sinistro. La conferma della diagnosi possiamo averla con l'ecocardiografia transesofagea;

  3. nei pazienti con shunt destro-sinistro si dovrebbe scegliere la PEEP minima indispensabile per ridurre il rischio di VILI (ventilator-induced lung injury). E' quindi raccomandabile l'individualizzazione del valore di PEEP, come gli amici del Corso di Ventilazione Meccanica sanno bene.

  4. i pazienti con ARDS non sono tutti uguali e quindi non esistono ricette che vanno bene per tutti.


Quest'ultimo punto è veramente importante, perchè è un concetto che non vale solo per la ARDS ma per tutti i pazienti ventilati: non basta appiccicare un'etichetta ad un paziente (BPCO, ARDS, VAP, VILI, VIDD, weaning prolungato,...) per ventilarlo bene. Ogni singolo paziente merita di essere capito nella propria unicità per poter essere ventilato in maniera appropriata. Questo è l'approccio che cerchiamo di trasmettere anche nel nostro Corso di Ventilazione Meccanica. Questa è la mentalità che bisogna avere tutti i giorni al letto del paziente.



1)Mekontso Dessap A et al. Prevalence and prognosis of shunting across patent foramen ovale during acute respiratory distress syndrome. Crit Care Med 2010; 38:1786-92


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